di Marco Ferrari

Nota redazionale – L’articolo qui proposto è una versione modificata dell’originale pubblicato su “Il Nodo” (Falco Editore), supplemento al n. 51, dicembre 2021, con il titolo «La via dell’inclusione. Un sentiero da Basaglia all’ICF».

Sommario

  1. Esclusione sociale come tendenza di base
  2. Franco Basaglia e la promozione della Legge 180/1978
  3. Scuola e società dall’integrazione all’inclusione
  4. Modelli di classificazione della disabilità (e oltre)

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1. Esclusione sociale come tendenza di base

Le discussioni che negli ultimi anni avvengono sui media riguardo al tema dell’inclusione sono, spesso, inficiati da una scarsa conoscenza del dibattito in ambito specialistico, da posizionamenti ideologici volti alla polemica anziché al confronto tra idee e visioni diverse, nonché da fraintendimenti, manipolazioni e paure irrazionali sulla perdita di presunte identità culturali, diritti a esprimere idee divergenti e così via. Una situazione ben nota, che si evince in tutti i campi dell’opinione pubblica ormai svincolata da filtri interpretativi e dunque preda, purtroppo, di «legioni di imbecilli»1 la cui rinnovata e improvvisa libertà di parola si riduce a sterili litigi tra fazioni. Tale problema culturale e comunicativo si presenta come essenzialmente pedagogico, non solo e non tanto sul piano della comunicazione in senso stretto, quanto sull’orizzonte di visione della società che si vuol costruire per il futuro: chiusa, esclusiva e standardizzata su un concetto di normalità spesso cristallizzato ideologicamente; oppure aperta e inclusiva delle differenze umane, in quanto ambiente che favorisce l’espressione e la partecipazione di ognuno.

La prospettiva di una sempre maggiore apertura inclusiva nella società comporta questioni riguardanti il linguaggio da utilizzare, la costruzione di ambienti inclusivi, l’accettazione di diversità personali e sociali, spesso marginalizzate fino a oggi, che con grande fatica riescono a ottenere un po’ di visibilità. Questo processo ha riguardato diverse forme di cosiddetta “anormalità” nel corso dei decenni, con la possibilità di fornire riconoscimento a realtà ritenute marginali, o appunto anormali, rispetto sia alla percezione individuale di malattie, disabilità, disturbi mentali, sia alla percezione sociale di determinati stili di vita, come del ruolo sociale che compete a determinate persone per classe di appartenenza, genere sessuale, colore della pelle e via dicendo. La società, intendendo in questo senso generalizzato quella a noi più conosciuta e vicina (europea e americana, “occidentale”, capitalistica, liberaldemocratica), è basata in modo tendenziale su una mentalità ancora esclusivista, che persino nei frangenti culturali più pop continua a promuovere un concetto di esclusione proposto in modo positivo: a titolo di esempio, la persistente strategia di marketing che propone come migliore qualcosa di esclusivo, ossia un modo di intendere l’esclusività come ciò che, non essendo per tutti, aumenta di valore per il solo fatto di essere per pochi, escludendo per l’appunto chi non può permettersi quel determinato bene (o servizio)2.

Il lavoro per rendere la società più accogliente rispetto a tutte le diversità, le necessità, i bisogni, che si possono frapporre tra i singoli individui e la realizzazione delle loro vite, è un lavoro di certo difficile e molto lungo; anche quando viene condotto con le migliori risorse e i migliori modi di organizzazione, compreso il punto di visto legislativo, nella realtà concreta è soggetto a infiniti momenti di arresto, di stallo, finanche di retrocessione. Tuttavia, in Italia si sono avuti esempi, tanto storici quanto specifici, di avanguardia culturale e organizzativa nel campo dell’inclusione delle diversità, in particolar modo nell’ambito scolastico.

