di Vincenzo Ferrari

Nota redazionale – Questo articolo è stato pubblicato in Foro italiano, 2017, V, 295. Lo riproduciamo con il consenso dell’autore.

L’espressione “giudice legislatore”, utilizzata in dottrina per stigmatizzare le “interpretazioni creative” della giurisprudenza, sul piano della semantica giuridica palesa profili di intrinseca contraddittorietà fra significante e significato, sicché le due parole che, legate in un’endiadi, dovrebbero sostenere l’unitarietà del concetto espresso, inducono travisamenti di significato che, qualificandosi come ossimoro, ne rivelano il carattere equivoco.

I. – Disquisire sulle parole può sembrare una sorta di divertissement per il giurista, che dovrebbe viceversa riservare la propria attenzione ai fatti, in quanto “il fatto, non la parola, è l’oggetto della scienza giuridica”1. Pur essendo tale autorevole affermazione assolutamente condivisibile, non può essere trascurato che il discorso giuridico, comunque, deve affidarsi alle parole e non può prescindere da profili semantici che, per quanto riscuotano poca considerazione nella giurisprudenza2, a fronte di una maggiore sensibilità manifestata dalla dottrina3, sono essenziali a consentire quella “vestizione verbale del fatto”4 la cui correttezza non è questione puramente terminologica, ma assume valore centrale per la comprensione e la corretta interpretazione delle fattispecie.

II. – Il conio, in dottrina, dell’espressione “giudice legislatore”5 si rivela un’efficace focalizzazione, in unico concetto, di problematiche alquanto complesse e variegate, attinenti al ruolo di fonte del diritto che la giurisprudenza è andata assumendo6.

Sul piano semantico si tratta di una “endiadi” (figura retorica per cui un concetto viene espresso con due termini coordinati al posto di due termini in rapporto di subordinazione7) con la quale si rafforza il concetto, altrove dibattuto e discusso8, secondo cui la creatività della giurisprudenza si risolve nell’acquisizione sostanziale di una veste (quella del legislatore) da parte di altro soggetto (il giudice) al quale non competerebbe in un ordinamento fondato sul principio della separazione dei poteri. Come dire: con buona pace di Montesquieu e del suo Esprit des lois, quel soggetto che dovrebbe limitarsi ad essere bouche de la loi, attraverso un “processo inarrestabile in cui la teoria delle fonti del diritto trova all’un tempo la sua morte e la sua resurrezione”9, si è trasformato in fabricant de la loi.

La singolarità di tale endiadi, per quanto chiara nello stigmatizzare il fenomeno, risiede nel fatto che i due termini che essa coordina in un unico concetto, in realtà, corrispondono a significanti diametralmente divergenti che si pongono entrambi, presi singolarmente, in contrasto di significati.

In un ordinamento fondato sulla separazione dei poteri, nel quale al giudice è assegnata la funzione giurisdizionale in posizione di soggezione solo alla legge (art. 101 Cost.), si palesa contraddittoria l’affermazione secondo cui il giudice possa essere nel contempo creatore della legge e soggiacervi, se non altro per la considerazione che alla soggezione, cui è tenuto per norma costituzionale, può sottrarsi attraverso un proprio atto creativo.

Posta in questi termini l’endiadi sembra non funzionare e trasformarsi in un ossimoro (figura retorica caratterizzata dall’accostamento di due parole che esprimono significati inconciliabili10) che, divergendo dal significato per il quale l’endiadi è stata coniata (un’osservazione degli sviluppi creativi della giurisprudenza), finisce con il prospettare un paradosso (quello del giudice che si erge a legislatore senza poterlo essere).

III. – La geometricità di tale osservazione astratta, tuttavia, deve confrontarsi con il concreto, più caotico, porsi della giurisprudenza, atteso che la creatività giurisprudenziale ha diverse manifestazioni e che nel dibattito corrente si intrecciano sensi differenti di creatività11.

Ad esempio, nella fattispecie esaminata da Cass. 25 gennaio 2017 n. 1946, cit., le sezioni unite, sollecitate da un ricorso nell’interesse della legge del procuratore generale, ai sensi dell’art. 363, comma 1°, c.p.c., hanno sostenuto che, in assenza di un intervento del legislatore, resosi necessario a seguito di una pronuncia di incostituzionalità12, il giudice può reperire nell’ordinamento, utilizzando un canone di interpretazione costituzionalmente orientata, dati normativi idonei a permettere l’esercizio di un diritto soggettivo13.

