di Flavio V. Ponte

Sommario

1. Premessa: il lavoro tra personalismo e solidarietà

2. Il diritto al lavoro

3. Il mercato del lavoro e l’affermazione del diritto: la regolazione di forze diverse nell’ottica dell’affermazione dei principi costituzionali

4. Il dovere di lavorare, tra adempimento e libertà

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  1. Premessa: il lavoro tra personalismo e solidarietà.

L’art. 4 della Costituzione appare sempre più al centro di quel dibattito – mai sopito in verità – che anima il confronto intorno al diritto e al dovere di lavorare. Altrove si è già ricordato1 il fondamentale ruolo svolto dall’Assemblea Costituente che – ma la cosa è nota – ha ospitato – sintetizzandole – quelle opinioni che hanno poi nutrito il confronto fino a condurre all’affrancamento del lavoro dalla fatica, intrisa di retaggi per lo più coltivati dalla cultura cattolica, a beneficio dell’emersione di una vera e propria questione sociale: il lavoro-diritto è stato coniugato con il lavoro-libertà ed entrambi sono stati connessi al principio solidaristico coltivato con l’art. 2 della Costituzione2.

Costantino Mortati osservava, nel 1954, che “Nel lavoro si realizza, pertanto, la sintesi fra il principio personalistico (che implica la pretesa all’esercizio di un’attività lavorativa) e quello solidarista (che conferisce a tale attività carattere doveroso3.

Sintesi che oggi deve essere riletta mantenendo sullo sfondo le coordinate del sistema economico: trattare del diritto/dovere al lavoro significa, in sostanza, coniugare le iniziative politiche in materia di occupazione con quelle scelte fondamentali che ogni sistema assume nel campo dell’economia e dello sviluppo4.

Ciò non esclude, nondimeno, che alla norma appartenga un significato simbolico: il diritto al lavoro esalta la libertà degli individui nella scelta dell’attività da svolgere nel corso della propria esistenza. L’esercizio di tale libertà soddisfa, peraltro, il dovere pure evocato dalla norma e, quindi, il bisogno della Società di potere fare affidamento sul contributo dei singoli.

La libertà è poi strettamente ancorata al diritto avente natura sociale.

Non a caso l’art. 4 segue l’art. 3 che sancisce i principi di eguaglianza formale e sostanziale: è lo Stato a doversi fare carico della tutela della libertà dei singoli e del loro diritto al lavoro, intervenendo fattivamente al fine di rendere effettivo il diritto stesso5. In questo senso, dunque, la Carta fondamentale si rivolge direttamente allo Stato, compulsando anche l’adozione di politiche utili alla creazione dei presupposti nei quali possa trovare sfogo l’esercizio del diritto.

Appare allora limitata (e limitante) l’impostazione coltivata da chi – all’indomani della promulgazione della Costituzione – suggeriva un’efficacia esclusivamente programmatica dell’art. 4, considerata la centralità della norma nel disegno costituzionale e la sussistenza di un vero e proprio obbligo a carico dello Stato, parte attiva del processo di realizzazione del diritto al lavoro6.

Di contro, però, si deve condividere l’opinione di chi ha rifiutato l’applicazione delle categorie ermeneutiche riservate alla legislazione ordinaria e, quindi, ha respinto l’idea che si potesse accostare il diritto al lavoro a un qualsiasi diritto soggettivo7: è evidente che la Costituzione esalta principi e diritti facendo leva su meccanismi di bilanciamento e contemperamento di interessi non replicabili sul piano, per così dire, più “basso”, dove opera la legislazione ordinaria.

La sintesi può rinvenirsi, allora, nella felice espressione coniata negli anni ’50 da Crisafulli, che parlava di “…una situazione soggettiva di obbligo per lo Stato, e quindi per gli organi di esso8.

Quanto poi alle diverse accezioni del termine utilizzato nell’art. 4, le speculazioni dottrinali sono note: non si tratta di un concetto univoco e non sembra potersi attribuire all’art. 4 la “volontà” di privilegiare il lavoro subordinato a discapito di quello autonomo9; si tratta, piuttosto, di qualsiasi attività socialmente utile, non riconducibile strettamente a uno specifico censo ovvero a privilegi frutto di retaggi del passato10.

Si tratta di una vera e propria funzionalizzazione del lavoro che, si diceva, è strumento utile non solo all’individuo ma anche alla Società e, quindi, trascende la mera sussistenza per accreditarsi quale strumento di affermazione della personalità degli individui, nell’ottica più generale del progresso sociale.

  1. Il diritto al lavoro.

Se il diritto al lavoro ha indubbiamente una dimensione sociale, non possono peraltro negarsi la sua natura pubblicistica e i riflessi che prendono corpo dall’obbligo posto in capo allo Stato.

In altri termini, la socialità del diritto di cui all’art. 4, comma 1, Cost. assume particolare connotazione alla stregua della sua effettività, o meglio, alla stregua del condizionamento derivante dall’attività (o dall’inattività) dello Stato e, quindi, dalla esistenza (ovvero dall’inesistenza) di un’azione regolatrice delle forze che sono in grado di influenzare l’effettività del diritto in questione.

Si tratta di effettività che risente profondamente del crisma personalistico che ammanta il diritto: non vi è chi non colga la centralità della persona nel sistema fondato sul lavoro, strumentale all’affermazione dell’individuo e alla partecipazione alla vita sociale (cfr. artt. 1 e 2 Cost.).

Si deve, quindi, condividere la lettura che la Consulta ha offerto alla norma collegando l’art. 4 all’art. 1 Cost., mercé l’esaltazione della dimensione sociale del diritto al lavoro11.

Il contenuto negativo della norma è pure immediatamente percepibile: lo Stato deve astenersi dall’intervenire nei confronti di chi sceglie di svolgere un’attività lavorativa (in questo senso va anche letto l’inciso secondo le proprie possibilità e la propria scelta che ricorda sia l’aspetto personalistico sia il dovere di non-interferenza da parte dello Stato).

L’astensione dello Stato si coniuga, poi, con la già citata insussistenza di un vero e proprio diritto soggettivo al lavoro, inteso quale diritto immediatamente giustiziabile. L’art. 4, infatti, deve pure essere letto in combinato disposto con l’art. 41 Cost.: qualsiasi forzatura a beneficio del diritto alla collocazione contrasterebbe, evidentemente, con l’autonomia di rango costituzionale che governa l’iniziativa economica12.