Quanto più ci si addentra nelle questioni dell’inclusione, tanto più si entra in un ambito specifico, anche dal punto di vista dei settori scientifico-disciplinari. Il contesto di inclusione sociale, didattica e scolastica concretizzato nelle pratiche della pedagogia speciale, porta a vedere l’inclusione intesa come modello di operatività, principalmente nella scuola3. Dall’iniziale questione della disabilità e delle possibilità di integrare le persone con problemi fisici, sensoriali o cognitivi nello stesso ambiente delle persone “normodotate” – un termine non a caso abbandonato in favore dell’espressione “a sviluppo tipico/atipico” – si è allargata la visione ai DSA (disturbi specifici dell’apprendimento), che non riguardano necessariamente una disabilità fisica derivante da menomazione, fino a concepire la macro-categoria dei BES (bisogni educativi speciali), un importante passo per il riconoscimento della complessità delle situazioni di svantaggio o difficoltà che costituiscono il lavoro reale per l’inclusione scolastica4.

2. Franco Basaglia e la promozione della Legge 180/1978

L’esempio storico di Franco Basaglia è, a parere di chi scrive, fondamentale per la concezione sociale della diversità individuale e collettiva, e delle pratiche per una adeguata politica di inclusione. Psichiatra e neurologo attivo soprattutto tra gli anni Cinquanta e Settanta, si è occupato della riforma radicale delle istituzioni psichiatriche italiane, con risonanza internazionale, ispirando la Legge 13 maggio 1978, n. 180, comunemente associata al suo nome5. A essa (legge per la promozione della riforma psichiatrica, con particolare riguardo ai trattamenti sanitari obbligatori, che in essa trova accoglimento in forma di abrogazione di diversi articoli della precedente Legge 14 febbraio 1904, n. 36) si deve l’abolizione del manicomio come luogo di segregazione delle persone malate di mente, promuovendo una trasformazione basata sui rapporti umani e sulla possibilità di riallacciare i rapporti tra l’interno e l’esterno dell’istituzione: per Basaglia, il quale partiva da una formazione filosofica, con una visione dunque non solo medica, ma anche esistenzialista e fenomenologica della questione, l’idea di persona affetta da turbe psichiche doveva divergere dal semplice bisogno di cure mediche6. Segregare i malati, escluderli dal resto società, equivale per lo psichiatra a costituire i manicomi come discariche di esseri umani, chiusi dentro strutture spesso inadeguate, con un personale medico che li considera folli, fuori da ogni controllo, con l’unica cura della somministrazione di farmaci. Non c’è una visione umana del malato di mente, nel senso letterale di non riconoscerne l’umanità, ottenebrata dalla condizione patologica. Per Basaglia invece il paziente ha bisogno, oltre alle cure psichiatriche, di instaurare un rapporto umano con chi se ne prende cura (il medico, lo psichiatra, il personale dell’istituzione, chiunque segua il suo caso) per riacquistare quella dimensione propriamente umana e personale altrimenti perduta. Se visto solo in quanto tale, il malato viene identificato con il suo disturbo mentale e rimane cristallizzato nella sua condizione, percepita così solo come malattia da curare.

Ciò non porta a risultati effettivamente efficaci. Ogni essere umano, al contrario, ha bisogno di sviluppare una propria autonomia, una famiglia, la possibilità di agire nella società, e questo implica orientare le cure psichiatriche alla reinserimento della persona (con attenzione ai vari casi e necessità) in una rete di rapporti, perché questa rete tra malato e personale medico, come tra persona e resto della società, è necessario per riacquistare questo genere di umanizzazione. Essa porta a facilitare uno sviluppo dell’autonomia, un recupero di dignità. La legge 180 ha aperto, simbolicamente e concretamente, le porte degli istituti psichiatrici per assicurare il libero accesso nei due sensi tra istituzione e società, tra interno ed esterno, riallacciando i rapporti umani dentro e fuori dell’istituzione. La possibilità di queste relazioni con il mondo a sviluppo tipico aiuta a far evolvere la situazione personale, laddove la chiusura e l’esclusione aggravano le condizioni patologiche individuali, sclerotizzandole. Lo stigma della malattia mentale è ancora oggi piuttosto forte, il reietto è marginalizzato da una società che non concepisce una “normalità” in cui sia presente la malattia. Il lavoro di Basaglia è dunque basilare per immaginare come possa funzionare una società in cui si dia alle persone con determinate disabilità, la possibilità di crearsi una propria autonomia7.

