di Marco Ferrari

“Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà” – Napoleone Bonaparte

Il mercato delle auto sta per essere invaso dalle macchine cinesi, su cui saranno montati tutti gli optional possibili e avranno prezzi economici, competitivi per chiunque. Inoltre stanno sorgendo marche di qualità e persino di lusso, con la scritta “Made and created in China“, a rivendicare l’originalità del prodotto cinese; già nel campo tecnologico se ne hanno esempi di successo, con Lenovo e Huawei. La crescita del colosso asiatico non solo è inarrestabile da parte dei concorrenti, ma per la stessa Cina: il ritmo di crescita costringe l’economia cinese a mantenere un livello di produzione altissimo, perché cadute percentuali minime implicano la disoccupazione per centinaia di migliaia di persone. Così vengono costruite città intere per il mercato immobiliare, anche se poi gli appartamenti restano invenduti e i centri commerciali vuoti.

Il Socialismo con caratteristiche cinesi, implementato dal governo di Deng Xiaoping a partire dal 1982, è un capitalismo in cui è lo Stato a essere il principale investitore e gestore sul libero mercato; chiunque desideri condurre affari sul mercato cinese viene sottoposto a valutazione da parte del governo e, se non può rispettare determinati standard, non ottiene il permesso di entrare nell’economia del Paese. Tutta la ricchezza prodotta viene poi ripartita dal governo secondo le esigenze interne, nei piani di sviluppo in prospettiva macroeconomica. All’esterno, un rapporto particolare si è instaurato con i paesi del Terzo Mondo: non si basa unicamente sull’acquisto di risorse in cambio di denaro, come spesso avviene con statunitensi ed europei, bensì sullo scambio di risorse energetiche per infrastrutture, petrolio e gas naturale in cambio di ospedali e fabbriche. A tutto ciò si aggiunge una mentalità collettivistica per noi inconcepibile, oltre che un disprezzo dei diritti dei lavoratori per noi “inaccettabile” dopo decenni di lotte sindacali (sebbene la crescente precarizzazione del lavoro in Europa stia eliminando i risultati di quelle stesse lotte).

Di fronte a notizie del genere è comprensibile preoccuparsi; ma non è questo il culmine trionfale dell’unico sistema economico sopravvissuto, l’unico insieme di valori e pratiche che sia uscito indenne dai tumulti dell’era moderna?

Nei primi anni Novanta, a seguito dello scioglimento dell’URSS, il politologo statunitense Francis Fukuyama parlò senza mezzi termini di “fine della storia”, per cui il capitalismo innestato sulla democrazia è la forma economica definitiva, oltre la quale non ci si evolverà più. Fine della storia in tutti i sensi, dunque: non ci sono più valide alternative e se si presentano sono sicuramente peggiori del sistema attuale, o perché fallimentari sul piano produttivo, o perché illiberali sul piano politico. L’implicazione è evidente: senza capitalismo non c’è democrazia.

Viene perciò da chiedersi se davvero il capitalismo non possa svilupparsi senza democrazia (già alcuni paesi retti da teocrazie sono sì aperti al capitalismo, ma del tutto chiusi a prospettive democratiche). Se piuttosto la traiettoria del capitalismo non sia in se stessa antidemocratica, dovendo fare i conti suo malgrado con sistemi politici rappresentativi, stati assistenziali, sindacati e altre forze sociali (si pensi, anche in relazione al rapporto tra capitalismo e religione, al documentario di Michael Moore Capitalism: A Love Story, 2009).

Quale sia il meccanismo di fondo, può essere forse compreso da un punto di vista “dialettico”.

Il capitalismo porta alla democrazia per reazione, per risolvere col dibattito gli scontri sociali dovuti alle iniquità del sistema economico liberista. Per questo la Cina è un caso significativo: da un lato, dimostra le potenzialità di un capitalismo libero dal rispetto dei diritti lavorativi; dall’altro, sta vivendo brevi momenti di apertura democratica, preferendo risolvere gli scontri sociali con le parole, laddove possa evitare, giudicandola controproducente, la repressione violenta. D’altra parte, la tendenza attuale in Europa è di avvicinarsi al modello americano di mercato del lavoro, ma il rischio di cedere a forme autoritarie sembra piuttosto concreto e forse più vicino a esperienze europee pregresse. I paesi del B.R.I.C. vantano una crescita economica superlativa, però solo il Brasile e l’India hanno una forma effettivamente democratica (sulla Russia, autoritarismo e manipolazioni sono talmente evidenti che la forma democratica è ridotta a orpello). In ogni caso è innegabile lo spostamento del baricentro mondiale verso questi paesi e la loro influenza, che crescerà sempre più anche sulle attitudini politico-economiche occidentali.

Oggi si stanno ripresentando, con caratteri inediti, forme pre-novecentesche di sviluppo capitalistico, avvicinando in qualche modo il rapporto capitale-lavoro, o meglio capitale-vita sociale, a quei tipi di sfruttamento rinvenibili a cavallo tra XIX e XX secolo, con l’importante differenza dello sviluppo tecnologico, oltre che dal mutamento ideologico (volendo intendere quest’ultima come costruzione di idee e valori adatti a una posizione culturale dominante) dato dalla fine del movimento operaio e dalla globalizzazione, tanto mercantile quanto virtuale.

Non a caso le attuali posizioni di molti partiti politici non sono più in grado di rispondere alle domande dei popoli: il partito come struttura organizzata non è più adatto ai compiti che svolgeva nella società di massa del secolo scorso, lasciando il campo a movimenti nuovi e talvolta indefiniti, dai no-global ai sindacati di base e alle associazioni di settore. Anche questo ricorda, fatte salve le chiare differenze con la situazione dell’epoca, la politica del XIX secolo, quando con il termine “partito” non si indicava una struttura consolidata e indipendente, bensì l’adesione a una posizione politica rinvenibile in qualsiasi gruppo, associazione o coalizione,  da intendere come una sorta di corrente interna (si veda, a titolo di esempio, il Manifesto del partito comunista laddove esamina la posizione dei comunisti rispetto agli altri partiti d’opposizione).

Consigli per ulteriori approfondimenti:

  • Il Caffè Geopolitico, L’anno del Drago (articolo sull’ascesa cinese)
  • Il Caffè Geopolitico,  intervista a Michael Barr, autore di Who’s afraid of China?
  • F. Rampini, Il secolo cinese, Mondadori 2006
  • R. Pisu, Cina. Il Drago rampante, Sperling&Kupfer 2006
  • K. Marx, F. Engels, India, Cina, Russia, a cura di B. Maffi, Il Saggiatore 2008 (raccolta di articoli in merito alle potenzialità di ascesa dell’Asia e allo spostamento del potere economico dall’area dell’Atlantico a quella del Pacifico)
  • F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992

Aggiornamento 2016: ho sostituito alcuni link non più attivi e ne ho aggiunti altri di anni successivi; segnalo anche il nuovo Statuto del Partito Comunista Cinese adottato al XVIII Congresso (2012).

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