Il dovere imposto alla Repubblica di cui si legge nel comma 1 dell’art. 4, dunque, assume un duplice significato: è utile a chiarire la portata della norma e a superare ogni interpretazione meramente programmatica a beneficio della citata dimensione sociale; è utile a chiarire l’insussistenza di un diritto all’assunzione generalizzato e, per altro verso, l’insussistenza di una sanzione (giuridicamente intesa) in capo allo Stato a fronte del mancato raggiungimento della c.d. piena occupazione.

Per altro verso, si deve pure ribadire che l’impegno statale nel processo che conduce all’effettività del diritto in questione assume un ruolo fondamentale e costituisce una vera e propria pietra angolare intorno alla quale si regge il sistema: lo Stato deve predisporre iniziative utili all’incremento delle possibilità d’impiego; deve compulsare l’aumento della domanda di forza lavoro; deve veicolare l’offerta di forza lavoro intervenendo nel mercato onde correggere distorsioni e ridurre al minimo gli effetti del mismatch tra domanda ed offerta; deve curare la formazione degli individui ed indirizzarla in modo che possa provocare occupazione.

Si tratta di attività che lo Stato ha tradizionalmente inquadrato nell’ambito delle funzioni non delegabili o cedibili, imponendo per lungo tempo il monopolio pubblico al collocamento, salvo poi rendersi conto13 che il mezzo non consentiva il raggiungimento del fine e che proprio la marcata socialità del diritto al lavoro imponeva un ripensamento delle misure volte a bilanciare – mercé l’intervento statale – il rapporto tra le forze operanti sul mercato e le norme a tutela di diritti inderogabili.

In questo senso vanno lette le critiche formulate da chi ha ritenuto inappropriata la gestione pubblicistica delle forze governanti il mercato del lavoro14: in altri termini, la presenza dello Stato nel mercato produrrebbe un effetto contrario a quello auspicato, ossia, impedirebbe agli individui di rendere effettivo il diritto al lavoro. Nello stesso senso, per contro, bisogna considerare che il ruolo attivo dello Stato è pure necessario nella misura in cui l’intervento sia utile ad ammortizzare – sul piano patologico – gli effetti della espulsione degli individui dal mercato o, ancora, nella misura in cui sia utile a sostenere la domanda di forza lavoro nei confronti di soggetti che sono sprovvisti di particolare appeal.

Il bilanciamento tra diversi interessi e la necessità di mantenere fermo il fine al quale la norma è pure chiaramente asservita rendono attuale la lezione di Mengoni sul tema: “il diritto al lavoro non è soltanto un principio fondamentale che impone ai pubblici poteri una politica economica di promozione della massima occupazione, ma obbliga lo Stato a istituire servizi pubblici di formazione e di orientamento professionale, nonché di avviamento al lavoro, cioè di mediazione della domanda e dell’offerta di lavoro. Questi servizi, erogatori di prestazioni pubbliche di carattere non (direttamente) economico, concorrono pure ad integrare i presupposti fattuali di possibilità di esercizio del diritto di scelta della professione, sancito dall’art. 4, primo comma, che di per sé presenta una struttura uguale a quella dei diritti di libertà15.

  1. Il mercato del lavoro e l’affermazione del diritto: la regolazione di forze diverse nell’ottica dell’affermazione dei principi costituzionali.

Se dunque il diritto al lavoro si colloca, di fatto, a metà del guado, costretto tra funzione sociale e governo delle dinamiche che caratterizzano l’economia e la produzione, non si può prescindere da una sia pure fugace riflessione intorno al concetto di mercato, luogo (ovvero, non-luogo) che ospita le forze che lo Stato dovrebbe regolare (ovvero, lasciare al loro destino).

Sul punto sia concesso il recupero di riflessioni già spese altrove16:

Il c.d. neoliberalismo interpreta il concetto di mercato quale forma politica: si tratta di un modello (ovvero, di una morfologia di governo) al quale corrisponde l’economia, così come al modello di sovranità corrisponde il diritto pubblico e a quello della disciplina corrispondono le scienze sociali17. Il neoliberalismo incoraggia un approccio alle relazioni correnti tra soggetti (persone/stati) assolutamente razionale: si tratta di una razionalità economica generalizzata che fa del mercato un sistema di veridizione18.

Il mercato, quindi, non è uno spazio vero e proprio essendo, piuttosto, un meccanismo di adeguamento, ossia, un meccanismo che governa l’intermediazione tra gli uomini attraverso il desiderio di oggetti.

Mentre nel tradizionale modello della sovranità le relazioni tra sovrano e sudditi erano regolate dal diritto pubblico (promanazione della volontà del sovrano), il neoliberalismo costruisce un modello di governabilità nel quale i diritti fondano la loro indipendenza rispetto al potere facendo riferimento all’economia, ossia, al concetto estremamente razionale di utilità19.

In quest’ottica l’individuo in quanto tale non è più l’unità di base; egli agisce quale imprenditore, ovvero, quale soggetto capace di fare valere i propri interessi economici: “…Il neoliberalismo propone un’autentica razionalità politica, ossia un modo di articolare la convivenza umana con la libertà, ma escludendo qualsiasi finalità per detta convivenza. Esso propone di sostituire alla deliberazione collettiva e alla discussione su ciò che è legittimo o illegittimo un’organizzazione della società concreta e più modesta, ma efficace ed efficiente, basata sulla libertà individuale. Si tratta, in questo senso, di una filosofia politica di uscita dalla politica20.

Il mercato (quale meccanismo di adeguamento), quindi, appare profondamente segnato dall’assenza di una visione d’insieme: “…i mezzi sono separati dal fine, l’efficacia è svincolata dal finalismo, la modernità è desolidarizzata rispetto alla democrazia, il diritto è considerato a prescindere dalla giustizia, l’individuo è svincolato da un territorio e, infine, la circolazione delle merci è regolamentata indipendentemente dallo status delle persone21.

In tale ottica il mercato non rappresenta un ordine, per così dire, finalizzato ad alcunché: esso è un ordine che è fine a se stesso.

Il mercato deve soltanto essere: i soggetti/imprenditori si muovono nel mercato che garantisce loro, appunto, libertà e sicurezza.

La regola animante il mercato, dunque, è la concorrenza tra i soggetti/imprenditori che lo popolano.

Il diritto, pertanto, ha il solo scopo di regolare il gioco22: il soggetto/imprenditore ha bisogno solo di regole (fornite dallo stato) che gli consentano di agire quale essere razionale e, pertanto, di massimizzare le sue funzioni di utilità.