Le implicazioni problematiche di tale arresto giurisprudenziale, alla luce del dibattito in atto nella civilistica, sono state efficacemente discettate14, fino a distinguere nell’idea di “creatività giurisprudenziale” una creatività in senso pragmatico (e cioè produttiva della norma da parte del giudice in sostituzione del legislatore) da una produttività in senso semantico (quindi frutto del ruolo di interprete proprio del giudice). Se però, come è stato anche affermato, non può ritenersi mai concretamente esistito né il “giudice sillogista”(perfetto esecutore dei precetti del legislatore e, dunque, bouche de la loi) né il “giudice legislatore”15, la distinzione finisce con l’essere più il frutto di una divergenza di opinioni della dottrina che non un diversificato approccio della giurisprudenza.

Si assiste, poi, anche ad un esercizio della creatività giurisprudenziale che, al fine di superare contrasti interpretativi, si affida alla fattispecie astratta enunciata dal legislatore recuperandone il significato meramente letterale per sconfessare filoni interpretativi consolidatisi nel diritto vivente. Un recente esempio è offerto da Cass. 7 dicembre 2016 n. 2520116, con cui la sezione lavoro, senza avvertire la necessità di rimettere la questione alle sezioni unite17, ha superato la nozione di giustificato motivo oggettivo invalsa nel diritto giurisprudenziale, facendo prevalere l’idea, ricavabile dal semplice enunciato letterale dell’art. 3 l. 15 luglio 1966 n. 604, che esso non sia configurabile solo nella necessità “economica” di sopprimere il posto di lavoro, ma possa consistere anche in una ragione “organizzativa” finalizzata a rendere più produttiva e redditizia l’attività di impresa. In tal caso il giudice si è riferito alla fattispecie astratta confezionata ab origine dal legislatore, per dare continuità ad un indirizzo minoritario del diritto vivente e disattendere orientamenti costruiti dalla giurisprudenza sulla base del canone dell’interpretazione costituzionalmente orientata.

Ulteriormente, si rinvengono pronunce della Suprema Corte che, per lo più facendo riferimento al canone del giusto processo ex art. 111 Cost., hanno modificato enunciati legislativi il cui senso letterale è rimasto immutato. Se ne ritrova esempio nel caso del principio giurisprudenziale innovativo secondo cui il difetto di giurisdizione del giudice ordinario (che, a mente del tutt’ora vigente art. 37 c.p.c., può essere rilevato, anche d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del processo) non può più essere rilevato d’ufficio quando la parte vittoriosa in sede di merito, in seguito ad impugnazione della parte soccombente, non abbia proposto impugnazione incidentale condizionata sull’implicita affermazione della propria giurisdizione da parte del giudice che nel merito gli abbia dato ragione18. In tal caso il giudice, a norma processuale invariata, ha introdotto sostanzialmente una nuova norma dal significato incompatibile con il tenore letterale dell’enunciato legislativo.

La concretezza dell’osservazione giurisprudenziale conduce a dire che la creatività del giudice può anche spingersi a produrre una norma giuridica priva di enunciato legislativo, nel qual caso l’espressione “giudice legislatore” assume il carattere dell’endiadi, ma per lo più la creatività assume i caratteri dell’interpretazione più o meno virtuosa, più meno azzardata, lasciando a tale espressione il senso dell’ossimoro.

IV. – Nel caos della creatività giurisprudenziale, la questione che prepotentemente si pone attiene all’efficacia di precedente (sia pure solo persuasivo) della decisione “creativa” del giudice rispetto alle decisioni da prendere in futuro su fattispecie sovrapponibili o analoghe. La risposta dovrebbe essere offerta dalla funzione di nomofilachia delle giurisdizioni superiori che, espressione della migliore ars interpretandi, dovrebbe tendenzialmente garantire l’esistenza di un unico ed univoco ”diritto vivente”, scopo per il quale sono state recentemente proposte anche delle soluzioni convincenti 19, ma che nell’attuale contesto incontreranno non poche difficoltà ad affermarsi.

