di Anastasia Palma
Ai fini del rafforzamento della tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore accanto al mobbing si è affermata la figura giurisprudenziale dello straining che, con particolare riferimento al pubblico impiego, ha costituito oggetto di interpretazione della recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione Sez. Lav. n. 12518 del 12 maggio 2025.
Il caso esaminato riguardava la vicenda di un lavoratore che aveva citato l’ente datore di lavoro presso cui prestava servizio chiedendo il risarcimento dei danni per mobbing-straining. Il giudice di prime cure aveva rigettato la domanda e la Corte d’Appello aveva confermato tale decisione. Nel ricostruire la vicenda, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che il ricorrente (richiamando la giurisprudenza di legittimità sul tema) assumeva che una condotta vessatoria di tipo episodico integra la fattispecie di straining, fonte di responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., allorché il lavoratore subisca una modificazione negativa e permanente della propria situazione lavorativa, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio. Di talché erroneamente la Corte d’Appello ha rigettato il relativo capo di domanda. Pertanto, sarebbe configurabile un’ipotesi di straining nella condotta del datore di lavoro che, secondo la prospettazione del ricorrente, l’avrebbe illegittimamente privato della qualifica di funzionario con messa a concorso del posto.
Secondo la Suprema Corte di Cassazione, la Corte d’Appello, nel valutare la condotta dell’Amministrazione ha correttamente applicato i principi in materia chiarendo in punto di diritto che è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell’ambitocivilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell’art. 2087 c.c.; è, invece, configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero, ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori. Pertanto, la circostanza addotta, non circostanziata è inidonea ex se ad integrare gli elementi costitutivi della fattispecie invocata, non potendo ravvisarsi alcun comportamento stressogeno scientemente attuato nei confronti del dipendente che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto, possa far ravvisare nella specie un’ipotesi di straining. Conseguentemente, sulla base delle argomentazioni interpretative esposte, il motivo di ricorso è stato rigettato.
Con riferimento al mobbing si richiama, altresì, la sentenza n. 952 del 09.02.2022 con la quale il Consiglio di Stato ha sancito che nel pubblico impiego esso è integrato laddove venga posto in essere un processo sistematico di cancellazione della figura del lavoratore, portato avanti attraverso una continua eliminazione dei mezzi e dei rapporti interpersonali necessari per svolgere la normale attività lavorativa rilevandone l’elemento caratteristico dalla sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte datoriale volta ad emarginare o estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa. Nell’ambito del pubblico impiego e con riferimento alla conseguente responsabilità datoriale ex art. articolo 2087 cod. civ., il mobbing si sostanzia in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici o incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica.
Ancora, secondo la recente giurisprudenza (Cassazione civile Sez. Lavoro ordinanza n. 1778 del 24 gennaio 2025) in tema di mobbing nel pubblico impiego e di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., non è sufficiente la mera esistenza di una situazione di conflittualità interpersonale nell’ambiente lavorativo per configurare una condotta vessatoria o persecutoria. Per ritenere integrata una fattispecie di mobbing o di inadempimento datoriale lesivo dell’integrità psicofisica del lavoratore, è necessario che sia provata la sistematicità e reiterazione nel tempo delle condotte pregiudizievoli, nonché il loro carattere persecutorio e discriminatorio specificamente diretto contro il dipendente. La valutazione degli episodi denunciati deve essere effettuata in modo unitario e complessivo, considerando l’intero panorama fattuale, ma la presenza di un “clima teso o di contrasti nell’ambiente di lavoro non è di per sé sufficiente se non emerge che le conseguenti determinazioni datoriali assumano connotazioni di complessiva persecutorietà o di singolare ingiustificatezza.
Anche se, a livello normativo non sussiste, ad oggi, una specifica disciplina che regoli il mobbing l’ordinamento giuridico garantisce la tutela del lavoratore attraverso una serie di norme. Il richiamo è, anzitutto, alle previsioni costituzionali di riferimento (artt. 2;3;4;32;35 e 41) ed alle norme civilistiche di cui agli artt. 2043; 1175 e 1375 cod. civ. Altra norma di fondamentale rilevanza, in ambito lavoristico, per il tema di cui trattasi è l’articolo 2087 cod. civ., considerata un pilastro normativo in materia di tutela e sicurezza del lavoratore sui luoghi di lavoro in quanto pone precisi obblighi a carico del datore di lavoro che si concretizzano nell’adozione delle misure necessarie per la tutela dell’integrità psico-fisica del prestatore di lavoro. Sul punto, inoltre, si richiama il D.lgs. n. 81 del 2008 (Testo Unico per la sicurezza sul lavoro) che, all’articolo 28 considera tra i rischi per la salute del prestatore anche quelli conseguenti a stress lavoro-correlato. Infine, si annoverano lo Statuto dei lavoratori (l. n. 300 del 1970) che, all’articolo 15, sancisce la nullità di patti diretti o atti diretti a realizzare discriminazioni sul luogo di lavoro e il D. lgs n. 198 del 2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) che, agli articoli 25 e ss. contiene delle previsioni finalizzate al contrasto delle discriminazioni sul luogo di lavoro. Di conseguenza, le condotte di mobbing ai fini del risarcimento dei danni subiti dal lavoratore, possono rilevare sia in ambito contrattuale (ai sensi dell’articolo 2087 cod. civ.) che sul piano extracontrattuale (ex articolo 2043 cod. civ).
Con riferimento alla configurabilità dello straining, invece, si richiama un consolidato orientamento giurisprudenziale che, nel valorizzare l’articolo 2087 cod.civ. ha ribadito la responsabilità del datore di lavoro ai fini della tutela dell’integrità psico-fisica del prestatore di lavoro. Il riferimento è alla sentenza n. 7844 del 29.3.2018 della Corte di Cassazione secondo cui il datore è tenuto ad evitare situazioni stressogene che diano origine ad una situazione che possa, presuntivamente, ricondurre a una forma di danno alla salute anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio. Lo stress forzato può arrivare dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente ostile, per incuria e disinteresse del suo benessere lavorativo.
Nel medesimo filone interpretativo si colloca la recentissima Ordinanza della Cassazione Civile, Sez. Lav., 4 gennaio 2025, n. 123 la quale, conformandosi al consolidato orientamento della giurisprudenza sul tema, ha ravvisato una responsabilità del datore di lavoro che tolleri un ambiente stressogeno e non si adoperi per evitare conflitti sul luogo di lavoro configurando una responsabilità del datore di lavoro per violazione dell’articolo 2087 cod. civ. Nello specifico la Suprema Corte ha affermato che in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi, e che (da ultimo, Cass.n. 15957 del 7.6.2024; Cass. n. 3822 del 12.2.2024; n. 4664 del 21.2.2024) un ambiente lavorativo stressogeno è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 c.c.