Ne deriva, evidentemente, un profondo individualismo: ognuno persegue obiettivi propri, seguendo regole imposte al gioco. Si tratta di regole che non perseguono finalità politiche e che non influenzano l’ordine spontaneo del mercato23; le regole non hanno un autore equiparabile al Sovrano e, anzi, sono anonime: l’ordine del mercato risulta da una moltitudine di singole azioni, coordinate dalle regole imposte al gioco.

Sicché, in questo contesto l’unica cosa che i partecipanti al mercato chiedono allo Stato è la sicurezza del rispetto delle regole che lo governano: com’è stato efficacemente sostenuto, “…la certezza del diritto assicurata dall’ordinamento giuridico deve compensare l’incertezza inerente alla situazione in cui si trova il singolo in un ordinamento spontaneo qual è il mercato24.

Ne consegue che gli stessi soggetti/imprenditori non devono essere educati mediante la sanzione dei comportamenti, essendo sufficiente il condizionamento dell’ambiente, ossia, degli elementi che caratterizzano il mercato.

In sintesi, quindi, il mercato vivrebbe spontaneamente e il diritto fornirebbe solo le regole che governano il gioco al quale partecipano i soggetti/imprenditori.

Ciò che assicura l’equilibrio è l’interesse comune, che non è però un interesse superindividuale/collettivo, ma è la somma degli interessi dei singoli, perseguito adottando comportamenti assolutamente razionali e scevri da qualsivoglia elemento emotivo e/o passionale. In questo contesto le differenze tra gli individui sono esaltate e non obliterate: l’assetto concorrenziale del mercato non tollera alcun appiattimento e postula, anzi, la diseguaglianza tra gli individui mossi, come si è detto, dal solo interesse individuale.

Il mercato, pertanto, è sia realtà economica sia forma di organizzazione umana: esso non ha bisogno della politica e della giustizia ma solo di regole che i soggetti/imprenditori seguono per il proprio interesse25.

Stante tale premessa, evidentemente condizionata dalla invadente ideologicizzazione del tema, v’è da osservare lo scenario prediligendo un punto di vista più concreto, che poi è quello di chi studia l’essere piuttosto che il dover essere.

Sul piano economico il mercato del lavoro ospita – si tratta ovviamente di visione semplicistica, ma efficace – le relazioni correnti tra domanda e l’offerta di forza lavoro: l’oggetto della contrattazione è, quindi, ciò che è offerto dai prestatori di lavoro e domandato dai datori di lavoro26.

Gli economisti spiegano le relazioni tra domanda e offerta – ovviamente in un sistema ideale, ossia, popolato solo da alcune variabili il cui atteggiarsi è controllato da chi elabora l’analisi27 – affidandosi al concetto di equilibrio nel mercato del lavoro: dati per scontati i concetti di forza lavoro (somma delle persone occupate e disoccupate), di tasso di occupazione (occupati con età ≥ 15 anni) e di tasso di disoccupazione (disoccupati/in cerca di lavoro ≤ 15 anni), l’equilibrio nel mercato si verifica allorquando si determini l’incontro tra domanda e offerta al livello – appunto – del salario di equilibrio.

Pertanto, un salario al di sopra del livello di equilibrio indica un surplus di lavoratori in concorso per pochi posti disponibili (in questo caso la concorrenza spinge il salario verso il basso); un salario al di sotto del livello di equilibrio indica una sovrabbondanza di domanda di forza lavoro (quindi, la concorrenza tra datori di lavoro spinge il salario verso l’alto).

Ciò brevemente (e, per ovvie ragioni, superficialmente) riferito, bisogna porre in relazione il formalismo prettamente economico con talune situazioni che gli stessi economisti hanno verificato in alcuni studi recenti.

Il mercato del lavoro italiano nell’ultimo decennio è stato caratterizzato da ciò che taluni hanno definito un miracolo economico: nel periodo 1996/2007 è stato registrato un incremento significativo dell’occupazione, nel periodo precedente alle riforme del mercato del lavoro del 1997 (la c.d. legge Treu n. 196/1997) e comunque prima dell’inizio della crisi economico-finanziaria con la quale ancora oggi facciamo i conti (il cui inizio si fa risalire al 2008)28; si tratta – precisamente – di una variazione del 11,12 % con riferimento alla occupazione totale (unità standard lavoro-posti) e di una variazione –41,67 % con riferimento al tasso di disoccupazione. Si badi bene: gli esperti ci riferiscono di un aumento dell’occupazione reso possibile da un rallentamento della crescita della produttività, accompagnata peraltro dalla stagnazione nella crescita dei salari reali29. Si tratta di situazione abbastanza anomala: all’incremento della occupazione dovrebbe seguire comunque una pressione salariale (cfr. quanto accennato poc’anzi, con riferimento al mercato del lavoro concorrenziale).

Una prima ipotesi avanzata per spiegare tale effetto è stata confezionata dagli esperti facendo riferimento alla relazione corrente tra le riforme per così dire flessibilizzanti30 e la crescita occupazionale31. Si tratta, però, di spiegazione insufficiente: il solo intervento normativo non è idoneo a determinare la creazione di nuovi posti di lavoro, tant’è che i dati raccolti dimostrano che il coinvolgimento di lavoratori in forme contrattuali più flessibili (ossia, in forme individuate ad hoc dal Legislatore) è stato al di sotto del 10%, mentre l’occupazione dipendente è cresciuta di circa il 20%.

Per cogliere appieno il fenomeno, allora, è stata prestata attenzione alla dinamica salari/produttività: “La crescita occupazionale appare piuttosto come il risultato di un rallentamento della crescita della produttività che si osserva a partire dall’anno 2000, combinato con il rallentamento salariale che segue l’accordo del luglio 1993. Come conseguenza il costo del lavoro si è ridotto in termini reali, e a partire dal 1998, anche in termini nominali, grazie alla parziale fiscalizzazione degli oneri sociali […]. Una produttività che langue, associata a un salario reale che diminuisce, produce una riduzione tendenziale del costo del lavoro per unità di prodotto e spiega perché diventa conveniente per le imprese assumere lavoratori32.

A ben vedere, quel 10% riferito alla nascita di rapporti flessibili ha visto coinvolti per lo più soggetti già ai margini del mercato: donne e giovani hanno avuto la chance di essere occupati tramite un c.d. bad job.

Sicché la flessibilità non ha inciso in modo determinante sul livello di occupazione, aumentando solo il dualismo già presente nel mercato, ai suoi margini. Nel mercato del lavoro nostrano l’effetto delle riforme flessibilizzanti sembra individuabile nell’accrescimento dell’elasticità dell’offerta aggregata di lavoro, stanti le nuove opportunità lavorative: considerata, tuttavia, la natura dei posti creati e vista la scarsa produttività cui si faceva riferimento, una conclusione probabilmente condivisibile è quella che giudica tali riforme come una delle cause dell’arresto dei consumi. La c.d. creazione di posti di lavoro senza crescita (growthless job creation)33 è accostabile al blocco della trasformazione dell’accresciuto reddito in maggior consumo.

Tirando le fila del ragionamento, si può quindi affermare che la norma ha un impatto diretto sulle dinamiche che interessano il mercato ma che non sembra esserci una relazione positiva tra flessibilità e occupazione considerate le dinamiche salari/produttività e, quindi, non appare sostenibile una funzione per così dire “taumaturgica” della flessibilità, almeno come intesa nelle riforme del periodo 1996-2007, stando a quanto ci dicono gli economisti.

Si tratta ora di coniugare l’impostazione neoliberista e, quindi, la sostenuta capacità del mercato di vivere spontaneamente (il diritto fornirebbe solo le regole che governano il gioco al quale partecipano i soggetti/imprenditori) con i dati testé forniti.

Le linee di pensiero sono – per quel che qui rileva – sostanzialmente due: c’è chi sostiene, aderendo all’impostazione prediletta dai sostenitori dell’analisi economica del diritto (law and economics), che alla norma giuridica possa riconoscersi la natura di strumento utile al risparmio dei costi di transazione e, quindi, intravede nello studio economico degli effetti della norma il naturale piano di sviluppo delle moderne speculazioni teoriche34; c’è chi ritiene, aderendo alla impostazione più tradizionalista, che il lavoro non sia una merce e che, pertanto, l’applicazione dei concetti strettamente economici alla speculazione giuridica sia intollerabile35.

Quanto alla prima posizione:

Recentemente i sostenitori dell’approccio, per così dire, efficientista, hanno ripreso l’indagine OCSE concernente la relazione tra fluidità in ingresso e in uscita36 per argomentare intorno alla necessità di sostenere progetti di riforma in grado di impattare in modo decisivo sulle dinamiche caratterizzanti il mercato del lavoro nostrano37.

Il punto di partenza è la vischiosità del mercato del lavoro italiano: i flussi caratterizzanti i passaggi dallo stato di occupazione a quello di disoccupazione (e viceversa) sono ridotti; il mercato, quindi, è scarsamente inclusivo. L’Italia è tradizionalmente descritta come paese con bassissima percentuale di scambio; gli Stati Uniti, di contro, sono tradizionalmente indicati quale esempio di altissima percentuale di scambio.

Osservando le criticità che affliggono il mercato nostrano, gli studiosi che privilegiano un approccio law and economics rilevano – molto opportunamente – la indifferenza mostrata in molti casi dal Legislatore, colpevole di non valutare adeguatamente i dati reali: il mercato è segnato da un profondo dualismo (come denunciato in più occasioni da istituzioni europee: cfr. supra) che – ricalcando il meccanismo che vede in perenne conflitto insiders e outsiders – protegge all’inverosimile taluni (in particolare, i lavoratori subordinati assunti a tempo pieno e indeterminato da aziende con più di 15 dipendenti e i lavoratori dipendenti delle PP.AA.), penalizzando fortemente altri (in minima parte, i lavoratori dipendenti di piccole aziende; massimamente i lavoratori cc.dd. precari, i “finti” parasubordinati, ecc.).

In buona sostanza, nessuno (o pochi) si preoccupa(no) dell’altra metà del cielo (che, a ben vedere, è ben più della metà, considerando che i lavoratori iperprotetti non sono la maggior parte della forza lavoro38).

La denunciata indifferenza dovrebbe condurre – ed è questo il fulcro del discorso – ad un approccio radicalmente diverso, ossia, al confezionamento di un pacchetto normativo in grado di alleviare (recte: eliminare) il peso che comprime la facoltà imprenditoriale di aggiustamento degli organici.

La decisività dell’argomento sarebbe dimostrata dall’indiscutibile fondatezza dell’argomento, per così dire, speculare (l’unico, ad oggi, verificabile empiricamente): stante la compressione della facoltà imprenditoriale di aggiustamento degli organici, infatti, sarebbe innegabile il massiccio ricorso a forme contrattuali diverse dal contratto a tempo indeterminato (ossia, a rapporti flessibili o cc.dd. bad jobs)39.

Sicché, in tale ottica, la flessibilità in uscita rappresenta l’elemento fondamentale con il quale confrontarsi: il merito del Governo è, quindi, quello di avere centrato il punto nodale e di essersi occupato del c.d. imbuto, ossia del problema che strozza il mercato del lavoro, causando vischiosità e limitandone l’inclusività.

I sostenitori di tale approccio ci tengono a sgombrare il campo d’indagine da ogni equivoco: non si tratta di mercificare il lavoro o di bypassare i principi costituzionali in materia ma, al contrario, di prendere atto del fatto che ogni valutazione sui diritti dei lavoratori (e dei datori di lavoro) e, quindi, ogni confronto tra norme fondamentali a presidio di tali diritti e leggi ordinarie non può prescindere dalla valutazione dell’aspetto pratico: la conformità delle norme ordinarie con quelle di rango superiore non può essere apprezzata (o meno) solo facendo riferimento al dato meramente testuale.

Così, il miglioramento delle performances del mercato, l’ablazione del dualismo e la crescita dell’occupazione sono obiettivi il cui raggiungimento vale il mezzo prescelto, anche ove esso induca – sia pure soltanto a livello epidermico – il sospetto di un arretramento rispetto agli standards fino ad oggi individuati.

Il termine di relazione è il modello Tedesco: i sostenitori dell’approccio efficientista nutrono ampia fiducia nel meccanismo che viene utilizzato da anni oltralpe, ossia, nella possibilità che sia il Giudice a decidere quando reintegrare e/o risarcire (ferma la disciplina rappresentante lo “zoccolo duro” della tutela, ossia, impregiudicato il diritto del/la lavoratore/trice discriminato/ta di essere reintegrato/a nel posto di lavoro).

La logica è quella di conservare il massimo livello di tutela (la reintegrazione) nei casi in cui sia in gioco la dignità, la onorabilità o la libertà morale del lavoratore; la sanzione di tipo indennitario, invece, è reputata più che sufficiente nei casi di licenziamento (illegittimo) per motivi economici ovvero nei casi in cui sussiste pur sempre una “colpa” del lavoratore (licenziamento disciplinare), sebbene inidonea a giustificare un licenziamento40.