Ben inteso, non è aprioristicamente da escludere che il diritto vivente possa consolidarsi al fine di soddisfare una fondamentale esigenza sociale del “fare giustizia” che imprima al sistema di tutela dei diritti una prospettiva, se non di certezza20, quanto meno di prevedibilità delle pronunce giurisprudenziali21. Ma se ciò è realizzabile, può esserlo solo attraverso un recupero sostanziale della funzione del giudice, ben distinta e separata da quella del legislatore, essendo tale separatezza la precondizione affinché possa ergersi ben al di là del livello legislativo, rendendosi autore di quella che Aristotele definiva Epieikeia, vale a dire “rettificazione” o “correzione” della legge, poiché “ogni legge comporta una certa tensione interna rispetto alle concrete possibilità di azione: una legge è sempre generale e non può implicare tutta la concreta complessità di un caso particolare”22.

Chiunque abbia frequentato con sufficiente e prolungata assiduità le corti e i tribunali sa bene che è difficile fare il giudice; fare il “giudice legislatore” è impossibile.

_

Note

1 In tal senso, cfr. P. PERLINGIERI, Produzione scientifica e realtà pratica: una frattura da evitare, in Riv. dir. commerciale, 1969, I, p.455 ss., ora anche in ID., Tendenze e metodi della civilistica italiana, Napoli ESI 2008, p. 13.

2 Per una disamina a tutto tondo, cfr. G. GRASSO, G. BARBAGALLO, V. FERRARI, E. SCODITTI, S.L. GENTILE, Il linguaggio della giurisprudenza, in Foro it., 2016, V, 357.

3 Per tutti, v. A. GENTILI, Il diritto come discorso, Milano, 2013.

4 Sul punto sia consentito il rinvio a V. FERRARI, Fatti e parole nella giurisprudenza, in Foro it., 2016, V, 365.

5 cfr. N. LIPARI, Giudice legislatore (nota a Cass. 25 gennaio 2017 n. 1946), id., 2017, I, 477, che, nel titolare la nota, riprende al singolare ed affermativamente il titolo interrogativo di un saggio di M. CAPPELLETTI, Giudici legislatori? in Quadrimestre, 1984, 379.

6 Un ampio compendio di riflessioni in materia è recentemente offerto dallo stesso N. LIPARI, Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano, 2017.

7 Definizione tratta dall’Enciclopedia Treccani.

8 Da ultimo, cfr. R. PARDOLESI e G. PINO, Post-diritto e giudice legislatore. Sulla creatività della giurisprudenza, in Foro it., 2017, V, 113.

9 l’espressione è di N. LIPARI, nella richiamata nota a Cass. 1946/2017, ibid., V, 477.

10 Definizione tratta sempre dall’Enciclopedia Treccani.

11 Cfr. R. PARDOLESI e G. PINO, Post-diritto e giudice legislatore. Sulla creatività della giurisprudenza, cit.

12 Cfr. Corte cost. 23 novembre 2013 n. 278, Foro it., 2014, I, 4, con nota di G. CASABURI.

13 Nel caso di specie, si è trattato del diritto del figlio adottato a che sia interpellata la madre che aveva a suo tempo optato per il parto anonimo, sorto a seguito della pronuncia di incostituzionalità di cui a Corte cost. 278/2013, cit., su cui il legislatore ordinario non era tornato a colmare la lacuna normativa determinata da quella pronuncia.

14 Cfr. ancora R. PARDOLESI e G. PINO, Post-diritto e giudice legislatore. Sulla creatività della giurisprudenza, cit.

15 Cfr. G. CANZIO, Nomofilachia, dialogo tra le corti e diritti fondamentali, in Foro it., 2017, V, 69.

16 Foro it., 2017, I, 134, con nota di G. SANTORO PASSARELLI, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo “organizzativo”: la fattispecie.

17 Sul punto, cfr. la nota alla stessa sentenza di M. FERRARI, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e nomofilachia, ibid., 590.

18 Sulla questione, da ultimo e per ulteriori riferimenti, cfr. Cass. 20 ottobre 2016 n. 21260, ibid., 977, con note di G.G. POLI, A. TRAVI e F. AULETTA.

19 Per un esame approfondito del tema, cfr. R. RORDORF, Pluralità delle giurisdizioni ed unitarietà del diritto vivente: una proposta, in Foro it., 2017, V, 123.

20 G. CANZIO, Nomofilachia, dialogo tra le corti e diritti fondamentali, cit., rappresenta come si avverta una sensazione comune di sconcerto, che nasce soprattutto dal cedimento di una categoria più generale, la «certezza del diritto», pure intesa in senso dinamico e tuttavia principio forte di civiltà giuridica.

21 Sul tema, cfr. N. IRTI, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016, passim.

22 Sono parole di H.G. GADAMER, Il problema della coscienza storica, Napoli, 1969, p. 55,

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *