di Vincenzo Ferrari

Nota redazionale – Relazione tenuta, su invito della Scuola Superiore della Magistratura, nell’Aula Magna della Suprema Corte di Cassazione il 20 febbraio 2018.

Sommario

1. Una premessa “ideologica”

2. Processo del lavoro e fallimento

3. “Par condicio creditorum” e “vis attractiva”

4. Stato attuale dell’arte

5. Questioni aperte

6. Prospettive e auspici

1. Una premessa “ideologica”

Il processo non è neutro rispetto all’assetto delle situazioni giuridiche sostanziali che in esso vengono dibattute. Tale assioma, riferibile al diritto processuale tout court, diviene teorema se si prendono in considerazione le conseguenze che, anche in una prospettiva di analisi economica del diritto1, le regole processuali possono comportare sul piano del diritto sostanziale giustiziabile.

Corollario di siffatto teorema è la costatazione di come le “anomalie” del processo, non limitandosi ad una valenza puramente processuale, incidano in realtà sul contenuto dei diritti – e naturalmente delle posizioni passive ad essi correlate – alla cui tutela il processo è funzionale. Sicché le questioni di rito e di competenza che emergono nella prassi vanno ponderate anche nel loro risvolto di questioni di diritto sostanziale.

Ciò assume un rilievo pratico non di poco conto, sol che si consideri quanto il discrimine fra questioni di rito e questioni di competenza faccia la differenza, già sul piano processuale, con indubbie ricadute su quello sostanziale:

a) l’opzione per un rito anziché per un altro rinviene il proprio limite soltanto «nella manifesta irragionevolezza ed arbitrarietà»2;

b) l’errore nella scelta del rito non consente la proposizione del regolamento di competenza;

c) l’errore di rito non può essere fatto valere da chi abbia scelto il rito adottato o ne abbia chiesto l’adozione;

d) infine, l’errore di rito di per sé non può essere dedotto come motivo d’impugnazione, a meno che esso non abbia inciso sul contraddittorio o sull’esercizio del diritto di difesa o non abbia determinato uno specifico pregiudizio processuale3.

Nel caso del processo del lavoro, concepito dal legislatore del 1973 (legge 11 agosto 1973 n. 533) in funzione di una tutela – parzialmente differenziata rispetto al rito ordinario – delle situazioni soggettive normalmente sbilanciate che si connettono alle dinamiche del rapporto di lavoro, il punto di vista funzionale consente di cogliere le ricadute che le regole processuali hanno sulle posizioni sostanziali delle parti. Basti l’esempio di come stia incidendo pesantemente sulla parte debole del rapporto, disincentivandone l’esercizio del diritto di azione e di difesa, l’introduzione – per altro generalizzata in sede di modifica dell’art. 92, 2° comma, c.p.c. – della regola della soccombenza nella liquidazione delle spese giudiziali, della quale è stato recentemente auspicato il superamento ed il ritorno alla compensazione per ragioni di equità4.

2. Processo del lavoro e fallimento.

Quando il rapporto di lavoro venga ad essere inciso dalla vicenda del fallimento del datore di lavoro, come è stato acutamente osservato5, è inevitabile il verificarsi di punti di frizione fra “due microcosmi in endemico contrasto” (il diritto del lavoro e il diritto fallimentare) “giacché ciascuno dei due, ed a proprio modo, deroga alcune regole generali del diritto civile, per rispondere ad esigenze già in astratto collidenti: il diritto del lavoro per favorire il lavoratore dipendente (destinato ad assumere la veste di creditore dell’imprenditore fallito); il diritto fallimentare per garantire, sia pure con le sbavature introdotte dalla riforma della legge fallimentare, l’attuazione del principio della par condicio creditorum”.

Sul piano processuale, la collisione fra i due microcosmi incontra uno snodo fondamentale nell’art. 52 l. fall., in virtù del quale ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione ed anche se prededucibile, va accertato secondo le norme stabilite dal titolo V della legge fallimentare, salvo diverse disposizioni di legge. Norma alla luce della quale la Suprema Corte6 ha ritenuto irrilevante l’eliminazione, dal testo dell’art. 24 nella versione novellata, dell’inciso «anche se relative a rapporti di lavoro». Tale snodo, tuttavia, si rivela inefficiente nel momento in cui la vis attractiva del foro fallimentare, sancita dall’art. 24 l. fall., fa emergere nella prassi giudiziaria questioni concernenti l’individuazione del giudice dinanzi al quale va introdotta una pretesa creditoria nei confronti di un debitore dichiarato fallito, ponendo il problema che, se anche impropriamente formulate in termini di competenza, sono in realtà questioni di rito, di modo che, qualora sia proposta una domanda diretta a far valere, nelle forme ordinarie, una pretesa creditoria nei confronti del fallimento dell’obbligato e il giudice adìto dichiari l’improcedibilità della domanda, perché non introdotta in sede concorsuale nelle forme dell’accertamento del passivo, la relativa pronuncia non è assoggettabile a regolamento di competenza, ma è impugnabile con l’appello, in quanto, ancorché formalmente espressa in termini di declinatoria di competenza del giudice adìto in favore di quello fallimentare, non è sostanzialmente una statuizione sulla competenza, ma sul rito che la parte deve seguire7.

