di Flavio V. Ponte

Sommario

  1. Perché riflettere su tema
  2. Il dilemma della scelta tra “la persona che lavora” e la “cosa giusta”
  3. Il sistema carrots and sticks: reciprocity e conditionality
  4. A cosa serve il reddito di cittadinanza?
  1. Perché riflettere su tema

Ragionare del reddito di cittadinanza significa – essenzialmente – misurarsi e confrontarsi con argomenti caratterizzati da una elevata “polarizzazione”: si tratta di tematica, infatti, che appassiona in egual misura chi ne sostiene i pregi e chi ne esalta i limiti1.

Da questa premessa – è bene specificarlo subito – non derivano riflessioni “partigiane” ovvero utili all’affermazione della bontà di un approccio o dell’altro: si tratta, più modestamente, di considerazioni intorno a quella centralità del tema imposta dal dibattito – anche politico – che si sviluppa da qualche tempo intorno alla opportunità – o no – di “sostituire” gli ordinari strumenti di sostegno/integrazione al salario/del reddito con strumenti altri.

Considerazioni, quindi, che hanno il sol fine di individuare – con un ragionevole margine di approssimazione – i punti di domanda che un giuslavorista potrebbe porsi dinanzi alla – tutt’altro che banale – obiezione: perché non sostituire i consunti strumenti sperimentati negli ultimi 70 anni con una forma universale di sostegno alla esistenza stessa delle persone?

Preliminarmente, è necessario cercare di capire cosa si intende per reddito di cittadinanza:

Stando alla definizione offerta dal BIEN (Basic Income Earth Network), “A basic income is a periodic cash payment unconditionally delivered to all on an individual basis, without means-test or work requirement2.

Le caratteristiche ipotizzate dal BIEN per tale reddito sono essenzialmente 5:

Deve essere corrisposto periodicamente e ad intervalli regolari (ad esempio, con cadenza mensile).

Il pagamento deve consistere nella corresponsione di una somma di denaro, in modo da consentire al percettore di disporne liberamente (sono quindi escluse altre forme di pagamento: in natura ovvero tramite buoni dedicati ad un uso specifico).

Il pagamento deve essere garantito su base individuale (è quindi escluso il pagamento a gruppi familiari ecc.)

Deve essere universale, ossia, deve essere corrisposto a tutti a prescindere dal bisogno e/o dalla c.d. “prova dei mezzi” (means test).

Deve essere incondizionato: il pagamento non è subordinato allo svolgimento di attività lavorativa e/o alla disponibilità a svolgere un lavoro.

La declinazione delle caratteristiche del reddito di cittadinanza ha evidentemente stuzzicato anche i nostri policymakers atteso che – seppure con diversi gradi di approssimazione – da tempo in Italia vengono avanzate proposte in qualche modo accostabili alla proposta del BIEN: è il caso del progetto di legge del Senato n. 2086 del 30/06/2011, del progetto di legge della Camera n. 720 del 10/04/20133 o, ancora, della proposta n. 1148 presentata al Senato dal Movimento 5 Stelle in data 29/10/2013 avente ad oggetto “Istituzione del reddito di cittadinanza nonché delega al Governo per l’introduzione del salario minimo orario” (in questa proposta il reddito è solo formalmente definito di cittadinanza: in realtà si tratta di misura volta al sostegno del reddito per tutti i soggetti residenti nel territorio nazionale che hanno un reddito inferiore alla soglia di rischio di povertà).

A ben vedere, si tratta di iniziative che sono particolarmente distanti dal modello di proposta che circola al di fuori dei confini nazionali: è abbastanza chiaro, infatti, che il reddito di cittadinanza non è misura a sostegno del reddito, ossia, iniziativa riconducibile ad una normale politica del lavoro e/o ad uno strumento di gestione del mercato del lavoro trattandosi, piuttosto, di uno strumento riconducibile al più ampio concetto di politica sociale.

In altri termini e volendo rimanere fedeli alla elaborazione del BIEN, qui non si tratta di universalizzare misure a beneficio di soggetti che, popolando/avendo popolato il mercato del lavoro, sono attinti da eventi sfavorevoli ovvero sono accidentalmente fuoriusciti dal mercato e devono essere recuperati, ma si tratta di garantire un reddito alla “persona che esiste”4.