Dal punto di vista pedagogico, si tratteggia un modello teorico utile per l’inclusione scolastica, supportato peraltro dall’UNESCO che nel 2009 ha pubblicato le Linee guida per l’educazione inclusiva, in cui uno degli obiettivi fondamentali per avere un’educazione inclusiva riguarda la costruzione di sistemi scolastici in grado di rispondere alla diversità di bisogni dei singoli studenti e studentesse. Quindi, capaci di accogliere tutti e adattarsi alle esigenze di ciascuno. Questo non è un caso, perché l’idea stessa di scuola, in Italia, viene definita una “scuola per tutti e per ciascuno”, nel senso che sia rivolta alla totalità della popolazione, ma che in questo non sia massificante, che tenti cioè di andare incontro alle specifiche esigenze, per quanto possibile, di ogni singolo studente. Naturalmente, per fare questo è necessario che ci siano delle istituzioni scolastiche che riescano a organizzarsi in maniera specifica rispetto agli studenti iscritti, ai rapporti con le famiglie, quindi alle varie esigenze da prendere in considerazione, perché è il contesto che deve essere configurato nel modo migliore.

3. Scuola e società dall’integrazione all’inclusione

«Integrazione e inclusione non sono affatto sinonimi anche se spesso vengono utilizzati come termini interscambiabili con cruciali ricadute sulle pratiche educative. La strada che porta ad una piena declinazione dell’inclusioneè ancora lunga e complessa in quanto una scuola per potersi definire inclusiva deve essere in grado di riconoscere e valorizzare pienamente tutte le differenze intesein termini di infinite varietà delle diversità umane (condizioni di disabilità, genialità, differenze di pensiero e di apprendimento, differenze di genere e di orientamento sessuale, differenze culturali e linguistiche, familiari, socio-economiche e così via), ciascuna delle quali si traduce in una varietà di Bisogni Educativi Speciali».8

C’è stato un lungo processo, iniziato negli anni Sessanta, che ha portato studenti e studentesse con determinate situazioni all’interno della scuola, passando dall’iniziale idea dell’inserimento, ossia di porre nelle classi di bambini a sviluppo tipico – per utilizzare il linguaggio crrente – anche tutti quelli a sviluppo atipico, per riuscire a superare le scuole speciali istituite a partire dall’Unità d’Italia. La segregazione di determinati segmenti era infatti presente anche a scuola: i bambini che presentavano un certo grado di ritardo mentale o altri tipi di disabilità o problemi, venivano iscritti a delle scuole speciali, dedicate appunto solo a loro; ma era questione in certo modo simile a quella dei manicomi, con la tendenza a marginalizzarli in un ambiente che, pur essendo progettato in base alle loro esigenze, era però sempre e comunque un luogo di esclusione dal contesto. Perciò l’idea di inserirli nella scuola “normale”, contribuiva a mettere in contatto la loro personalità con un ambiente più ampio, dove potessero sviluppare anche in relazione a esso. Attraverso gli anni Settanta e Ottanta, il progresso all’idea di integrazione ha valorizzato la loro condizione personale, con gli insegnanti di sostegno e tutto l’apparato di supporto a studenti con disabilità, partendo dalla loro prospettiva individuale, cercando di aiutarli a raggiungere gli obiettivi e quei modi di interagire tipici dell’istituzione scolastica. Una integrazione in cui la persona con disabilità veniva quindi aiutata, supportata, facilitata, con grande attenzione alle sue necessità individuali, ad adeguarsi all’ambiente cui ha accesso, in modo da raggiungere obiettivi comuni a tutti.

È a partire degli anni Novanta che lo sforzo per arrivare all’inclusione, concetto attuale, si è intensificato in maniera significativa. La novità del concetto risiede nel cambio radicale di prospettiva: non è più l’individuo con disabilità a doversi adeguare al contesto, bensì il contesto in quanto tale a essere progettato per funzionare in modo da venire incontro alle esigenze di ciascuno Dunque, è l’ambiente a diventare inclusivo, perché per la sua propria conformazione trovano posto tutte le persone che, con diverse capacità, abilità o disabilità, riescono a interagire autonomamente, avendo i mezzi e le capacità di affrontare i diversi gradi di difficoltà, di disabilità ecc.

In sostanza, il soggetto a sviluppo tipico non è più il soggetto principale su cui si basa la costruzione di ambiente scolastico: l’orientamento inclusivo infatti riguarda i ritmi di tutti, i diritti di tutti e quindi il modo di portare avanti l’organizzazione scolastica quotidiana, tanto dal punto di vista teorico quanto pratico. Sono stati costituiti nel corso del tempo una serie di organi che nella scuola a livello locale, istituto per istituto, si occupano in modo specifico della questione dell’inclusione. Per esempio il GLI (Gruppo di lavoro per l’inclusione), formato da insegnanti, personale amministrativo, genitori, è un organo ampio che all’intero dell’istituto si occupa di redigere il PAI (Piano annuale per l’inclusività), documento programmatico che serve a orientare il Collegio dei docenti e il Collegio di istituto a redigere anche il PTOF (Piano triennale dell’offerta formativa), un piano di organizzazione rispetto alla questione curricolare e didattica, ma anche rispetto all’interazione con gli Enti locali, per espandere l’offerta al di fuori della scuola, verso il territorio. Si basa su un lavoro di adeguamento dell’offerta formativa e didattica rispetto alle situazioni che si vengono a creare con le studentesse e gli studenti presenti, siano essi a sviluppo tipico o atipico, essendovi diverse categorie di problemi e di situazioni in un contesto frequentato da studenti che vengono dalle più disparate situazioni familiari, personali e sociali. Sigle già citate come BES e DSA riguardano alcuni tipi di problemi che non sono prettamente legati alla disabilità, ma comunque rientrano nella necessità di adeguare l’organizzazione scolastica alle necessità di ciascuno, offrendo quindi un ambiente adatto all’accoglienza di tutti i tipi di studenti e studentesse. I DSA, come è noto, comprendono disturbi connaturati alla persona, quindi non effettivamente eliminabili, ma con determinate iniziative didattiche, con strumenti compensativi e misure dispensative (e altri supporti e interventi), possono essere superati, rendendo possibile continuare ad affrontare il proprio percorso di studi senza che questi disturbi lascino indietro lo studente o la studentessa che li presenta. Si tratta di disturbi specifici perché non è detto che una persona con discalculia o dislessia abbia anche altri problemi, da altri punti di vista. È infatti possibile intervenire su quei disturbi particolari mediante, ad esempio, l’autorizzazione all’uso della calcolatrice per chi ha discalculia, o l’uso di mappe mentali e concettuali per non confondersi e avere tutto sotto controllo nell’esposizione dei contenuti. Il che non significa semplicemente leggere un testo per l’interrogazione, bensì avere un supporto atto a superare i problemi di organizzazione dei contenuti.

Per quanto concerne i BES (come si è detto, una macro-categoria che ricomprende anche i DSA), sono delineate anche questioni socioeconomiche: per esempio, uno studente o una studentessa proveniente da un contesto di marginalità sociale, di povertà, di difficoltà anche linguistica, come nel caso degli studenti stranieri, è motivo di intervento mirato a dare supporto per il superamento della difficoltà, ossia del bisogno speciale configurato dalla situazione di vita; la difficoltà, a differenza del disturbo, non è innata, bensì transitoria e può essere risolta con interventi adatti. L’attenzione all’uso dei termini è un ulteriore ambito di riflessione, scaturito anche dalla citata confusione tra integrazione e inclusione; la confusione tra disturbo e difficoltà, tra questi e la disabilità, è uno dei motivi per cui il dibattito specialistico non riesce a far breccia nell’opinione pubblica, generando una incomprensione diffusa delle tematiche dell’inclusione. Eppure esistono modelli di classificazione della disabilità e delle altre situazioni qui trattate, la cui precisione sempre più affinata nelle descrizioni terminologiche può ovviare, se adeguatamente comunicata, a ogni ricaduta potenzialmente negativa nell’organizzazione pedagogica reale.

4. Modelli di classificazione della disabilità (e oltre)

Nel corso dei decenni si sono avvicendati, intrecciandosi tra di loro, vari modelli internazionali sulla classificazione delle disabilità, per aumentare l’azione inclusiva. Affrontare la disabilità attraverso schemi e modelli che ne classifichino la natura e il riconoscimento serve a implementare l’inclusione, principalmente scolastica; l’idea stessa di diversità è cambiata nel corso del tempo e i modelli di riconoscimento sono passati da una linearità delle definizioni (incentrate su una nomenclatura medica) a una complessità di interazione tra diverse concezioni; in particolare, con lo sviluppo dei Disability Studies9 si è compreso il ruolo delle relazioni sociali rispetto alla disabilità. Attivisti di varia provenienza hanno sottolineato e portato alla luce tale complessità, aiutando a sviluppare diversi modelli; i principali sono il modello individuale, il modello sociale, il modello ICF (funzionamento) e, affianco a questi modelli sviluppati in ambito specialistico, il Capability Approach, ossia il modello delle capacità propposto da Sen e Nussbaum.

Ognuno di essi, da un punto di vista differente, mette in risalto determinate questioni e conduce a un ampliamento progressivo del concetto di inclusione, a iniziare dal problema dell’accessibilità: se nell’immediato sono le barriere architettoniche a rappresentare un limite concreto per le persone con disabilità, la consapevolezza dell’esistenza di barriere di altro genere, per esempio culturali, ha dato impulso al campo di studi denominato Design for All; in ambito pedagogico, la branca specializzata è lo Universal Design for Learning, in cui alla soluzione di problemi strutturali architettonici viene affiancata una riorganizzazione dei processi relazionali e di apprendimento10.

Andando con ordine, i differenti orientamenti seguono due prospettive di base, riassumibili nel quesito: i problemi riguardanti la disabilità sono relativi solo alla condizione del singolo, o sono derivanti dal contesto di vita? Il modello ICIDH (International Classification of Impairment, Disability and Handicap), elaborato dall’OMS nel 1980, è stato il primo grande lavoro di classificazione delle disabilità, in cui l’approccio medico è predominante: la disabilità è una condizione patologica, per cui è richiesto l’intervento di professionisti formati a compiere azioni di natura clinica, riabilitativa ed educativa, volte a sopperire le carenze individuali e facilitarne l’adattamento al contesto. Si tratta di un modello con definizioni di menomazione (impairment), disabilità (disability) e svantaggio (handicap), la cui linearità denota una precisa relazione tra cause ed effetti: la menomazione determina la disabilità, che a sua volta causa lo svantaggio. Esempio: una persona non vedente ha una menomazione oculare, a causa di cui ha una disabilità locomotoria, che comporta svantaggi nella mobilità, sul lavoro ecc.11 Tale linearità è stata oggetto di revisione nel 1997 con l’ICIDH-2, per dare conto di una visione più complessa delle implicazioni nelle menomazioni e disabilità, introducendo poi il concetto di «partecipazione attiva», che sarà molto importante per lo sviluppo futuro. L’importanza di questo modello risiede nell’attenzione ai bisogni del singolo e alle forme di intervento più adeguate per risolvere ogni situazione; tuttavia, il focus sulla mancanza funzionale accentua la contrapposizione tra ciò che è considerato “normale” e ciò che non lo è. Il rischio insito in questa concezione è di inglobare l’identità individuale nella patologia; l’uso di termini come handicappato, disabile o diversamente abile, ormai abbandonati in ambito specializzato, identifica infatti la persona con la sua condizione, ampliando la disabilità o lo svantaggio a qualificazione della persona in toto.