Facendo affidamento sui concetti che animano la teoria generale, si tratta della nota contrapposizione tra property rule e liability rule: la prima, governante l’effetto reintegratorio, da garantirsi allorquando venga in gioco un diritto assoluto; la seconda, applicabile ai casi in cui è sufficiente la responsabilizzazione del debitore commisurata all’entità dell’interesse economico e professionale del lavoratore41.

Il forte argomento utilizzato a sostegno di tale nuovo approccio e applicato alla materia quale vero e proprio grimaldello utile a scardinare i baluardi delle resistenze fondate sui principi di rango costituzionale (diritto al lavoro, parità di trattamento, ecc.) prende corpo nella seguente osservazione: il passaggio dalla property rule alla liability rule non produce alcun indiscriminato effetto dumping42 perché esiste già attualmente una distinzione tra lavoratori in tutto e per tutto “uguali”: è il caso della tutela obbligatoria prevista dalla l. n. 604/1966 che, com’è noto, non distingue la tutela in base alla patologia affliggente il licenziamento bensì in base ai requisiti dimensionali dell’impresa43.

Sicché, in sintesi, un approccio efficiente ai problemi del mercato del lavoro induce a ri-considerare l’intangibilità delle fondamenta che reggono il castello delle tutele.

Per altro verso, è a dir poco evidente che tale approccio fa saldamente affidamento (e, a ben vedere, l’assunto non è mai messo in discussione da chi sostiene l’approccio law and economics in argomento) sul rapporto corrente tra il diritto (e, in specie, tra le norme lavoristiche dedicate ai licenziamenti individuali e collettivi) e la denunciata vischiosità del mercato: l’impatto della norma sul tasso di occupazione/disoccupazione è dato per scontato44 e, quindi, è scontato l’effetto che produrrebbero norme confezionate nel senso sopra riferito, ossia, norme ablative del peso che comprime la capacità del datore di lavoro di intervenire sugli organici.

Se non ci si inganna, in tale ottica il massiccio ricorso ai rapporti flessibili sarebbe da imputare proprio alla difficoltà di licenziare (ovvero, all’elevata probabilità della reintegrazione in azienda): ergo, la flessibilità in entrata sarebbe un falso problema, considerata la decisività della disciplina dedicata alla flessibilità in uscita.

Ove si modificasse la seconda, non sarebbe necessario rimettere mano alla prima o, forse, potrebbe essere utile modificare la prima ma in senso “restrittivo”, limitando la stipulazione di contratti flessibili e indirizzando la domanda di forza lavoro verso la stabilità (solo fisiologica e quasi mai patologica) dei rapporti.

Il c.d. “pensiero unico” denunciato da taluni45 consisterebbe, pertanto, nel confidare pervicacemente in una ragione economica superiore e nel ritenere che l’efficientismo necessario all’implementazione delle performances del mercato del lavoro affondi le radici nel bisogno di libertà che sarebbe avvertito dai datori di lavoro: si assume di più perché si può licenziare di più (e più facilmente); la norma è al centro del discorso nella “cattiva sorte” (è la rigidità normativa che ingessa le dinamiche animanti il mercato del lavoro) e in quella “buona” (è la flessibilità normativa che libera i soggetti che operano nel mercato).

Quanto alla seconda posizione:

L’altro approccio al tema è sostanzialmente ancorato a due elementi: una ri-lettura dei dati (e della letteratura economica) utilizzati dai sostenitori dell’approccio law and economics; un ridimensionamento del dato positivo, ossia, della norma e dei principi fondamentali che sorreggono l’ordinamento e assicurano la tenuta del sistema giuridico.

E’ opinione comune che le rigidità delle regole in materia di licenziamento siano in qualche modo collegabili al tasso di disoccupazione: i dati forniti supra dimostrano una particolare attenzione da parte delle istituzioni europee al fenomeno della rigidità46; la opportunità di iniziare seriamente a percorrere la strada della flexicurity47 non è messa in discussione da chiunque si avvicini all’argomento consapevolmente48.

Nondimeno, chi contesta l’approccio sopra evocato rilegge i dati prediligendo un’altra visuale.

Secondo alcuni studiosi e alcune affidabili organizzazioni internazionali, le norme in materia non avrebbero effetti decisivi sul livello generale di disoccupazione e possono incidere solo su aspetti congiunturali49.

Peraltro, proprio l’outlook OCSE del 2004 (che limita il collegamento tra norma e occupazione al dinamismo del mercato del lavoro), afferma che “…complessivamente le analisi teoriche non forniscono una risposta ben delineata sugli effetti della legislazione in materia di licenziamento sui livelli complessivi di occupazione e disoccupazione50.

Sicché, a ben vedere, se è sostenibile – dati alla mano – una correlazione tra rigidità della disciplina lavoristica e livello di occupazione, è quanto meno sostenibile il contrario facendo affidamento sugli stessi dati, ossia che non vi sono prove di tale relazione e che, quindi, riducendo la protezione contro il licenziamento illegittimo non si determina una crescita della occupazione51.

Anzi, l’evidenza empirica dell’inconsistenza del corollario sviluppato dall’approccio law and economics risiede proprio nell’analisi del dualismo che caratterizza il mercato del lavoro in Italia e, in particolare, nella lettura dei dati che riguardano i rapporti ai quali si applica la c.d. tutela reale (aziende con più di 15 dipendenti) e quelli ai quali si applica la c.d. tutela obbligatoria (aziende con meno di 15 dipendenti): stando ai dati disponibili per il 200952, nel primo caso gli addetti sono 7.790.429, nel secondo caso gli addetti sono 4.108.08653; nel caso della tutela obbligatoria non si è registrato un fenomeno di creazione/distruzione di rapporti di lavoro significativamente diverso da quello caratterizzante la tutela reale. In altri termini, ove la facilità di licenziamento (recte: la minore invasività delle conseguenze previste dalla norma in caso di licenziamento illegittimo) fosse determinante per la creazione di nuovi posti di lavoro, si sarebbe dovuto registrare un elevato tasso di turn over o, comunque, una maggiore creazione di posti di lavoro nell’ambito della tutela obbligatoria.

Il che, tuttavia, non si è verificato.

Pertanto, liberato il dibattito dai vincoli ideologici54 che affliggerebbero l’impostazione efficientista, le scarse performances del nostrano mercato del lavoro possono essere addebitate a diversi fattori (tra i quali certamente v’è la rigidità della disciplina lavoristica che, però, svolge un ruolo da “comparsa”): elevati livelli di tassazione, regolamentazione fiscale o di accesso al credito, inefficienza della burocrazia governativa, inadeguatezza della formazione della forza lavoro, instabilità politica, corruzione, inflazione, tasso di criminalità, ecc.)55.

