di Maurizio Ferrari

Recentemente le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione1 hanno affermato che non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale per ricongiungimento familiare, richiesto nell’interesse del minore straniero affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di “kafalah” pronunciato dal giudice straniero, qualora il minore sia a carico o conviva con il cittadino italiano ovvero quando gravi motivi di salute impongano che sia da questi personalmente assistito.

Desta interesse il caso, avendo tale decisione dichiarato lo scopo di evitare un’ingiustificata disparità di trattamento fra cittadino italiano ed extracomunitario in violazione dell’art. 3 Cost. e dell’art. 2 Cost. in riferimento al diritto del minore al mantenimento, alla cura ed alla conservazione degli affetti all’interno della famiglia (di coniugi, cittadini italiani) nella quale era cresciuto a seguito di un formale provvedimento giudiziale di affidamento in “kafalah”. Istituto del diritto musulmano, che consente l’affidamento del minore in caso di abbandono da parte dei genitori naturali, in ordine al quale si è sviluppato un contrasto di giurisprudenza.

Secondo un primo orientamento, tra gli istituti della “kafalah” di diritto islamico, quando questa non abbia natura esclusivamente negoziale, e dell’affidamento nazionale di un minore prevalgono i punti in comune sulle differenze; ne discende che il primo, il quale costituisce l’unico istituto di protezione previsto dagli ordinamenti islamici nei confronti dei minori orfani, illegittimi o abbandonati, può fungere da presupposto per il ricongiungimento familiare e dare titolo allo stesso, ai sensi dell’art. 29, 2° comma, d.leg. 25 luglio 1998 n. 2862. Si è altresì ritenuto3 che l’istituto della “kafalah”, costituendo negli ordinamenti islamici l’unico strumento di protezione e tutela dei minori orfani, abbandonati o nati fuori da una famiglia legittima, presenta caratteri comuni con l’affidamento previsto dall’ordinamento nazionale, prevalenti su quelli divergenti, non avendo entrambi gli istituti, a differenza dell’adozione, effetti legittimanti, e non incidendo, né l’uno né l’altro, sullo stato civile del minore. Da tale principio si è dedotto che, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 29, 2° comma, d.leg. 286/98, la “kafalah” poteva fungere da presupposto per il ricongiungimento familiare e costituirne un valido titolo4.

Un diverso orientamento è stato espresso5 affermando il principio secondo cui il minore straniero affidato in base alla legislazione del Marocco ad un cittadino italiano non può essere considerato familiare extracomunitario del cittadino comunitario, ai fini dell’ingresso in Italia; ciò in quanto il ricongiungimento del minore straniero al cittadino italiano non può porsi in contrasto con la disciplina in materia di adozione, che rappresenta l’unico ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze di unità familiare e quelle di protezione del minore in stato di abbandono6.

Il contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità si era proposto anche a livello di giudici di merito. Per un verso, nel senso della necessaria concessione del visto d’ingresso per lo straniero in regime di “kafalah” 7, e per il verso contrario8 affermando che la “kafalah”, ottenuta secondo le procedure giudiziali del Marocco, è inidonea a costituire valido presupposto per il ricongiungimento familiare dei minori al cittadino italiano — pur se parente di costoro — poiché contraria all’ordine pubblico interno; di conseguenza, deve ritenersi legittimo il rifiuto di rilasciare a tal fine il visto di ingresso dei minori nel territorio italiano9.

Le Sezioni Unite hanno composto il contrasto di giurisprudenza affermando che non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale per ricongiungimento familiare, richiesto nell’interesse del minore straniero affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di “kafalah” pronunciato dal giudice straniero, qualora il minore sia a carico o conviva con il cittadino italiano ovvero quando gravi motivi di salute impongano che sia da questo personalmente assistito.

L’istituto giuridico della “kafalah” trova la propria origine nel divieto di adozione che accomuna gli ordinamenti giuridici ispirati dall’insegnamento del Corano. Ritenere che a tale istituto possano applicarsi le norme in materia di adozione e specificamente quelle in materia di adozione internazionale significherebbe negare pregiudizialmente il significato e la rilevanza di tale istituto negli ordinamenti giuridici che la prevedono.

L’art. 41 l. n. 218 del 1995 è inteso a salvaguardare la specialità della materia dell’adozione internazionale rispetto al procedimento di delibazione ordinario proprio in ragione della specificità delle procedure che vedono coinvolte le autorità del paese di provenienza e del paese di adozione del minore. Procedure intese a garantire che l’adozione internazionale si realizzi con il rispetto degli standard fissati a livello internazionale dalla convenzione dell’Aia del 29 maggio 1993 per la tutela dei bambini e per la cooperazione nell’adozione internazionale recepita in Italia con l. n. 476 del 31 dicembre 1998. La norma di cui all’art. 41 l. 218/95 non può essere invece letta come norma di chiusura rispetto alla possibilità di riconoscimento di qualsiasi altro istituto di protezione dei minori.

Secondo le Sezioni Unite, non può seguirsi la tesi per la quale il cittadino italiano che intenda inserire nella propria famiglia un minore straniero in stato di abbandono non avrebbe altra possibilità che quella di procedere all’adozione internazionale, ai sensi della l. n. 184 del 1983, in quanto in questa materia devono essere ribaditi due principî, già affermati esplicitamente10, il primo dei quali è che in ogni situazione in cui venga in rilievo l’interesse del minore deve esserne assicurata la prevalenza sugli eventuali interessi contrastanti11. Le Sezioni Unite hanno, inoltre, richiamato il principio, basilare nel nostro diritto vivente, secondo cui nell’interpretazione delle norme primarie il giudice deve preferire quella conforme a Costituzione. Un’interpretazione delle norme del d.leg. n. 30 del 2007 che escludesse in via assoluta la possibilità per il cittadino italiano di ottenere il ricongiungimento con minore extracomunitario affidatogli con provvedimento di “kafalah” farebbe sorgere lo stesso sospetto di illegittimità costituzionale, per contrasto con il principio di eguaglianza, derivante dalla disparità di trattamento nei confronti dei minori bisognosi di protezione, cittadini di paesi che vietano l’adozione per ragioni religiose. Un profilo di incostituzionalità, questo, che ha indotto la Corte a propendere per un’interpretazione estensiva del d.leg. n. 286 del 1998, art. 29. Tale disparità di trattamento sarebbe aggravata da analoga disparità che deriverebbe in danno dei cittadini italiani (configurando una ipotesi di discrimination à rebours, c.d. «discriminazione alla rovescia») rispetto ai cittadini stranieri ai quali sarebbe consentito il ricongiungimento con i minori affidati in “kafalah”. Ad avviso delle Sezioni Unite ciò è ancor meno giustificabile razionalmente, per il fatto che, potendo i cittadini italiani utilizzare lo strumento dell’adozione legittimante, ciò precluderebbe loro la possibilità, certamente meno incisiva, ma del pari non priva di utilità per i minori bisognosi, di offrire accoglienza e cure affettive.

L’esigenza di una adeguata protezione dei minori è particolarmente sentita dalla comunità internazionale che è chiamata alla cooperazione in questo campo dall’art. 20 della convenzione di New York sui diritti del fanciullo, sottoscritta il 20 novembre 1989 e resa esecutiva in Italia con l. 27 maggio 1991 n. 176, dove si afferma, al 1° comma, che ogni fanciullo, temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare, ovvero che non può essere lasciato in tale ambiente nel suo proprio interesse, ha diritto a una protezione e ad aiuti speciali dello Stato e si dispone che gli Stati contraenti debbono prevedere una protezione sostitutiva, in conformità con la loro legislazione nazionale. Al 3° comma dell’art. 20 della convenzione di New York si precisa che tale protezione sostitutiva può concretizzarsi per mezzo dell’affidamento familiare, della “kafalah”, dell’adozione o in caso di necessità, del collocamento in adeguati istituti per l’infanzia. Nell’effettuare una selezione tra queste soluzioni, la norma prevede che si terrà debitamente conto della necessità di una certa continuità nell’educazione del fanciullo, nonché della sua origine etnica, religiosa, culturale e linguistica.

Le Sezioni Unite ritengono che il minore straniero, affidato a cittadino italiano con provvedimento di “kafalah”, può rientrare fra «gli altri familiari», di cui all’art. 3, 2° comma, lett. a), per i quali il cittadino italiano residente in Italia (o il cittadino dell’Unione europea soggiornante in Italia a titolo principale) può chiedere il ricongiungimento, se il minore è a suo carico ovvero se è convivente nel paese di provenienza o ancora se gravi motivi di salute ne impongano l’assistenza personale. A tale conclusione esse sono pervenute partendo da una asserzione pregiudiziale: il diritto al ricongiungimento familiare trae fondamento nel riconoscimento del diritto fondamentale del minore all’unità familiare e ciò rende impraticabile un’interpretazione normativa che discrimini i cittadini italiani da quelli extraeuropei e tanto più una tale interpretazione appare illogica se comporta un trattamento sfavorevole dei cittadini italiani. La tesi secondo cui in questo modo si darebbe valore di fonte produttiva di effetti giuridici nel nostro ordinamento a un istituto di diritto islamico il cui accesso è precluso ai cittadini italiani non di fede musulmana e che potrebbe essere utilizzato dai cittadini che, magari strumentalmente, professano la fede musulmana per eludere la normativa inderogabile sull’adozione internazionale, viene contestata efficacemente dalla motivazione della sentenza delle sezioni unite laddove si afferma che la contrarietà o l’elusione della disciplina sull’adozione internazionale sarebbe ipotizzabile se dalla “kafalah” si volessero far derivare effetti identici o analoghi a quelli dell’adozione, ma non se si attribuisce al provvedimento di “kafalah”, nel rispetto della disciplina vigente nel paese di provenienza, la funzione di giustificare l’attività di cura materiale e affettiva del minore, con esclusione di ogni vincolo di natura parentale o anche di sola rappresentanza legale.

Per quanto riguarda la dedotta discriminazione per ragioni di fede religiosa la Corte rileva che, una volta riconosciuta, ai fini della delibazione, la compatibilità dell’istituto della “kafalah” con l’ordinamento italiano e la sua applicazione corretta nei casi concreti, non si pone in essere alcuna discriminazione per ragioni religiose. Semmai con tale istituto si garantisce a chiunque professi la fede musulmana di esercitare una forma di protezione nei confronti di un minore, rispetto al quale è disposto ed è idoneo a esercitare un ruolo di protezione, assistenza e cura affettiva, in armonia con i precetti della propria religione. Sarebbe invece discriminatorio che a un cittadino straniero, venuto a risiedere in Italia e che ha acquisito la cittadinanza italiana, in ragione della durata della sua permanenza nel territorio nazionale e del suo inserimento nella società italiana, sia precluso tale diritto come effetto della acquisizione della cittadinanza. Invece che un ampliamento dei diritti l’acquisizione della cittadinanza verrebbe a determinare una rescissione, palesemente contraria ai principî fondamentali della nostra Costituzione, del legame di chi è venuto a vivere stabilmente in Italia sino a diventare cittadino del nostro paese, con la cultura e la fede religiosa del suo paese di origine.

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Note

1 Sentenza 16-09-2013, n. 21108 in Corriere giur., 2013, 1492, con nota di MOROZZO DELLA ROCCA.

2 In applicazione di tale principio, Cass. 20 marzo 2008, n. 7472, Foro it., Rep. 2008, voce Straniero, n. 218, ha evidenziato che la kafalah, come disciplinata dalla legislazione del Marocco, poteva fungere da presupposto per il ricongiungimento familiare, ai sensi dell’art. 29, 2° comma, d.leg. 286/98, poiché l’istituto era equiparabile all’affidamento.

3 v. Cass. 28 gennaio 2010, n. 1908, Foro it., Rep. 2010, voce cit., n. 284.

4 Cfr., altresì, Cass. 17 luglio 2008, n. 19734, Foro it., 2009, I, 1179, con nota di PASSAGLIA, per l’affermazione in base alla quale l’istituto della kafalah, quando venga disciplinato dalla legislazione nazionale (nella specie, marocchina) in modo tale da non avere base esclusivamente negoziale, costituisce valido presupposto per il ricongiungimento del minore straniero.

5 da Cass. 1° marzo 2010, n. 4868, Foro it., Rep. 2010, voce cit., n. 283.

6 v. Cass. 23 settembre 2011, n. 19450, Foro it., Rep. 2012, voce Delibazione, n. 35, in cui si è dichiarata inammissibile la domanda, proposta ai sensi degli art. 66 e 67 l. 31 maggio 1995 n. 218, di riconoscimento in Italia del provvedimento di affidamento in kafalah di un minore in stato d’abbandono, ad una coppia di coniugi italiana, emessa dal Tribunale di prima istanza di Casablanca in Marocco, atteso che l’inserimento di un minore straniero, in stato d’abbandono, in una famiglia italiana, può avvenire esclusivamente in applicazione della disciplina dell’adozione internazionale regolata dalle procedure richiamate dagli art. 29 e 36 l. 4 maggio 1983 n. 184 (come modificata dalla l. 31 dicembre 1998 n. 476, di ratifica ed attuazione della convenzione dell’Aia del 29 maggio 1993), con la conseguenza che, in tale ipotesi, non possono essere applicate le norme generali di diritto internazionale privato relative al riconoscimento dei provvedimenti stranieri, ma devono essere applicate le disposizioni speciali in materia di adozione ai sensi dell’art. 41, 2° comma, l. 31 maggio 1995 n. 218.