Questioni di rito e questioni di competenza si intrecciano, nella pratica, fino a complicare le conseguenze regolatrici che lo snodo processuale dovrebbe semplificare, sicché è dato rilevare anche l’affermazione giurisprudenziale secondo cui, qualora una domanda sia diretta a far valere, nelle forme ordinarie, una pretesa creditoria soggetta al regime del concorso fallimentare, il giudice erroneamente adìto è tenuto a dichiarare non la propria incompetenza, ma l’inammissibilità, l’improcedibilità o l’improponibilità della domanda, siccome proposta secondo un rito diverso da quello previsto come necessario dalla legge, quindi inidonea a conseguire una pronuncia di merito, configurando detta questione una vicenda litis ingressum impediens, concettualmente distinta dalla incompetenza, che deve essere esaminata e rilevata dal giudice di merito prima ed indipendentemente dall’esame della questione di competenza che, eventualmente, concorra con essa8.

3. “Par condicio creditorum” e “vis attractiva”.

Come è noto l’art. 52 l. fall. sancisce che «ogni credito deve essere accertato secondo le norme stabilite dagli art. 93 ss.». Pertanto chi assume di essere creditore del fallito e vuole trasformarsi da creditore concorsuale in creditore concorrente deve presentare domanda di ammissione al passivo9. Va, quindi, sottolineato che la ragione dell’attrazione al foro fallimentare non deriva tanto dal disposto di cui all’art. 24 l. fall., che non opera in relazione ai diritti preesistenti al fallimento, quanto piuttosto dal fatto che il rito giudiziale è un percorso obbligato, presupponendo la presentazione di una domanda di ammissione al passivo, per cui la devoluzione al foro fallimentare discende direttamente ed inequivocabilmente dal combinato disposto di cui all’art. 52 e 93 l. fall.10.

In ragione di tale asseto normativo le dinamiche processuali indotte dalla vis attractiva del foro fallimentare si sono nel tempo cristallizzate secondo le seguenti direttrici:

a) tutti i crediti vantati nei confronti del fallito debbono essere esaminati in sede concorsuale a meno che il creditore non intenda ottenere un titolo da far valere in epoca postconcorsuale11;

b) le azioni di mero accertamento se strumentali e prodromiche all’ammissione al passivo debbono, esse pure, venire radicate in sede concorsuale12;

c) le controversie di lavoro non si sottraggono a questa regola13;

d) più complessa, invece, si è rivelata l’applicazione della regola con riferimento ai diritti che nascono dalle impugnative di licenziamento; secondo la giurisprudenza più vicina alle esigenze delle procedure (e di solito tali pronunce sono state rese dalla prima sezione civile, le altre dalla sezione lavoro) la soluzione più coerente sarebbe quella di attrarre alla cognizione del foro concorsuale ogni controversia nella quale il dipendente fa valere, anche se solo in via subordinata, una propria pretesa creditoria contro il datore di lavoro fallito14. Tale interpretazione ha precisato che le impugnative di licenziamento restano di competenza del giudice del lavoro se il lavoratore subordinato chieda esclusivamente la reintegrazione nel posto di lavoro e questa sia materialmente possibile o perché è in corso l’esercizio provvisorio o perché l’azienda sia stata affittata ed i dipendenti sono stati assunti dall’affittuario. Secondo altre pronunce residua uno spazio per la competenza esclusiva del giudice del lavoro quando, pur non essendo la reintegrazione più possibile per cessazione dell’attività dell’impresa, sicché l’unica tutela apprezzabile resti quella risarcitoria, permane l’interesse del lavoratore ad ottenere una pronuncia limitata all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento, al fine di identificare esattamente il momento al quale va riferito l’effetto estintivo del rapporto, e, quindi, la durata complessiva di questo, utile per la determinazione dei conseguenti crediti, di natura retributiva e risarcitoria, da far valere in sede concorsuale15; contiguo a tale indirizzo è quello per il quale un’ulteriore soluzione è stata ravvisata nella normale distribuzione della competenza fra giudice del lavoro e giudice fallimentare a seconda che il petitum sia la declaratoria o meno della legittimità del licenziamento e l’ordine di reintegrazione di cui all’art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300, ovvero la richiesta di contenuto patrimoniale proposta in correlazione alla declaratoria di illegittimità del licenziamento16.