Ancora, la conferma della necessità di abbandonare il “pensiero unico” prenderebbe corpo dall’analisi dell’andamento economico di paesi molto competitivi e, però, fortemente rigidi quanto a disciplina lavoristica. Accanto alla Germania vi sono la Svezia, la Finlandia e la Francia: paesi molto performanti e al contempo particolarmente rigidi.

Dal che si evincerebbe una conferma della relazione rigidità/sclerosi del mercato del lavoro e la prova dell’esistenza di altri elementi certamente importanti.

Quanto ai principi fondamentali, i sostenitori dell’inaffidabilità dell’approccio law and economics rimproverano a quegli interlocutori la scarsa considerazione del dato normativo e dei principi alla cui stregua lo stesso deve essere interpretato.

Un aspetto ignorato, ad esempio, riguarderebbe le tecniche di tutela: la normativa limitante i licenziamenti è invero una disciplina che fa seguire al comportamento illegittimo del datore di lavoro una particolare (e caratteristica) forma di risarcimento: quello in forma specifica. La reintegrazione, quindi, non è un’anomalia: è solo, banalmente, la concretizzazione di un meccanismo previsto dal codice civile (art. 2058) e, quindi, un rimedio squisitamente restitutorio56.

Ora, pure riconoscendo l’assoluta libertà del legislatore di affidare a questo o ad altri meccanismi di tutela il compito di salvaguardare gli interessi del creditore in un rapporto di durata e a prestazioni corrispettive qual è quello di lavoro e, quindi, ferma la considerazione secondo la quale non esiste una tecnica di tutela immutabile e “granitica”, non si può omettere di considerare – e i sostenitori dell’approccio efficientista sarebbero colpevoli di siffatta omissione – che a fronte di una pluralità di strumenti, nei rapporti obbligatori bisogna prediligere i rimedi in grado di ristabilire l’equilibrio contrattuale che le parti hanno voluto negoziando tra loro. Proprio in questo senso si è espressa la Corte di Cassazione che, a sezioni unite, ha affermato che una tecnica fondamentale del nostro ordinamento giuridico garantisce “…l’esatta soddisfazione del creditore, non tenuto ad accontentarsi dell’equivalente pecuniario57.

Si tratta di equilibrio che offre al creditore una tutela coerente con gli interessi in gioco: volenti o nolenti bisogna ammettere che nel rapporto di lavoro entrano in gioco interessi metapatrimoniali, certamente riconducibili a quella scala di valori che è contenuta nella Costituzione repubblicana (diritto al lavoro, parità di trattamento, diritto alla retribuzione proporzionata e sufficiente, ecc.).

La sostituzione della tecnica risarcitoria che garantisce l’effetto restitutorio con quella che assicura solo un ristoro per equivalente (economico) costringerebbe, a conti fatti, all’attribuzione di un valore economico a un rapporto nel quale l’aspetto merceologico soffocherebbe il coinvolgimento delle persone nello stesso. Coinvolgimento che, evidentemente, non è suscettibile di mera valutazione economica58.

Altro aspetto importante è rinvenibile nella funzione che la reintegra svolge nel rapporto di lavoro: l’art. 18, l. n. 300/1970 (vecchia versione) è (era) “norma di chiusura” del diritto del lavoro59: il licenziamento a costi contenuti e, comunque, la particolare facilità nell’irrogarlo incidono non poco sulla esigibilità di taluni diritti essenziali (retribuzione, tutela della professionalità, tutela della sicurezza). Del resto, nei rapporti assistiti dalla tutela obbligatoria la giurisprudenza ha individuato meccanismi di salvaguardia dei diritti dei lavoratori che – com’è noto – sono sostanzialmente tutelabili a rapporto cessato e non subiscono gli effetti ablativi della prescrizione in costanza del rapporto60.

Si tratta di ragionamento che consente di ritornare, peraltro, al “cuore” della teoria neo-liberista e di cogliere la profonda inefficienza, per usare termini cari a chi coltiva l’idea mercatocentrica, che produce un approccio nel quale il valore della persona non è oggetto di interesse da parte della norma: non si può ridurre il tutto alla mera regolazione del gioco al quale partecipano gli individui61 giacché gli stessi sono portatori di interessi che il mercato – inteso quale meccanismo di adeguamento – non considera ed ignora.

Di tali interessi fa carico il diritto in un sistema – qual è il nostrano – che pone al proprio centro la persona: la vera intuizione del Legislatore del 1948 è stata quella di esaltare, nella prima parte della Costituzione, il concetto di solidarietà e, quindi, quell’elemento che funge da collante fra gli individui, presupponendone la centralità all’interno del sistema62 . Si tratta di concetto che il neo-liberalismo non può contemplare perché presuppone il sostegno di taluni ad altri: è concetto che supera l’individualismo e, quindi, mortifica l’idea secondo la quale il benessere della collettività è frutto della somma del benessere che i singoli si procurano in un mercato competitivo63.

Il concetto di solidarietà rappresenta la risposta laica all’esigenza dei più deboli e garantisce la tutela degli stessi attraverso il ricorso a strumenti che non sono suscettibili di valutazione economica.

  1. Il dovere di lavorare, tra adempimento e libertà.

Il secondo comma dell’art. 4 Cost. impone ad ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

La ratio animante la norma affonda le radici, anche in questo caso, nella sua dimensione sociale: “sono di utilità sociale quei beni che non solo sono ritenuti tali dal legislatore ma che godono anche e soprattutto di diretta protezione e garanzia in Costituzione, che coincidano cioè con altri interessi o diritti costituzionalmente tutelati, […] la cui tutela imponga nel bilanciamento con l’iniziativa economica privata, una limitazione di quest’ultima, proprio alla stregua del secondo comma dell’art. 41 Cost.64

Sicché, il dovere di lavorare è direttamente riconducibile – per un verso – al fondamento sociale del diritto stesso e – per altro verso – alla solidarietà pure costituzionalmente intesa. Il limite è rappresentato dalle possibilità e dalle scelte: elementi, questi, che sono da ricondurre, come pure detto, alla stessa ratio animante l’art. 41 Cost.

Lo Stato è ancora una volta chiamato ad intervenire, nondimeno, per assecondare le scelte e sostenere le possibilità: si tratta, a ben vedere, di intervento contiguo a quello che lo Stato compie alla stregua di quanto previsto dal comma 1 dell’art. 4.

Dal canto suo, l’individuo non può rimanere inerte e deve essere ben individuato il suo ruolo all’interno del dibattito che, come pure sostenuto, ha visto il dovere di lavorare in posizione “…marginale ed esangue65.

Il dovere di svolgere una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società deve essere adempiuto giacché sarebbe un lusso tollerare una gratuità indifferenziata66: il godimento dei diritti sociali di cittadinanza sarebbe subordinato – così procedendo – all’effettività dell’art. 4, comma secondo, che – al pari del primo – andrebbe interpretato in moto tutt’altro che meramente programmatico.

In tale senso depongono, peraltro, quelle norme che sanzionano la passività del lavoratore (in specie, del lavoratore espulso dal contesto produttivo: cfr. nuovo art. 18, legge n. 300/1970 e, in particolare, la disciplina sul c.d. aliunde percipiendum).

Si tratta, dunque, di un dovere che è figlio di quel diritto al lavoro concepito allorquando è stato forgiato il “pacchetto” di diritti sociali: per dirla con le parole di Romagnoli, “…l’alternativa di una vita inattiva e assistita è estranea al patto sociale stipulato tanti anni fa. Costituzionalmente corretto, pertanto, è proprio il criterio selettivo più severo: quello per cui la titolarità dei diritti sociali di cittadinanza spetta ai soli cittadini bisognosi dei quali sia accertata la condivisione del dovere − indissociabile dallo status di cittadino, per volontà espressa dei costituenti − di più sicura matrice solidaristica qual è il dovere di “svolgere una attività o una funzione” utile alla società. Come dire: hai diritto a qualcosa, se dai qualcosa; parola di costituente. E del suo interprete disposto ad attualizzarla67.

Tale impostazione pone al centro del discorso, evidentemente, il tema della coercibilità del dovere: si tratta di elemento che è totalmente inesistente nella disciplina costituzionale e che non è – a ben vedere – neanche ipotizzabile.

In disparte i meccanismi di coazione, che più o meno direttamente inducono gli individui a rendersi attivi nel mercato del lavoro, l’espressione contenuta nell’art. 4 Cost. esclude l’applicabilità di qualsiasi sanzione: diversamente argomentando, si dovrebbe preliminarmente decidere cosa si intenda per attività o funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società, ossia, si dovrebbe delimitare il perimetro entro il quale sviluppare l’efficacia del disposto normativo.

Si tratta di attività che – com’è stato notato – la stessa Costituente ha ritenuto impossibile68.

Il dovere di che trattasi, allora, spiega effetti su un piano definibile morale, ma rimane pur sempre legato allo spirito solidaristico che anima la Costituzione e, in questo senso, deve essere coniugato con la libertà di scelta pure attribuita agli individui. La dimensione sociale del diritto al lavoro può essere ancor più apprezzata mantenendo sullo sfondo il principio di solidarietà e – come pure si è detto – la libertà di iniziativa economica, tenendo ben ferma la solidità del tessuto connettivo nel quale affonda le radici il lavoro come mezzo e come fine: strumento di realizzazione delle persone ed elemento omogeneizzante intorno al quale si sviluppa una società libera e massimamente inclusiva.

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Note

1 Sia consentito il rinvio a F.V. Ponte, La tutela dell’ambiente e il diritto al lavoro: conflitti, interferenze e contiguità, in P.B. Helzel, A.J. Katolo (a cura di), Il sistema ambiente tra diritto, etica ed economia, Padova, 2013, 405 ss.

2 Si rinvia, senza pretesa di esaustività, a: G.F. Mancini, Art. 4, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Principi fondamentali (art. 1-12), Bologna, 1975, 199 e ss.; G. Pera, Diritto al lavoro e realtà dell’impresa, in LPO, 1977, 2217 e ss.; Id., Diritto del lavoro e indirizzo etico-politico, in RIDL, 1990, I, 5 e ss.; G. Aznar, Lavorare meno per lavorare tutti, Torino, 1994; M. D’Antona, Il diritto al lavoro nella Costituzione e nell’ordinamento comunitario, in Diritto al lavoro e politiche per l’occupazione, RGL, 1999, n. 3, suppl.; L. Mengoni, Il lavoro nella dottrina sociale della Chiesa, a cura di M. Napoli, Milano, 2004; R. Scognamiglio (a cura di), Diritto del lavoro e Corte costituzionale, Napoli, 2006; A. Cariola, Art. 4, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, I, 114 e ss.; O. Mazzotta, Lavoro e diritto: i valori e le regole, in P. Tullini (a cura di), Il lavoro: valore, significato, identità, regole, Bologna, 2009, 65 e ss.

3 C. Mortati, Il lavoro nella Costituzione, in DL, 1954, I, 149 e ss., richiamato da P. Lambertucci, Il diritto al lavoro tra principi costituzionali e discipline di tutela, in RIDL, 2010, I, 92.

4 A. Cariola, Art. 4, cit., 128.

5 G.F. Mancini, Art. 4, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Principi fondamentali (art. 1-12), Bologna, 1975, 236 e ss.

6 Cfr. M. Mazziotti, Il diritto al lavoro, 1956, 57 e ss.

7 C. Lavagna, Basi per uno studio sulle figure soggettive contenute nella Costituzione italiana, 1953, poi in Ricerche sul sistema normativo, Milano, 1984, 739 e ss., richiamato da A. Cariola, Art. 4, cit., 121.

8 V. Crisafulli, Appunti preliminari sul diritto al lavoro nella Costituzione, in RGL, 1951, I, 167, citato ancora da A. Cariola, o.u.c.

9 Sebbene il secondo comma dell’art. 3 sia stato spesso interpretato per “recuperare” un esplicito favor nei confronti del lavoro subordinato.

10 Sul punto cfr. M. Mazziotti, Lavoro (dir. cost.), in Enc. Dir., Milano, 1973, 338 e ss.

11 C. cost., 12 gennaio 1971, n. 5, in Giur. cost., 1971, 39.

12 G.F. Mancini, o.u.c., 233.

13 Cfr. Corte giust. 11 dicembre 1997, causa C-55/96, Job Centre.

14 Si fa riferimento alla nota interpretazione di C. Mortati.

15 L. Mengoni, I diritti sociali, in Arg. dir. lav., 1998, 1, 1-15, relazione al Convegno celebrativo del cinquantenario della Costituzione repubblicana organizzato dall’Accademia Nazionale dei Lincei e dalla Corte costituzionale in collaborazione con l’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Roma 18-20 dicembre 1997, poi in M. Napoli (a cura di), L. Mengoni. Il contratto di lavoro, Milano, 2004, 129 e ss. e, in particolare, 135.