E’ argomento, quindi, che appare decisamente impermeabile ad un approccio squisitamente giuslavoristico posto che – evidentemente – il reddito di cittadinanza sfugge all’ambito di applicazione di principi costituzionali potenzialmente evocabili in materia (si pensi agli artt. 4 e 36), apparendo finanche (almeno formalmente) poco compatibile con l’art. 1 della Costituzione e con il riferimento al lavoro (pur nella sua dimensione sociale) quale fondamento della Repubblica.

Appaiono allora viepiù condivisibili le opinioni espresse da chi ha posto l’accento sulla differenza tra questioni relative al reddito-salario5 e questioni relative allo statuto personale-esistenziale: le prime riferibili al lavoro in senso stretto (alla sua mancanza o, più in generale, alla nota tematica della tutela del lavoratore nel rapporto ovvero nel mercato); le seconde riferibili alla cittadinanza/residenza, ossia, al rapporto che intercorre tra le persone e lo Stato6.

In buona sostanza, nel nostro sistema una proposta di istituzione del reddito di cittadinanza pone una “sfida” particolarmente articolata e complessa: per un verso, si dovrebbe liberare il reddito, a Costituzione invariata, dal crisma della corrispettività e dalla sua caratteristica funzione di alimentazione del sistema di welfare (notoriamente ancorato al lavoro ed alla fiscalità sia sul piano teorico sia sul piano meramente pratico: basti pensare alla determinazione di diversi meccanismi di finanziamento della previdenza e della assistenza) e – per altro verso – si dovrebbe garantire l’efficacia di uno strumento universale rivolto alle persone munite di una particolare “chiave d’accesso” consistente in un rapporto qualificato con lo Stato (cittadinanza/residenza).

  1. Il dilemma della scelta tra “la persona che lavora” e la “cosa giusta”

Ferma la difficoltà espressa poc’anzi intorno alla summa divisio dalla quale, però, pare difficile prescindere (politiche sociali rivolte al sostengo delle persone vs politiche del lavoro rivolte al sostegno dei lavoratori), non si può evitare di notare una obiezione che i sostenitori del reddito di cittadinanza oppongono a chiunque provi a “mettere le mani avanti” segnalando la difficoltà sul piano operativo e la difficile sostenibilità finanziaria di una iniziativa del genere: pure in assenza di dati economici affidabili, sembra esservi una diffusa convinzione nella sostenibilità del reddito di cittadinanza a fronte dell’azzeramento delle misure altre a sostegno del reddito e, in particolare, dei finanziamenti alle cc.dd. politiche passive.

Le somme fisiologicamente destinate a pagare le integrazioni salariali costituirebbero una importante provvista dalla quale partire per governare una prima fase di avvio e/o sperimentazione del reddito di cittadinanza.

Ovviamente è difficile esplorare il tema della sostenibilità finanziaria in assenza dai dati certi; parimenti è difficile confrontarsi con ipotetiche soluzioni che investono, a ben vedere, non solo o non tanto la finanza pubblica ma le radici che nutrono i principi governanti la fiscalità generale7.

V’è però che, pure ammettendo la sostenibilità finanziaria del reddito di cittadinanza (anche in via meramente sperimentale e per un bacino ridotto di beneficiari), il dibattito sarebbe da considerarsi tutt’altro che chiuso. Contigua alla questione della sostenibilità economica, infatti, deve registrarsi la questione della sostenibilità morale della iniziativa.

Si tratta della nota difficoltà di accettare l’erogazione del reddito a soggetti che o non intendono restituire alcunché alla società o non intendono, comunque, lavorare.

Se il presupposto nel quale affonda le radici il reddito di cittadinanza è l’universalità della misura e la riconducibilità della stessa alla fiscalità generale, va da se che il meccanismo deve essere universalmente accettato da chi provvede ad alimentare il serbatoio di risorse utili al finanziamento.

In questo solco si collocano le considerazioni elaborate da chi ha più di altri teorizzato la sostenibilità del reddito di cittadinanza, ossia Philippe Van Parijs8: non sarebbe necessaria l’imposizione di comportamenti utili a “compensare” il sacrificio della collettività nella erogazione del finanziamento (cooperazione sociale, ecc.), essendo sufficiente – piuttosto – che la collettività la consideri una iniziativa giusta9.

Il che conduce al paragrafo che segue.