4. Stato attuale dell’arte.

L’ars interpretandi è una virtù che la giurisprudenza esercita quando, rifuggendo dalle tentazioni di dare corpo ad una figura di giudice legislatore, compie quell’opera di “rettificazione” o “correzione” che, rispetto al testo necessariamente generico della legge, già Aristotele indicava come necessaria a fare giustizia nel caso particolare17.

Un esempio di questa virtù è dato da una recente sentenza della sezione lavoro18 la cui massima ufficiale recita: “Nel caso di liquidazione coatta amministrativa (o di amministrazione straordinaria) della società datrice (nella specie, una banca cooperativa), l’impugnativa del licenziamento (nella specie, intimato a un dirigente) deve essere proposta o proseguita dinanzi al giudice del lavoro, mentre divengono improponibili o improseguibili temporaneamente (ossia per la durata della procedura) le azioni del lavoratore dirette ad ottenere una condanna pecuniaria della datrice di lavoro, anche se accompagnate da domande di accertamento o costitutive aventi funzione strumentale”.

In motivazione la Suprema Corte, sostiene tale principio – riferibile a tutte le procedure concorsuali – affermando che il criterio «è uno solo e molto chiaro: le azioni non aventi ad oggetto la condanna» del datore di lavoro «al pagamento di una somma di denaro restano al giudice del lavoro … e, tra queste, rientrano senz’altro quelle dirette ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento …». Pertanto, il giudice del lavoro, dopo l’assoggettamento del datore alla procedura concorsuale, deve continuare a occuparsi, in particolare, dell’accertamento del rapporto di lavoro subordinato, se pure questo essenziale fatto prodromico sia contestato, nonché della nullità, inefficacia, illegittimità del licenziamento «e/o» della reintegrazione nel posto di lavoro.

Sancendo in maniera chiara concetti essenziali, ai fini del riparto di attribuzioni fra i giudici del lavoro e fallimentare, la decisione della sezione lavoro mostra di voler superare le diverse interpretazioni che in precedenza hanno caratterizzato una produzione giurisprudenziale variegata, per peculiarità e mutevolezza della casistica, fino ad approdi interpretativi dissonanti che hanno richiesto anche l’intervento delle sezioni unite19.

Nella giurisprudenza più risalente20 si coglieva un diverso approccio, più vicino «alle esigenze delle procedure concorsuali», orientato a ritenere che «la soluzione più coerente sarebbe quella di attrarre alla cognizione del foro concorsuale ogni controversia nella quale il dipendente fa valere, anche se solo in via subordinata, una propria pretesa creditoria contro il datore di lavoro fallito». Questa lettura lasciava le impugnative di licenziamento alla cognizione del giudice del lavoro (all’epoca, il pretore) soltanto nel caso di domanda del lavoratore subordinato avente come oggetto «esclusivamente la reintegrazione nel posto di lavoro» ancora «materialmente possibile o perché in corso l’esercizio provvisorio o (forse) perché l’azienda è stata affittata e i dipendenti sono stati assunti dall’affittuario».

L’evoluzione della legislazione in materia di licenziamenti, con il progressivo ridursi delle ipotesi in cui il giudice del lavoro può ordinare la reintegrazione, per un verso ha complicato il problema della relazione fra giudice del lavoro e giudice fallimentare, facendo ipotizzare il rischio di un depotenziamento della normativa sostanziale nel comparto in cui opera il primo, per l’altro ha indotto una ricerca di motivi di resistenza delle azioni lavoristiche in materia di licenziamento rispetto alla regola dell’attrazione dinanzi al giudice fallimentare.

Si deve ad una sentenza della sezione lavoro21, la precisazione che l’ammissione al passivo fallimentare del credito del lavoratore a titolo di trattamento di fine rapporto non fa cessare il potere/dovere del giudice del lavoro di provvedere sull’impugnativa del licenziamento, in quanto l’insinuazione ex art. 93 l. fall. non implica «rinunzia all’impugnazione del licenziamento», che è «provvisoriamente idoneo ad estinguere il rapporto facendo sorgere il diritto al t.f.r.». La stessa sentenza ha chiarito che il riparto in esame «vale anche nell’ipotesi di licenziamenti collettivi», ma la conclusione confermativa della competenza del giudice del lavoro sia sulla legittimità del licenziamento sia sulla domanda di reintegrazione si connota per il distinguo, riduttivo delle attribuzioni del giudice del lavoro, che impone a quest’ultima istanza del lavoratore di non essere «accompagnata da pretese creditorie».

Più recentemente, la stessa sezione lavoro22, dopo avere confermato il perimetro delle domande conoscibili dal giudice del lavoro, ha rimarcato la diversità, sul versante delle procedure concorsuali, fra l’attrazione del foro fallimentare e la «improponibilità o improseguibilità della domanda, per difetto temporaneo di giurisdizione», durante la «fase amministrativa di accertamento dello stato passivo davanti ai competenti organi della procedura di liquidazione coatta amministrativa o dell’amministrazione straordinaria», «ferma restando l’assoggettabilità del provvedimento attinente allo stato passivo ad opposizione o impugnazione davanti al tribunale fallimentare».

Il criterio di compatibilità fra giudice del lavoro e giudice fallimentare venne posto da una decisione delle sezioni unite23 nel senso della cognizione del giudice del lavoro soltanto sulla domanda di accertamento della illegittimità del recesso da parte del datore poi fallito, da un lato, perché la disciplina processuale ex lege 533/73 «è pur sempre di carattere generale, come quella anteriore», e «non può, perciò, prevalere sulla legge speciale, e cioè su quella fallimentare», dall’altro, perché è la pronuncia del giudice del lavoro che, «nel caso di accoglimento della domanda, può far ‘riprendere vita’ al rapporto di lavoro, ‘non … soggetto a risoluzione per il fallimento’».

Pur se ancorata alla funzione ripristinatoria dell’art. 18 dello Statuto all’epoca vigente, la giurisprudenza basatasi sul richiamato arresto delle sezioni unite esprimeva la consapevolezza che il licenziamento illegittimo non consiste esclusivamente in un fatto produttivo di crediti pecuniari, come sono le mere lesioni del patrimonio e dell’integrità individuale, ma assume rilevanza giuridica su diversi piani, quali i pregiudizi e le sofferenze che colpiscono la persona del dipendente che venga illegittimamente estromesso dal lavoro, con mortificazione non solo delle aspettative contrattuali del lavoratore, ma anche nella sfera personale e familiare.

E’ stato, quindi, posto in evidenza che:

a) «la reintegrazione nel posto di lavoro» ha, «per definizione, una propria specifica concreta materiale consistenza», sicché «non è configurabile come mero strumento di pretese economiche»;

b) «permangono molteplici diritti del lavoratore, che, connessi alla dichiarazione di illegittimità od inefficacia del licenziamento od all’ordine di reintegrazione, conferiscono alla richiesta della relativa pronuncia ulteriore giuridico interesse», come sono «le indennità di cassa integrazione nonché di disoccupazione, e di mobilità e l’iscrizione nelle relative liste»;

c) tali posizioni soggettive, «non investendo crediti nei confronti del datore e non essendo pertanto coinvolt[e] nell’esigenza della par condicio creditorum, restano ben distint[e] dall’interesse a conseguire mere differenze retributive»24.

In materia di licenziamenti, la problematica del riparto di attribuzioni fra giudice del lavoro e fallimentare non può prescindere dalle riforme dell’art. 18 l. 300/70, apportate dalle leggi c.d. Fornero e Jobs Act nel senso di «ridurre lo spettro protettivo, secondo uno schema scalare»25 fino a giungere alla «sostituzione dell’originaria funzione di riequilibrio degli assetti di potere nel rapporto di lavoro, basato sulla garanzia statutaria del posto di lavoro, con quella della massimizzazione del benessere secondo i postulati dell’analisi economica del diritto»26.

La giurisprudenza dovrà confrontarsi col tema, già avvertito in dottrina27.

5. Questioni aperte.

Nella misura in cui vis attractiva del tribunale fallimentare e par condicio creditorum costituiscono i presupposti della collisione dei due microcosmi del processo del lavoro e di quello concorsuale, si dovrebbe essere certi che una tale collisione non possa verificarsi per quelle situazioni lavorative, diverse dal licenziamento ma ad esso assimilabili sotto il profilo sia della strutturale estraneità allo scopo del processo fallimentare, sia delle modalità dell’accertamento in sede giudiziaria.

Nelle controversie aventi ad oggetto, a titolo esemplificativo, sanzioni disciplinari conservative, mansioni superiori, demansionamento, trasferimento, conversione di contratti a termine, mobbing, visite di controllo, tutela della maternità e della paternità, attività antisindacale (materia, quest’ultima, in cui l’antagonista del datore fallito non è il lavoratore bensì un soggetto diverso, collettivo, cioè l’organizzazione sindacale), non dovrebbero porsi né questioni di rito né questioni di competenza – indipendentemente dal fatto che le une finiscano per porsi sotto le mentite spoglie delle altre – per difetto operativo della vis attractiva e/o per insussistente esigenza di salvaguardare la par condicio creditorum.

Nella giurisprudenza intervenuta su vicende concorsuali del datore, che come si è visto si è occupata diffusamente del tema del licenziamento, si rinvengono però poche tracce di disamina di tali diverse situazioni, consistenti per lo più in cenni incidentali, ma la rilevanza pratica del fenomeno è notevole, soprattutto nei casi di procedure che concernono la crisi di imprese di grandi dimensioni, con molti dipendenti, la cui attività non cessi con la dichiarazione di insolvenza.

Un caso particolare risulta essere stato vagliato in una decisione della sezione lavoro28 che, a fronte della domanda di un lavoratore tesa a rivendicare «il diritto a qualifica superiore» e il «ripristino delle mansioni precedenti», ha considerato soltanto la componente risarcitoria di tale iniziativa processuale in relazione al «danno da dequalificazione», sancendo che «tutte» le «pretese» «dovevano essere proposte non dinanzi al giudice del lavoro, ma dinanzi al tribunale fallimentare, il cui accertamento è l’unico titolo idoneo per l’ammissione allo stato passivo e per il riconoscimento di eventuali diritti di prelazione».

Come è stato rilevato in dottrina29, tale decisum, fondandosi sulla presupposta affermazione secondo cui il licenziamento sarebbe l’unica ipotesi riconosciuta dalla giurisprudenza per la sopravvivenza della giurisdizione del lavoro, “conduce al risultato giuridico inaccettabile, quindi sbagliato, della sostanziale abolizione, in danno dei dipendenti occupati da imprese sottoposte a procedure concorsuali, del controllo giudiziario sulle condotte datoriali contrarie a norme imperative, pattuizioni di fonte collettiva e clausole del contratto individuale, il cui effetto non consiste soltanto in un pagamento, a titolo di retribuzione o risarcitorio o indennitario, ma legittima innanzitutto un intervento di tutela in funzione ripristinatoria, perché cessi subito la condizione lavorativa contra ius e il rapporto di lavoro rientri e si svolga nel solco della legalità”. Considerazione, questa, che conduce facilmente a rappresentarsi “le gravi anomalie che, sul versante fragile del lavoro subordinato, si verificherebbero nell’ipotesi di generale sostituzione del giudice fallimentare a quello del lavoro. Basta porsi il quesito se sia compatibile con il nostro evoluto impianto di legislazione sociale che, alla richiesta di protezione di una lavoratrice adibita a mansioni fisicamente pesanti durante il periodo di interdizione assoluta ante o post partum, la giurisdizione corrisponda soltanto con l’eventuale successivo riconoscimento di una somma di denaro da insinuare al passivo del datore”.

La questione, quindi, non è se il giudice del lavoro debba occuparsi del licenziamento del dipendente di impresa sottoposta a procedura concorsuale e delle altre assimilabili situazioni immanenti alla relazione lavorativa, ma sino a che punto possa averne conoscenza e in vista di quali pronunce.

Questione delicata perché ogni statuizione giudiziale favorevole al lavoratore può comportare un aggravio per la gestione del patrimonio del datore/debitore fallito e anche le sentenze dichiarative del giudice del lavoro, se riferite a somme determinate o determinabili, possono tradursi in un vincolo inammissibile, per gli organi della procedura concorsuale, nell’attività di verifica dei crediti del lavoratore meritevoli di insinuazione nel passivo del datore.

6. Prospettive e auspici.

Dicevamo inizialmente che il processo non è neutro rispetto all’assetto delle situazioni giuridiche sostanziali che in esso agiscono. La conservazione dell’investitura del giudice del lavoro nelle controversie lavoristiche che intersecano procedure concorsuali scaturisce da esigenze, immanenti nell’ordinamento, che possono così sintetizzarsi:

a) necessità di tutelare beni del lavoratore licenziato sui quali il giudice fallimentare non possiede gli strumenti processuali per intervenire, tra i quali in particolare la ricostituzione del rapporto di lavoro, laddove sia possibile la reintegra;

b) giustiziabilità di quei diritti dei quali il lavoratore, per effetto del licenziamento, diventa titolare in relazioni giuridiche con soggetti diversi dal datore di lavoro, senza un diretto coinvolgimento di quest’ultimo, come i diritti previdenziali, sui quali il giudice fallimentare non ha titolo per interloquire;

c) salvaguardia della possibilità di riconoscimento delle violazioni della dignità del lavoratore, come avviene nel caso di licenziamento ingiurioso o persecutorio o vessatorio30, sanzionabile anche mediante il risarcimento del danno morale31;

d) riserva di spazi a possibili pronunce, suscettibili di passare in giudicato, che appurino la pregressa esistenza e lo stato del rapporto di lavoro, quale presupposto fattuale di ogni possibile conseguenza giuridica.

Tali esigenze portano ad escludere l’efficienza di qualsiasi scelta normativa o opzione giurisprudenziale che voglia affidarne il compito di tutela al giudice fallimentare, il cui mandato ex lege, quanto all’accertamento del passivo, è finalizzato e limitato a garantire l’unità dell’esecuzione nel concorso delle posizioni creditizie.

Le decisioni che spettano al giudice del lavoro investono l’esistenza e la configurazione del diritto vantato dal lavoratore, le ricadute retributive, risarcitorie e indennitarie di tale attività, accertativa e di qualificazione. Esse non possono che essere definite nel medesimo ambito, normativo e di materia, al quale appartengono, allo stesso modo dei riflessi interdittivi, ma mediante statuizioni esclusivamente dichiarative, con il limite costituito dal divieto di emettere pronunce di condanna a carico del procedimento concorsuale.

Anche la scelta di scindere la cognizione fra an e quantum del credito, comporterebbe uno sconfinamento del giudice fallimentare nella perimetrazione della tutela lavoristica, depotenziando la funzione del giudice del lavoro rispetto alle finalità per cui il rito del lavoro è stato istituito in maniera differenziata da quello ordinario. Esigenza della quale sembra essersi fatta interprete la sezione lavoro con una decisione32 che ha ritenuto la domanda di condanna generica al risarcimento del danno, accessoria all’impugnazione del licenziamento, rientrante nella cognizione del giudice del lavoro.

La stessa sezione lavoro ha fatto, poi, registrare un’apertura verso l’aspettativa di una maggiore perimetrazione della tutela lavoristica, affermando la permanenza della competenza funzionale del giudice del lavoro nel giudizio per l’accertamento della qualifica nei confronti del datore di lavoro fallito33.

Anche sul piano legislativo, il superamento della concezione punitiva del fallimento e la stessa sostituzione semantica del termine nel meno afflittivo concetto di “liquidazione giudiziale” lasciano ben sperare che il governo della crisi d’impresa venga affidato a strumenti i quali, senza penalizzare la massa, consentano di valorizzare le possibilità di continuare nell’impresa e salvaguardare l’occupazione.

Il successo di una riforma, tuttavia, non può dipendere solo dagli auspici iniziali, che devono inevitabilmente confrontarsi con le norme di attuazione e, talvolta, con gli imponderabili fattori dell’eterogenesi dei fini, i cui percorsi non sono prevedibili e si rivelano soltanto a posteriori.

Nel mutevole quadro normativo che la riforma del diritto concorsuale potrà assumere fra decreti delegati e fattori imponderabili dell’eterogenesi dei fini, sarà compito della giurisprudenza garantire l’ambito giurisdizionale appropriato a tutelare diritti la cui vanificazione e il cui depotenziamento costituirebbero un vulnus per il valore fondante della Costituzione repubblicana, in funzione del quale è stato pensato e voluto il processo del lavoro.

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Note

1 Sugli approcci giureconomici, ed i diversi gradi di consapevolezza che in essi è dato cogliere, della giurisprudenza italiana, cfr. F. CAROCCIA – R. PARDOLESI, Analisi economica del diritto: “the italian job”, in Foro it., 2014, V, 193.

2 Corte cost., ord. 28 dicembre 2006, n. 460, Foro it., 2007, I, 1668.

3 Cass. 17 ottobre 2014, n. 22075, Foro it., Rep. 2014, voce Procedimento civile, n. 83; 28 ottobre 2009, n. 22827, inedita; 29 settembre 2005, n. 19136, id., Rep. 2005, voce cit., n. 49.

4 G. SCARSELLI, Sulla necessità di tornare alla compensazione delle spese di lite per ragioni di equità, in Foro it., 2017, V, 341.

5 A.M. PERRINO, Contratto di lavoro in corso e fallimento: strumenti antichi e questioni nuove, in Foro it., 2012, I, 2360.

6 Cass. 29 settembre 2016 n. 19308, Foro it., 2017, I, 639, con nota di A.M. PERRINO.

7 v. Cass., ord. 18 aprile 2014, n. 9030, id., Rep. 2014, voce Competenza civile, n. 126; 20 settembre 2013, n. 21669, id., Rep. 2013, voce cit., n. 95.

8 v. Cass., ord. 2 agosto 2011, n. 16867, id., Rep. 2011, voce cit., n. 18, in relazione ad una domanda di condanna al pagamento di crediti pecuniari derivante dal rapporto di lavoro nei confronti di un imprenditore fallito.

9 INZITARI, Effetti del fallimento per i creditori, in Commentario Scialoja-Branca. Legge fallimentare, Bologna-Roma, 1988, 54.