7 v. App. Venezia 9 febbraio 2011, Foro it., Rep. 2011, voce Straniero, n. 340, in cui si è stabilito che il minore straniero affidato con kafalah allo zio, cittadino italiano di origine marocchina, ha diritto al visto per ricongiungimento familiare in quanto minore affidato ai sensi dell’art. 29 d.leg. 286/98, applicabile ai familiari del cittadino italiano ai sensi dell’art. 28 d.leg. 286/98; Trib. min. Brescia 12 marzo 2010, id., Rep. 2010, voce Delibazione, n. 15, che ha rilevato come un provvedimento straniero di kafalah possa essere riconosciuto in Italia ai sensi dell’art. 66 l. 218/95 e possa fungere da presupposto per il ricongiungimento familiare in base all’art. 29, 2° comma, d.leg. 286/98; App. Bologna 22 gennaio 2010, id., Rep. 2012, voce Straniero, n. 195, secondo cui deve essere concesso il visto per l’ingresso in Italia di una minore (nella specie, marocchina) quando l’affidamento in custodia (kafalah della medesima alla zia materna) sia avvenuto in esito ad un congruo accertamento giudiziale circa l’opportunità dell’affidamento, l’idoneità dell’affidataria, la sussistenza del consenso da parte dei genitori, poiché si tratta di situazione assimilabile all’affidamento etero familiare disciplinato dall’ordinamento italiano con l’art. 2 l. 184/83 e costituisce uno dei presupposti per il ricongiungimento familiare (art. 29, 2° comma, d.leg. 286/98); Trib. Modena 5 novembre 2009, id., Rep. 2011, voce cit., n. 345, per il quale l’istituto della kafalah può fungere da presupposto per il ricongiungimento familiare di un minore marocchino nei confronti di un cittadino italo-marocchino residente in Italia.

8 v. Trib. Verona 12 luglio 2010, Foro it., Rep. 2012, voce Straniero, n. 201.

9 v. Trib. Torino 14 maggio 2010, ibid., n. 200, per cui è legittimo, per contrasto con l’ordine pubblico, il diniego del visto di ingresso in Italia di minore affidato a coniugi cittadini italiani, con provvedimento di kafalah ottenuto secondo le procedure della legislazione marocchina ed ai fini del ricongiungimento familiare, allorché, nei fatti, la fattispecie realizzi un’adozione internazionale «mascherata» ed attuata completamente al di fuori della normativa sull’adozione internazionale e senza alcuna osservanza degli inderogabili principî cardine della stessa. Analogamente, App. Torino 19 novembre 2009, id., Rep. 2010, voce cit., n. 286, ha stabilito che non è consentito l’ingresso in Italia, per motivi di ricongiungimento familiare al cittadino italiano, del minore straniero affidato in kafalah, perché la concessione del visto si porrebbe in contrasto con la normativa vincolistica in materia di adozione.

10 nella sentenza della Corte di cassazione n. 7472 del 2008 in Foro it., Rep. 2008, voce Straniero, n. 218.

11 Tale principio viene espressamente affermato nell’art. 3 della convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 24 novembre 1989, ratificata con la l. 27 maggio 1991 n. 176, e viene ribadito dall’art. 24 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000. Ma è anche desumibile dall’art. 2 e dall’art. 30 Cost. (ed è applicabile anche agli stranieri maggiorenni o minori, cfr. Corte cost. n. 199 del 1986, id., 1988, I, 2803; n. 203 del 1997, id., 1997, I, 2370, e n. 376 del 2000, id., 2002, I, 355). Il principio deve trovare applicazione anche in materia di disciplina interna dell’immigrazione, come previsto dal d.leg. n. 286 del 1998, art. 28, 3° comma, secondo cui in tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all’unità familiare e riguardanti i minori, deve essere preso in considerazione, con carattere di priorità, il superiore interesse del fanciullo, conformemente a quanto previsto dall’art. 3 della convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della l. 27 maggio 1991 n. 176.

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