  1. Il sistema carrots and sticks: reciprocity e conditionality

Sulla contrapposizione tra diversi sistemi di welfare e gli articolati principi di distribuzione/costituzione del benessere, sia concesso il recupero di riflessioni già spese altrove10.

Pure fuggendo dalla tentazione – forte in verità – di abbandonarsi a un approccio esterofilo delegando a chi, per ventura, si trova a commentare gli stessi argomenti e le stesse vicende che ci occupano, ma da una prospettiva privilegiata, ossia, beneficiando degli effetti di un sistema di welfare che funziona e operando all’interno di un mercato del lavoro performante, appare funzionale alla economia del discorso l’esplorazione altri punti di vista, anche per cercare di cogliere la ragione di tante differenze tra paesi europei11.

Appare particolarmente interessante – ai fini che qui rilevano – lo studio condotto da chi ha provato ad analizzare due concetti chiave nel sistema anglosassone, intorno ai quali si sviluppa l’idea di welfare e, quindi, il concetto di mercato del lavoro inclusivo: reciprocity, che indica il meccanismo di scambio tra lo Stato e i soggetti che accedono al sistema di sicurezza sociale; conditionality , che indica l’essere condizionati, ossia, il dovere adeguare il proprio comportamento alle istanze, per così dire, compulsive che provengono dallo Stato12.

Nell’esperienza inglese post bellica, com’è noto, le politiche in materia sono emerse e si sono sviluppate assecondando approcci notevolmente differenti:

a) il sistema creato da Lord Beveridge, nel 1942, era fondato sul concetto di sicurezza sociale ancorato alla reciprocità “garantita” da un massiccio versamento di contributi13.

Lavoro e welfare erano direttamente ed inscindibilmente collegati attraverso la tassazione del reddito da lavoro, utile a garantire – in cambio – la sicurezza sociale. Il meccanismo, com’è noto, si dimostrò sbilanciato: la crescita dei disoccupati e, quindi, dei soggetti improduttivi di reddito ha determinato l’aumento della domanda di sicurezza sociale a fronte, nondimeno, del mancato gettito utile a finanziarla. Ciò indusse alla creazione del sistema di supplementary allowance (a metà degli anni ’70)14 e, quindi, all’allargamento dei benefici anche a soggetti non direttamente partecipanti, in maniera attiva, al finanziamento del sistema: tale allargamento determinò, in Gran Bretagna, la c.d. fobia dello scroccone15.

b) Altra storia, invece, con il Governo Tatcher. Il principio era fondato – assecondando una logica particolarmente rigida e stringente – sul taglio della spesa pubblica per il welfare e sulla concentrazione delle (poche) risorse solo sui bisognosi. Il meccanismo era definito income-based, ossia, il sostegno economico era erogato solo a soggetti/nuclei familiari con un reddito molto basso; il rapporto tra i soggetti recanti il peso contributivo e i beneficiari del welfare non era dunque basato sul concetto di reciprocity ma sul mero trasferimento delle risorse in base al bisogno. La conseguenza fu l’emersione di una vera e propria frattura sociale tra “beneficiari” e “contribuenti”16.

Diversamente accade nell’epoca delle moderne (e compulsate dall’Europa) politiche attive per il mercato del lavoro (definite dall’acronimo inglese ALMPs: Active Labour Market Policies).

Il meccanismo alla base di molti sistemi di welfare e delle politiche adottate in materia di lavoro è quello bastone/carota17: il sistema sostiene concretamente chi cerca lavoro; il sistema è però compulsivo: il soggetto che vi accede deve partecipare attivamente, pena alcune sanzioni.

Il concetto di reciprocity ruota intorno a tale meccanismo: dal something for nothing (sistema meramente assistenzialistico) al something for something. Si tratta di approccio non esente da critiche: chi sostiene che il welfare sia un diritto critica il sistema fondato su reciprocity e conditionality perché il meccanismo sinallagmatico e l’azione compulsiva renderebbero il diritto non immediatamente fruibile, si tratterebbe di una sorta di partecipazione “forzata” degli aventi diritto, condizione indispensabile per l’elargizione di benefici e il coinvolgimento nelle politiche attive per il mercato del lavoro.