10 Sulla distinzione fra rito e competenza, VELLANI, Competenza per attrazione e fallimento, Padova, 1996, 16; ABATE, Organi, in AA.VV., Diritto fallimentare, Milano, 1996, 368; BOZZA-SCHIAVON, L’accertamento dei crediti nel fallimento e le cause di prelazione, Milano, 1992, 159; FABIANI, L’esclusività del rito dell’accertamento del passivo, in Fallimento, 1990, 899; PAJARDI, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1986, 204.

11 Cass. 1° ottobre 1994, n. 7993, Foro it., Rep. 1995, voce Fallimento, n. 367; 30 agosto 1994, n. 7583, id., Rep. 1994, voce cit., n. 376; 23 novembre 1990, n. 11319, id., Rep. 1991, voce cit., n. 306; 18 gennaio 1988, n. 317, id., Rep. 1988, voce cit., n. 269. In dottrina, sul principio di esclusività dell’accertamento del passivo, GIORGETTI, Gli accertamenti incidentali nella decisione sul passivo fallimentare, id., 1998, I, 1268; DE FERRA, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1998, 128; FABIANI, Decreto di esecutorietà dello stato passivo e accertamento negativo del credito, in Fallimento, 1997, 1087; VASSALLI, Diritto fallimentare, Torino, 1994, I, 314; PELLEGRINO, L’accertamento del passivo nelle procedure concorsuali, Padova, 1992, 59; SATTA, Diritto fallimentare, Padova, 1990, 108; FABIANI, L’esclusività del rito dell’accertamento del passivo, cit., 899; RUSSO, L’accertamento del passivo nel fallimento, Milano, 1988, 95; BOZZA-SCHIAVON, L’accertamento dei crediti nel fallimento e le cause di prelazione, cit., 164. Per una ricostruzione unitaria del procedimento ordinario e di quello necessario concorsuale, MONTANARI, Fallimento e giudizi pendenti sui crediti, Padova, 1991, 268 ss.

12 cfr. Cass. 24 gennaio 1996, n. 532, Foro it., Rep. 1996, voce cit., n. 290; 18 ottobre 1991, n. 11038, id., Rep. 1992, voce cit., n. 356; 4 giugno 1986, n. 3740, id., 1986, I, 2466; Trib. Monza 7 novembre 1995, id., Rep. 1996, voce cit., n. 299; Trib. Bologna 16 gennaio 1995, id., Rep. 1997, voce cit., n. 389; App. Lecce 30 dicembre 1992, ibid., n. 331; Trib. Verona 26 febbraio 1987, id., 1989, I, 1990, con nota di richiami. In dottrina, RUSSO, L’accertamento del passivo nel fallimento, cit., 138; BOZZA-SCHIAVON, L’accertamento dei crediti nel fallimento e le cause di prelazione, cit., 186; PAJARDI, Manuale di diritto fallimentare, cit., 329; contra, PELLEGRINO, L’accertamento del passivo, cit., 144.

13 Cass. 28 novembre 1994, n. 10114, Foro it., Rep. 1995, voce Liquidazione coatta amministrativa, n. 27; 4 luglio 1991, n. 7361, id., Rep. 1992, voce Fallimento, n. 290; in senso difforme, però, Corte cost. 7 luglio 1988, n. 778, id., 1989, I, 367, secondo la quale è ammissibile un giudizio di accertamento al di fuori del procedimento concorsuale. In dottrina, in questo senso, LO CASCIO, Ancora sull’accertamento dei crediti di lavoro subordinato nel fallimento: mutamenti interpretativi della Corte suprema, in Giust. civ., 1998, I, 2800; MELIADÒ, Fallimento e rapporto di lavoro subordinato, in Le procedure concorsuali. Il fallimento, trattato diretto da G. RAGUSA MAGGIORE e C. COSTA, Torino, 1997, II, 381; BONFATTI, L’accertamento del passivo e dei diritti mobiliari, ibid., III, 170; CAIAFA, I rapporti di lavoro e le procedure concorsuali, Padova, 1994, 94; MANFEROCE, Tribunale fallimentare e giudice del lavoro: suddivisione di competenze in pericolo, soprattutto in relazione alle domande di accertamento del rapporto di lavoro, in Fallimento, 1990, 213; MACCHIA, Azione di mero accertamento sul rapporto di lavoro e competenza del tribunale fallimentare, id., 1988, 747; GARBAGNATI, Accertamento del passivo fallimentare e crediti di lavoro, in Riv. dir. proc., 1986, 20; PELLEGRINO, L’accertamento del passivo, cit., 156; DE FERRA, Manuale di diritto fallimentare, cit., 77; RUSSO, L’accertamento del passivo nel fallimento, cit., 108; BOZZA-SCHIAVON, L’accertamento dei crediti nel fallimento e le cause di prelazione, cit., 187; VELLANI, Competenza per attrazione e fallimento, cit., 94; VASSALLI, Diritto fallimentare, cit., I, 174; MAISANO, Procedure concorsuali e controversie di lavoro, in Giur. comm., 1981, I, 19; contra, CAVALAGLIO, In tema di rapporti fra rito speciale di lavoro ed accertamento dei crediti in sede fallimentare, in Riv. dir. proc., 1976, 214.