In Italia, l’adesione al modello individuale è stata predominante nei quarant’anni di sviluppo dell’integrazione scolastica, raggiungendo uno sviluppo anche molto avanzato nel contesto europeo, con l’attenzione ai bisogni del singolo, la richiesta e la formazione di personale specializzato (insegnanti di sostegno), attività didattiche specifiche e spesso separate dal resto delle classi, soprattutto lotta alla discriminazione, sempre nel tentativo generale di adeguare il singolo al gruppo classe. In ciò si riflette appunto quanto visto sopra: è l’individuo, il bambino o la bambina, ad avere un problema, un certo tipo di disabilità, e questa va adattata al tipo di ambiente in cui questo individuo deve esse inserito.

La differenza tra integrazione e inclusione passa dunque per l’implemento della prospettiva individuale/clinica con quella sociale/culturale. A partire dagli anni Novanta, l’attivismo politico di alcune persone con disabilità (questa l’espressione corrente, con cui segnare la distanza tra la condizione patologica e l’identità individuale) ha spinto per la revisione della concezione di disabilità da problema dell’individuo a problema collettivo12, secondo la presa di coscienza che sia la società a essere disabilitante. Le barriere sociali, architettoniche e di mentalità, riguardano la disattenzione alle necessità e ai bisogni delle persone con disabilità: la società non è infatti attrezzata per accogliere i differenti tipi di funzionamento umano, essendo impostata sul funzionamento delle persone con abilità totali (ciò che al momento attuale viene definito abilismo). Il modello sociale della disabilità parte, perciò, dal tentativo di evidenziare come gli interventi di integrazione individuale siano comunque volti a far entrare in una società costruita da “non-disabili” per “non-disabili”; uno dei frutti di questo cambio di prospettiva è la Convenzione sui diritti delle persone disabili dell’ONU, pubblicata nel 2006.

Al contempo, la disciplina dei Disability Studies, sorta sulla scia di questo modello, critica il nesso causale tra menomazione e disabilità, come si è accennato, al fine di cambiare sia la scuola che la società: i BES, ad esempio, non vanno intesi come bisogni “speciali”, separati da quelli “normali”, ma considerati in quanto condizioni temporanee o permanenti di esigenza che possono manifestarsi in ciascuno, al di là di condizioni di disabilità o menomazione, secondo bisogni di apprendimento da intercettare, analizzare e rilevare per poter garantire pari opportunità a tutti13. Questo modo di intendere la questione è ancora poco diffuso in Italia, dove l’intercettazione delle situazioni di bisogno è ancora legata alla diagnosi certificata, quale condizione primaria per l’autorizzazione di misure compensative/dispensative per DSA e, soprattutto, fare richiesta per insegnanti di sostegno (spesso per occuparsi in modo specifico dell’allievo certificato, in detrimento di un lavoro collettivo con il gruppo classe).

Il terzo grande modello è l’ICF (International Classification of Functioning), elaborato dall’OMS nel 1999. Si presenta come un anello di congiunzione tra i due modelli precedenti, integrandone le istanze nell’approccio biopsicosociale, sintesi delle dimensioni della salute a livello individuale, sociale e biologico, secondo due fattori di base del funzionamento: appunto individuale, nel senso delle funzioni e strutture corporee, e ambientale, nel senso di contesto fisico, sociale e comportamentale. L’individuo con disabilità viene considerato alla luce delle determinanti condizioni ambientali che possono fungere da barriere o da facilitatori. All’approccio limitante della menomazione, si sostituisce l’attenzione alla salute, alle eventuali disabilità e alle potenzialità della persona rispetto alle possibilità di partecipazione attiva. L’analisi situazionale non punta più, dunque, a ciò che una persona non è in grado di fare, bensì a ciò che è potenzialmente in grado di compiere, relativamente agli interventi da mettere in campo in un contesto non limitante. Se i modelli precedenti si contrapponevano con prospettive radicali, il modello di funzionamento li supera e li ingloba valorizzandone gli aspetti progressivi e tralasciandone le debolezze14.

Si può affiancare a questi tre modelli generali un quarto modello, il Capability Approach, o modello delle capacità, formulato dall’economista Amartya Sen negli anni Ottanta e sviluppato assieme a Martha Nussbaum15. In questo approccio, centrale è il concetto di benessere (well-being) inteso come idea della qualità della vita, che dipende dalla capacità di trasformare i mezzi a propria disposizione in concrete realizzazioni. I punti fondamentali su cui lavorare sono lo spazio delle capacità (Capability Set), ovvero i traguardi potenzialmente raggiungibili; lo spazio dei funzionamenti (Functionings), ovvero i traguardi effettivamente realizzati; il diritto alla scelta su cosa perseguire nella propria vita, affinché questa possa considerarsi di qualità. La libertà di scelta per le persone con disabilità consiste quindi nello sviluppare le proprie potenzialità e poter gestire la propria vita. Non solo va compensato lo svantaggio, bensì va incrementata la capacità di poter scegliere: il superamento di una disabilità non coincide con l’adeguamento a una “normalità”, quanto piuttosto con l’ampliamento delle possibilità di scelta per l’individuo, con la promozione della sua capacità di autodeterminazione.

In conclusione, dal punto di vista della pedagogia questo argomento acquista un valore fondamentale nel momento in cui si voglia dare senso e profondità al concetto di partecipazione attiva nella società. Se uno dei fini ultimi è diventare dei cittadini attivi, allora è necessario che tutto l’ambiente sociale evolva tramite una educazione impostata per democratizzare e rendere sempre più inclusiva la società; per questo si necessita tanto delle possibilità di intervenire, quanto di quelle per aiutare le persone a capacitarsi, per cui ogni individuo debba essere in grado di sfruttare le proprie capacità e avere i mezzi necessari per costruire il proprio percorso. Allo stesso tempo è necessario, attraverso ciò, stimolare il pensiero critico, la creatività, l’autonomia. Parlando di emancipazione sociale attraverso l’educazione, le questioni della pedagogia speciale, della disabilità, il rapporto con questa idea di normalità che ancora oggi è culturalmente determinante, sono tutti momenti in cui si affronta nella maniera più concreta la questione generale della diversità, richiamando quella unitas multiplex di cui parla Edgar Morin16, che non riguarda solo le persone perfettamente abili, bensì tutte e ciascuna. Perché questa idea di disabilità cambia, nella sua complessità, da persona a persona e da situazione a situazione: chiunque può presentare una difficoltà, uno svantaggio o un tipo di disabilità lungo il corso della propria vita, ma solo se il contesto è concepito per accogliere e facilitare, si potranno evitare barriere di ogni genere, fisiche e mentali.

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Note

1Famosa affermazione di Umberto Eco, pronunciata all’Università di Torino in occasione del ricevimento della laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media”, nel giugno del 2015. Mi permetto di rimandare anche a Legioni di imbecilli alla conquista del villaggio globale, in questa rivista 19/07/2017.

2Qui si potrebbe entrare in un altro dibattito molto vasto, quello della natura del mercato sul piano dei valori sociali: è esso ideologicamente caratterizzato, promuovendo non solo beni di consumo, ma anche modelli e stili di vita, la cui influenza trasforma cultura e mentalità? O è forse a-ideologico, teso a sfruttare commercialmente anche l’inclusione, senza per questo promuovere necessariamente dei valori, casomai seguendone l’evoluzione in un gioco di mutua influenza? Le recenti campagne gay-friendly, o riguardanti il colore del liquido usato per dimostrare l’efficacia degli assorbenti, segnano un differente approccio rispetto alla tipica famiglia riunita a tavola o altre scene più “consuetudinarie”, ma sollevano anche critiche di rainbow-washing, ossia una forma di appropriazione culturale per attingere determinati target di consumo (da cui le ulteriori forme di pink-washing, green-washing ecc.), così come accuse di manipolazione culturale per promuovere agende politiche di parte, vere o presunte. Sia che si tratti di critiche di matrice progressista, sia che provengano da ambienti conservatori, il punto fondamentale resta la visione inclusiva come strategia di marketing, che più della strategia esclusivista provoca reazioni e contrapposizioni. Per approfondimento si consigliano: Wan-Hsiu Sunny Tsai (2004), Gay Advertising As Negotiations; Representation of Homosexual, Bisexual and Transgender People in Mainstream Commercials, in GCB – Gender and Consumer Behavior Vol. 7 (per parte progressista); Rega A., L’oscenità del corpo. Bramosie dell’immaginario, consumismo ideologizzato, indottrinamento visivo, Tau Editrice, 2022 (per parte conservatrice).

3Si consiglia Cottini L., Didattica speciale e inclusione scolastica, Carocci, Roma 2017.

4Si veda Striano M., Capobianco R., Cesarano V. P., La didattica inclusiva per una scuola di tutti e per tutti. Dal riconoscimento dei Bisogni Educativi Speciali alla personalizzazione degli apprendimenti, in Rivista Formazione, lavoro, persona, Anno VII, N. 20.

5L’estensore materiale della legge 180 è lo psichiatra Bruno Orsini. Nel dicembre dello stesso anno viene promulgata la Legge n. 833 per l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, in cui vengono accolti quasi tutti gli articoli della 180.

6Oggi è in uso, con intento polemico, l’espressione “medicalizzazione”, all’ordine del giorno in quell’epoca riguardo la malattia mentale, intesa come intervento puramente clinico e farmacologico nella soluzione di problemi che possono avere, in realtà, origini e dimensioni di tipo sociale ed esistenziale, e dunque la polemica si rivolge al riduzionismo insito nel trattamento unicamente sanitario di differenti problemi. La polemica, al netto delle consuete esasperazioni, non è del tutto peregrina. L’evoluzione dalla prospettiva essenzialmente medica riguardo alla disabilità, che qui ci interessa, alla prospettiva di rilevazione degli elementi disabilitanti presenti nella società, non è un’evoluzione lineare, né può essere data per certa, dovendo sempre mantenersi alta l’osservazione critica dei fenomeni.

7Consiglio la lettura di Conferenze brasiliane (Raffaello Cortina Editore, 2018 – nuova edizione degli scritti raccolti originariamente nel 1984, a cura di F. Ongaro e M. G. Giannichedda), ultima testimonianza dei percorsi di lavoro e di studio dello psichiatra.

8Striano, Capobianco, Cesarano, cit., pag. 25.

9Si veda, come esempio per il contesto italiano, Medenghini R., Disability Studies. Emancipazione, inclusione scolastica e sociale, cittadinanza, Erickson, Trento 2013.

10Si veda Cottini L., cit., pag. 84-87.

11Esempio riportato da Cottini, cit., pag. 54.

12Si veda, tra gli altri, Oliver M., Understanding Disability, from Theory to Practice, MacMillan, London 1996.

13Cottini, cit., pag. 57-58, riquadro 1 – Linee guida per gli studi sulla disabilità della SDS.

14Id., cit., pag. 69-70.

15Si veda Nussbaum M. C., Sen A. K., The Quality of Life, Clarendon Press, Oxford 1993.

16Si veda Morin E., I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, 2001.

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