Invero, è stato condivisibilmente osservato che vi sono almeno 3 buoni motivi per sostenere un sistema di welfare e le politiche attive per il mercato del lavoro fondati su reciprocity e conditionality18: v’è una ragione normativa, ossia, fondata sul concetto di responsabilizzazione degli individui verso la comunità, per il bene della comunità. Tale approccio è evidentemente fondato sul superamento di ogni individualismo e colloca i soggetti beneficiari al centro di un sistema nel quale ciò che conta è il bene della collettività: si tratta di una visione che combatte pervicacemente il fenomeno degli scrocconi (free riders).

V’è poi una ragione pratica, ossia, fondata sulla responsabilizzazione degli individui verso la comunità, anche per il bene dei singoli. La completa partecipazione al sistema offre loro migliori chances e opportunità. Si tratta di una sorta di visione paternalistica19 del meccanismo: lo Stato individua percorsi obbligati che i soggetti richiedenti sicurezza e lavoro devono seguire, nel loro interesse.

Infine, c’è una ragione strategica: se la partecipazione al modello di welfare condizionato, compulsivo e fondato sulla reciprocità è intesa quale modello di comportamento giusto ed equo, anche le politiche adottate in materia (e i conseguenti sacrifici imposti alla collettività) saranno ritenuti giuste ed eque. Al contrario, un meccanismo distante da tali principi (cfr. quanto detto supra in merito alle politiche britanniche della seconda metà del ‘900) sarà ritenuto insopportabile e l’opinione pubblica non sarà disponibile a sostenere chi lo propugna.

Una prima, approssimativa conclusione che può trarsi da quanto sopra riportato concerne proprio i sistemi per così dire generosi: più sono costose le misure attivate per sostenere la domanda di forza lavoro e la sicurezza sociale di chi esce fuori dal mercato o di chi non riesce ad entrarci, più dovrebbe essere elevato il grado di impegno e partecipazione domandato agli aspiranti beneficiari delle misure stesse. Il che produrrebbe (almeno) due effetti: l’efficienza del sistema e la percezione collettiva della sua equità.

Chi studia tali meccanismi segnala, ovviamente, anche i rischi che affliggono i sistemi così confezionati20. Il grosso dilemma che ruota intorno al sistema di reciprocity e conditionality prende corpo nel possibile effetto negativo che lo stesso può produrre: se i singoli subiscono sanzioni in caso di scarsa e/o assente partecipazione, si determina un effetto contrario a quello auspicato, ossia, si crea emarginazione e povertà.

Altro problema risiede nel fatto che il sistema potrebbe assumere, a regime, una funzione per così dire soltanto deterrente: ossia potrebbe essere utile solo a se stesso perseguendo quale obiettivo solo quello di evitare che i soggetti potenzialmente interessati si rivolgano, appunto, al sistema stesso onde godere dei benefici che lo stesso mette a disposizione21. E’ quanto accaduto nel c.d. caso Wisconsin: la politica sviluppata al solo scopo di tagliare il numero di persone interessate a domandare sicurezza sociale, servizi in materia di collocamento e/o sostegno al reddito, ha prodotto un effetto perverso, ossia, ha impedito l’integrazione di molti soggetti che si sono pertanto allontanati dal mercato del lavoro22.

Ovviamente, i sostenitori del sistema fondato su reciprocity e conditionality hanno individuato contro-argomenti convincenti per fugare il campo da dubbi di sorta23: in primo luogo, le notevoli sollecitazioni provenienti dal sistema devono essere effettuate in modo accettabile, ossia, devono essere ritenute sostenibili da chi le subisce. Ciò le rende giuste e, nel lungo termine, utili giacché producono (e qui l’approccio paternalista si esalta) il miglioramento delle competenze dei soggetti che si rivolgono al sistema.

In secondo luogo, il meccanismo non deve essere autoreferenziale e interessato solo alla sua sopravvivenza; in altri termini, l’abbattimento della domanda di sicurezza sociale o il decrescente ricorso al sostegno al reddito sono effetti che devono essere determinati dalla proficua partecipazione ai percorsi di riqualificazione che accompagnano nuovamente, ad esempio, il disoccupato all’interno del mercato del lavoro. Il calo della domanda di servizi, quindi, non deve essere determinato dalla difficoltà di accedervi (in maniera, come si è detto, partecipativa) ma dalla insussistenza del bisogno.

Tali considerazioni conducono al cuore del discorso.

Il sistema di reciprocity e conditionality funziona solo se le regole del gioco sono saldamente ancorate a politiche attive sostenute da un adeguato impegno finanziario, il che significa – in parole povere – che gli stati devono destinare alle politiche attive per il mercato del lavoro ingenti somme di denaro.