14 cfr. Cass. 24 ottobre 1996, n. 9306, Foro it., Rep. 1997, voce cit., n. 327; 15 luglio 1992, n. 8577, id., Rep. 1992, voce cit., n. 334; Pret. Roma 24 febbraio 1997, id., Rep. 1997, voce cit., n. 543. In dottrina, BONFATTI, L’accertamento del passivo e dei diritti mobiliari, cit., 172; BOZZA, Illegittimità del licenziamento collettivo e competenza del giudice fallimentare, in Rass. giur. lav. Veneto, 1996, 25; CAIAFA, Fallimento, cessazione dell’attività e dell’azienda, licenziamento del personale dipendente: quale procedura?, in Mass. giur. lav., 1995, 126; VELLANI, Competenza per attrazione e fallimento, cit., 104

15 Cass. 5 giugno 1998, n. 5567, Foro it., Mass., 624; 4 aprile 1998, n. 3522, ibid., 373.

16 Cass. 12 maggio 1997, n. 4146, id., 1997, I, 2490, con nota di richiami, Pret. Milano 24 settembre 1996, id., Rep. 1997, voce Lavoro (rapporto), n. 1549). In dottrina, PELLEGRINO, L’accertamento del passivo, cit., 162; MELIADÒ, Fallimento e rapporto di lavoro subordinato, cit., 381; ABATE, Organi, cit., 369.

17 Sul punto, sia consentito il rinvio a V. FERRARI, Nomofilachia e precedente giudiziario. L’equivoco del giudice legislatore, in Foro it., 2017, V, 295.

18 Cass. 19 giugno 2017 n. 15066, id., 2017, I, 2663, con nota di S.L. GENTILE.

19 In senso conforme alla recente decisione della sezione lavoro, cfr. Sez. Un. 10 gennaio 2006 n. 141, Foro it., 2006, I, 704, con note di D. DALFINO e A. PROTO PISANI.

20 V. Cass. 21 novembre 1998 n. 11787, id., 1999, I, 1184, con nota di M. FABIANI.

21 Cass. 3 marzo 2003 n. 3129, id., Rep. 2003, voce Fallimento, n. 468.

22 Cass. 20 agosto 2013 n. 19271, id., Rep. 2013, voce Liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria, n. 43.

23 Cass. 20 dicembre 1982 n. 7043, id., 1983, I, 655.

24 Cfr. Cass. 27 febbraio 2004 n. 4051, id., Rep. 2005, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 62.

25 Sono parole di O. MAZZOTTA, Fatti e misfatti nell’interpretazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2016, II, 102.

26 Cfr. F. CARINCI, Dallo Statuto al contratto a tutele crescenti: il”cambio di paradigma”, in Giur. it., 2016, 776.

27 Cfr. A. PATTI, Licenziamenti e loro effetti dalla legge Fornero al Jobs Act tra diritto del lavoro e diritto fallimentare, in Fallimento, 2016, 1169. Più in generale, v. F. APRILE-R. BELLÈ, Diritto concorsuale del lavoro, Milano, 2013; M. FABIANI, Accertamento del passivo fallimentare e riforme processuali, id., 2010, I, 476; sul «diritto di credito nella sua porzione concorsuale», «sostanziale» ma «a tempo», M. FABIANI, Spunti di riflessione sull’oggetto del processo di accertamento del passivo, ibid., 3382; A. CAIAFA, I rapporti di lavoro e la tutela del credito nella crisi di impresa, Torino, 2011, 497.

28 Cass. 14 settembre 2007, n. 19248, Foro it., Rep. 2007, voce Fallimento, n. 586.

29 Cfr. S.L. GENTILE, in Foro it., 2017, I, 2663.

30 cfr. Cass. 12 marzo 2014, n. 5730, id., Rep. 2014, voce Lavoro (rapporto), n. 1269

31 Cass. 30 dicembre 2011, n. 30668, id., Rep. 2011, voce cit., n. 1330.

32 Cass. 29 settembre 2016 n. 19308, Foro it., 2017, I, 639, con nota di A.M. PERRINO.

33 Cfr. Cass. 6 0ttobre 2017 n. 9198

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