Una seconda e approssimativa conclusione, allora, può prendere corpo proprio in questa osservazione: l’inclusività del mercato (intesa quale particolare dinamismo dello stesso che consente il facile e frequente passaggio dallo stato di occupato a quello di disoccupato e, soprattutto, viceversa) dipende anche dagli investimenti dello Stato e non solo (o non tanto) dalle regole che governano l’accesso/l’uscita al/dal mercato stesso.

Diversamente argomentando si rischia di lavorare solo sulla regola e non sui suoi effetti24.

Né appare concretamente ipotizzabile che un ingente investimento pubblico determini uno scarso “ritorno” o, peggio, un disincentivo alla partecipazione degli aspiranti beneficiari: se gli indennizzi di natura economica hanno un valore notevole e, al contempo, la loro erogazione richiede un impegno notevole da parte del beneficiario è evidente che la misura non potrà mai essere interpretata quale strumento meramente assistenziale.

Sposando tale approccio, pertanto, il ruolo dello Stato è fondamentale: esso deve investire ingenti risorse economiche sul sistema; deve strutturare un meccanismo di reciprocity e conditionality idoneo a giustificare gli ingenti investimenti e a garantire un corrispondente impegno dei soggetti partecipanti al sistema; deve lavorare per elidere le disuguaglianze che minacciano il sistema giacché, com’è intuibile, “costringere” soggetti con diverse professionalità ed esperienze a seguire i percorsi che consentono una nuova immissione nel mercato del lavoro significa calibrare gli interventi in modo da evitare la mortificazione degli individui.

In sintesi, quindi, le indicazioni che provengono da oltralpe sono semplici e chiare: le politiche attive per il mercato del lavoro devono essere ancorate a un massiccio sostegno economico, provvisto dallo Stato; le regole governanti il meccanismo devono affondare le radici nel concetto di reciprocità e condizionamento: i soggetti che domandano sicurezza sociale e richiedono servizi a sostegno dell’occupazione e/o del reddito devono essere coinvolti nel meccanismo e devono profondere un notevole impegno, in un rapporto per così dire sinallagmatico con lo Stato.

  1. A cosa serve il reddito di cittadinanza?

Restando fedeli allo scopo degli appunti che si svolgono, non appare inutile provare a confrontarsi con alcuni punti di arrivo sui quali si fonda certa letteratura, particolarmente attenta all’effetto sostitutivo – ripetesi: a Costituzione invariata –che potrebbe produrre l’implementazione di un reddito di cittadinanza25.

Al netto delle riflessioni sociologiche (con le quali non è possibile confrontarsi, stanti i limiti di chi scrive) e delle ragioni di opportunità politica (con le quali non ci si vuole confrontare, per ovvie ragioni), possono ipotizzarsi (almeno) due risposte all’interrogativo che inaugura il paragrafo:

  1. Il reddito di cittadinanza è utile a liberare le persone dal bisogno.

  2. Il reddito di cittadinanza è utile ad eliminare l’asimmetria tradizionalmente caratterizzante i rapporti intercorrenti tra i titolari dei mezzi di produzione e i lavoratori subordinati.

Quanto alla risposta a): si tratterebbe di ridefinire lo stesso patto sociale sul quale si fonda il vincolo che unisce la collettività. E’ a dir poco evidente che altra è la regolamentazione di un salario minimo utile a realizzare equità (anche nell’ottica della lotta alla povertà26) altra è la definitiva ablazione del principio di partecipazione alla società per il tramite di attività lavorativa (evidentemente salariata).

Non appaiono immediatamente individuabili gli elementi utili ad affermare – sul piano scientifico – che l’immediata ed incondizionata disponibilità di somme di denaro (evidentemente piccole o, comunque, inferiori a quanto percepito a titolo di corrispettivo per l’esecuzione di attività lavorativa) sia utile a superare il bisogno non inteso come stato ma come diversa posizione rispetto al titolare dei mezzi di produzione.

Salvo che non si intenda per bisogno quello stato in cui vivono – purtroppo – fette importanti di popolazione che sono costrette a svolgere attività formalmente non definibili come attività lavorative salariate: ma ove così fosse l’intervento dello Stato dovrebbe essere più immediato ed incisivo e volto a ristabilire in modo chiaro la collocazione della linea che separa il lecito dall’illecito, lo sfruttamento dal lavoro.

In altri termini, com’è stato sostenuto, non si può pensare al superamento dello stato di bisogno come mera liberazione da lavori leciti ma ritenuti poco edificanti o poco stimolanti, posto che in un sistema complesso (a vocazione capitalistica) sarà sempre necessaria la disponibilità di persone per lo svolgimento di attività (ripetesi: lecite) poco gratificanti e/o poco qualificate ovvero per le quali non è richiesta particolare specializzazione27.

Quanto alla risposta b): si tratta di asimmetria che è tradizionalmente ricondotta alla diversa posizione nella quale sono collocati datori di lavoro e lavoratori subordinati28.

Ma anche in questo caso è necessario esprimere qualche perplessità: se l’asimmetria rileva – com’è noto – sul potere di contrattazione, è evidente che la disponibilità di un reddito svincolato dal lavoro (e che, ripetesi, non è equiparabile quantitativamente al salario) non risolve il problema, che invece investe altri piani, sui quali insistono peraltro soggetti estranei al rapporto individuale. Sono i sindacati, più di altri, a dover svolgere una funzione di mediazione finalizzata, per un verso, a tutelare l’interesse collettivo del quale sono affidatari e, per altro verso, a dover governare il pure difficile rapporto tra insiders e outsiders al fine di evitare competizioni “al ribasso”.

In buona sostanza, che il reddito di cittadinanza sia utile a consentire alle persone lo svolgimento di altre attività, diverse dal lavoro e più gratificanti, e ad eliminare le asimmetrie pare conclusione non convincente.

Forse è possibile ipotizzare a cosa non serve il reddito di cittadinanza: a competere con le attuali politiche attive/passive; a sostituire quegli strumenti specificamente finalizzati alla stimolazione della domanda di forza lavoro.

Quanto al primo aspetto: le politiche attive/passive sono evidentemente finalizzate a sostenere chi il lavoro lo perde, ammortizzando il venir meno del salario e compulsando il reinserimento. Utilizzano, quindi, la partecipazione al mercato del lavoro quale filtro utile ad escludere l’universalità delle misure. Va da sé che non è neanche immaginabile un effetto competitivo: chi perde il lavoro ha interesse a ricollocarsi nel più breve tempo possibile e nel miglior modo possibile; le sue vicende non sono accostabili a quelle di chi non vuole o non può lavorare (soggetti ai quali l’ordinamento riserva, ovviamente, considerazione diversa).

Il che significa che il sistema deve garantire la funzionalità di meccanismi utili a restituire la risorsa al mercato: la tutela non può che essere “cucita” addosso a chi si affida a tale rete di protezione.

Il che non significa che le politiche attive/passive in essere siano efficienti e/o non siano migliorabili: il punto è che si tratta di politiche che ruotano intorno al lavoro quale strumento di coesione sociale; non appare sostituibile tale strumento con altri (ancorati alla cittadinanza/residenza, ecc.) posto che – pure immaginando di vivere nel miglior mondo possibile – non appaiono eliminabili dal mercato quelle frizioni che impongono l’esistenza di una rete di sicurezza specificamente dedicata a chi fuoriesce dal mercato per poi rientrarvi.

In buona sostanza: il reddito di cittadinanza non si occupa dei lavoratori, occupandosi, di tutti; i lavoratori, tuttavia, non cessano di esistere e non cessano di nutrire bisogni specifici che sono collegati al più generale sistema di produzione di beni e servizi; di tali bisogni si fanno tradizionalmente carico i sistemi di welfare basati – appunto – sul lavoro, ossia, sulla partecipazione delle persone al mercato del lavoro.

Quanto al secondo aspetto: le politiche attive sfruttano la condizionalità sia al fine di recuperare il beneficiario all’interno del mercato (che lo ha espulso) sia al fine di consentire ai datori di lavoro (o potenziali tali) di beneficiare di strumenti che favoriscono l’instaurazione di nuovi rapporti di lavoro e/o il recupero dei posti persi.

Qui la riflessione rischia di diventare banale: il reddito di cittadinanza dovrebbe essere utile a restituire libertà alle persone; libertà che dovrebbe essere utile o a scegliere il lavoro da svolgere o a scegliere se e come interloquire con i soggetti titolari dei mezzi di produzione (senza soffrire la sopra citata asimmetria): il punto è che né in un caso né nell’altro è ipotizzabile il definitivo superamento dei periodi di crisi che investono – regolarmente ormai – il mercato e, quindi, non pare possibile eliminare – a piè pari – quegli strumenti utili a stimolare la domanda di forza lavoro.

Si tratta di strumenti che – com’è noto – hanno un costo (sia che si tratti di agevolazioni sul piano normativo-contrattuale, sia che si tratti di incentivi quali decontribuzione, detassazione ecc.) e che, però, specie nel breve periodo, producono effetti.

Per tagliar corto, non sembra ipotizzabile un effetto sostitutivo tout court giacché pure in presenza della erogazione di reddito di cittadinanza a tutte le persone non verrebbero meno quelle esigenze – ripetesi: legate alle fisiologiche frizioni del mercato – che servono, per un verso, ad assicurare ai lavoratori la conservazione (anche se non al cento per cento) della disponibilità reddituale e, per altro verso, ad assicurare ai datori di lavoro stimoli significativi per creare posti di lavoro (spesso la creazione non è altro che emersione) e/o recuperare i posti perduti.

In conclusione, ove il miglior argomento a sostegno del reddito di cittadinanza fosse ancorato al costo fino ad oggi sopportato per il sostegno alle politiche attive/passive (id est: il costo sarebbe pari o inferiore a quello sopportato tradizionalmente per ammortizzare la perdita del salario) si dovrebbe pur ammettere che la differenza genetica con i noti strumenti (differenza che emerge chiaramente badando alla definizione fornita dal BIEN) esclude sia la competizione sia la sostituzione.

Il che stimola, piuttosto, una ulteriore considerazione: è forse immaginabile una misura complementare a quelle già in essere, per la concreta affermazione di meccanismi distributivi (e, quindi, una misura utile a fare emergere un livello minimo di tutela economica delle persone, anche a prescindere dalla capacità di produrre reddito, ma ferma la sussistenza di un certo stato di bisogno)29.

Misura che però appare incompatibile con tutte e 5 le caratteristiche sopra riepilogate e che, pertanto, non pare riconducibile alla definizione di reddito di cittadinanza.

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Note

1 Uno dei più autorevoli studiosi del tema è Giovanni Bronzini (socio fondatore dell’associazione Basic income network): oltre a Il reddito di cittadinanza. Una proposta per l’Italia e per l’Europa, Torino, 2011, si veda ora Il diritto a un reddito di base. Il welfare nell’era dell’innovazione, Torino, 2017. Per un approccio più tipicamente lavoristico si rinvia a G. Gentile, Claudia Avolio, Antonello Baldassarre, L’esperienza del Reddito di Cittadinanza: welfare locale, strumenti partecipativi e politiche di inclusione sociale, in Diritti Lavori Mercati, 2011, II, p. 333 e ss.; C. Del Bò, Il reddito di cittadinanza fra mito e realtà, in il Mulino-Rivisteweb, settembre-ottobre 2013, 5, p. 790 e ss.; V. Bavaro, Reddito di cittadinanza, salario minimo legale e diritto sindacale, in Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale, 2014, n. 2, p. 169 e ss.; F. Martelloni, Il reddito di cittadinanza nel discorso giuslavoristico: le interferenze con la disciplina dei rapporti di lavoro, ivi, p. 189 e ss.; A. Lassandari, Il reddito, il salario e la <<mossa del cavallo>> (a proposito di un recente convegno su reddito di cittadinanza e salario minimo), ivi, p. 49 e ss. Per una rassegna delle opinioni in argomento si rinvia – anche per i riferimenti bibliografici – a M. Martone, Il reddito di cittadinanza. Una grande utopia, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2017, I, p. 409 e ss. Per un punto di vista più generale v. W. Nocito, Reddito minimo garantito e cittadinanza sociale europea, in La cittadinanza europea, 2017, 2, p. 113 e ss.

2 Definizione reperibile in http://basicincome.org/basic-income/ (consultato a gennaio 2018).

3 Dei quali riferisce, in nota 15, V. Bavaro, op. cit., p. 173.

4 Cfr. ancora il ragionamento condotto da V. Bavaro, op. cit., p. 173 e p. 174.

5 Cfr. in argomento S. Bellomo, Retribuzione sufficiente e autonomia collettiva, Torino, 2002.

6 V. Bavaro, op. cit., p. 181. Questa distinzione fa pure da sfondo alle speculazioni condotte dagli studiosi del diritto pubblico: cfr. S. Gambino, Cittadinanza e governante europea: quale effettività per i diritti sociali e la concezione normativa della Costituzione, in La cittadinanza europea, 2016, 2, p. 5 e ss. e, ancora, W. Nocito, op. cit.

7 Cfr. C. Del Bò, op. cit., p. 792.

8 P. Van Parijs, Real freedom for all, Oxford University Press, 1995.

9 C. Del Bò, op. cit., p. 795.

10 F.V. Ponte, Il mercato del lavoro tra flessibilità in entrata e in uscita, Napoli, capitoli 1e 2.

11 Il riferimento è, ovviamente, ai paesi nordici (Danimarca, Svezia, Norvegia, ma anche Gran Bretagna). Cfr. B. Caruso, S. Sciarra, Flexibility and Security in Temporary Work: A comparative and european debate, W.P.C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, INT, 2012, 57. Per una analisi di più ampio respiro sul welfare in Europa (e per i riferimenti al concetto di deprezzamento della territorialità) cfr. S. Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa, Bologna, 2012, 11 ss. nonché 31 ss.

12T. Horton, Reciprocity, condizionality and welfare: the case of active labour market policy un Britain, EL, XLIV, 2010, 3, 23 ss.

13W.H. Beveridge, Prices and Wages in England from the Twelfth to the Nineteenth Century, London, 1939; Id., Social Insurance and Allied Services (The Beveridge Report), 1942.

14T. Horton, o.u.c., 34: il meccanismo governante l’intervento pubblico era definito means-tested, ossia, era basato sulla verifica del reddito medio e non sul contributo concreto che il beneficiario poteva dare al sistema.

15Id., o.u.c., 35 ss.

16Id., o.u.c., 37 ss.

17Carrots and sticks system.

18T. Horton, o.u.c., 25 ss.

19Sul paternalismo cfr. V. Ferrari, Consumatore, utente e paternalismo del legislatore, Corti Cal., 2006, 2, 443 ss.

20T. Horton, o.u.c., 39 ss.

21Sui sistemi di disincentivazione v. il British Poor Law e il meccanismo di selezione rigida dei claimants: sul tema cfr. M. Powell, New Labour anche the third way in the British welfare state: a new and distinctive approach? reperibile in http://csp.sagepub.com/content/20/1/39.short.

22R. Blank, B. Kovak, The growing problem of disconnected single mothers, Madison, 2007-2008.

23T. Horton, o.u.c., 40 ss.

24Cfr. L. Zoppoli, La riforma del mercato del lavoro vista dal Mezzogiorno: profili giuridico-istituzionali, dattiloscritto.

25 Cfr., anche per i riferimenti bibliografici, C. Tripodina, Reddito di cittadinanza come “risarcimento per mancato procurato lavoro”. Il dovere della Repubblica di garantire il diritto al lavoro o assicurare altrimenti il diritto all’assistenza, in Costituzionalismo.it, 2015, fasc. 1.

26 In questa direzione va il c.d. ReI – reddito di inclusione – previsto dal d.lgs. 15 settembre 2017, n. 147: “A decorrere dal 1° gennaio 2018, e’ istituito il Reddito di inclusione, di seguito denominato «ReI», quale misura unica a livello nazionale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. 2. Il ReI e’ una misura a carattere universale, condizionata alla prova dei mezzi e all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà”.

27 Cfr. V. Bavaro, op. cit., p. 186.

28 Cfr. sul tema: G. Santoro-passarelli, Il diritto dei lavori e della occupazione, Torino, 2015, p. 6 e ss.; F. Santoni, Lezioni di diritto del lavoro, Napoli, II, 2015, p. 11 e ss.; O. Mazzotta, Diritto del lavoro, Milano, 2016, p. 25; R. Del Punta, Diritto del lavoro, Milano, 2012, p. 27; M. Biagi, (continuato da) M. Tiraboschi, Istituzioni di diritto del lavoro, Milano, 2012, p. 53; F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro. 2. Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 2005, p. 10.

29 Ripetesi, è recentissima l’introduzione del ReI e, quindi, non è possibile esprimere una valutazione sulla efficacia di tale strumento.

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