16 F.V. Ponte, Il mercato del lavoro tra flessibilità in entrata e in uscita, Napoli, 2013.

17 Il riferimento è al discorso di verità di M. Foucault, trad. it. Rizzoli, Milano, 1986, V, 13.

18 A. Garapon, Lo Stato minimo, Milano, 2012, 13.

19 Sul tema la letteratura è ampia. Si rinvia, senza alcuna pretesa di esaustività a M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), tr. it. Feltrinelli, Milano, 2005; R. Plant, The Neo-Liberal State, Oxford, 2009; R.A. Posner, Economic Analysis of Law, Boston, 1986; A. Supiot, L’esprit de Philadelphie: La justice sociale face au marché total, Paris, 2010; F.A. Von Hayek, La via della schiavitù, tr. it. Rusconi, Milano, 1995. In argomento v. inoltre P.B. Helzel, Il recupero del binomio sovranità-autorità alla luce della tradizione giuridica”,.P.B. Helzel, A.J. Katolo (a cura di), Autorità e crisi di poteri, Padova, 2012, 15 ss.

20 A. Garapon, o.u.c., 15.

21 Id., ibidem.

22 Cfr. P. Dardot, Ch. Laval, La nouvelle raison du monde, Paris, 2008, 181, citati da A. Garapon, o.u.c., 18.

23 F.A. Von Hayek, Legge, legislazione e libertà, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 2010, 144 ss.

24 P. Dardot, Ch. Laval, La nouvelle raison du monde, cit., 262.

25 A. Garapon, o.u.c., 25 e 29.

26 Sul tema cfr. Brucchi, Luchino (pseudonimo di Giorgio Brunello, Daniele Checchi, Claudio Lucifora e Andrea Ichino), Manuale di economia del lavoro, Bologna, 2001, in particolare 105 ss.; G. J Borjas, Economia del lavoro, edizione italiana a cura di A. Del Boca, D. Del Boca, L. Cappellari e A. Venturini, Milano, 2010, 105 ss.

27 Si fa solitamente riferimento al c.d. mercato del lavoro concorrenziale.

28 Si fa riferimento allo studio condotto da D. Checchi, Riforma del mercato del lavoro e disuguaglianza in Italia, cit., 1 ss.

29 Id., ibidem.

30 Il riferimento è, soprattutto, alla l. n. 196/1997 e al d.lgs. n. 276/2003, oltre che alle norme governanti i contratti a tempo determinato e part time (d.lgs. n. 368/2001 e d.lgs. n. 61/2000).

31 D. Checchi, o.u.c., 3 ss.

32 Id., o.u.c., 8 ss.

33 T. Boeri, P. Garibaldi, Two tier reforms of employment protection: A honeymoon effect?, Economic Journal, 117, 357, 3.

34 Tra i lavoristi il più noto e autorevole sostenitore di tale metodo di analisi è Pietro Ichino: tra i suoi diversi scritti in materia si segnalano P. Ichino, Il lavoro e il mercato, Milano, 1996; Id., A che cosa serve il sindacato?, Milano, 2006; ID., Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore, in P. Tullini (a cura di), Il lavoro: valore, significato, identità, regole, Bologna, 2009, 75 ss.; ID., Inchiesta sul lavoro, Milano, 2011. Più in generale, sull’analisi economica del diritto cfr. G. Calabresi, The Cost of Accidents: A Legal and Economic Analysis, Yale, 1970.

35 Cfr. U. Romagnoli, Le ragioni del referendum sul lavoro contro il “mercato delle regole”, Il Manifesto, 14 settembre 2012; G. Loy, Verso la riforma del mercato del lavoro, in M. Tiraboschi, P. Rausei, Lavoro: una riforma a metà del guado, ADAPT e-book, 2012, 1, 33 ss.; V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, cit., 521 ss.; G. Ferraro, Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore: riflessione sulle tesi di Pietro Ichino, in P. Tullini (a cura di), Il lavoro: valore, significato, identità, regole, cit., 109 ss.; M. Papaleoni, Prime considerazioni critiche sul progetto di riforma del mercato del lavoro: “Mons tremuit et mus parietur”, dattiloscritto, aprile 2012; R. Del Punta, Il lavoro difficile. Prime riflessioni sulla riforma Fornero, Bologna, 2012.

36 Cfr. P. Ichino, La riforma dei licenziamenti e i diritti fondamentali dei lavoratori, relazione presentata al Convegno del Centro Nazionale Studi di Diritto del Lavoro “Domenico Napoletano” di Pescara, 11 maggio 2012, dattiloscritto: ivi ampi riferimenti allo studio OCSE del 2008.

37 Id., ibidem, 2 ss.

38 P. Ichino, o.u.c., 4.

39 Id., o.u.c., 6.

40 P. Ichino, o.u.c., 10.

41 Id., ibidem; cfr., ivi citati , G. Calabresi, A. Douglas Melamed, Property rules, liability rules and inalienability. A view of the Cathedral, Harvard Law Review, 1972, 1089 ss.

42 Che sarebbe ancorato al diverso trattamento riservato a chi subisca un licenziamento illegittimo, ma per motivi diversi da quelli che consentono l’applicazione della property rule.

43 P. Ichino, o.u.c., 11.

44 Ossia, è dato per scontato che quando l’Europa, le Organizzazioni internazionali e gli autorevoli osservatori denunciano il dualismo italiano e invitano all’implementazione del percorso di flexicurity, si faccia indiscutibilmente riferimento alla disciplina che limita i licenziamenti e che dispone, quale sanzione principale, la reintegrazione.

45 Cfr. V. Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, cit., 525.

46 Si ricordi che l’OCSE aveva inserito l’Italia nel novero dei paesi ad alta rigidità in materia di licenziamento: si tratta, com’è noto, di valutazione errata perché fondata su una errata interpretazione della natura del T.F.R. (visto all’estero come firing cost). A seguito della corretta collocazione dell’istituto (retribuzione differita), l’Italia è stata ri-collocata a fianco dei paesi con rigidità normale: cfr. OCSE (OECD), Employment Outlook, Paris, 2004.

47 Si badi bene, nell’accezione europea: non si tratta della panacea di ogni male ma dell’adozione di una politica costosa che coinvolge non solo il diritto ma anche le scelte strategiche degli stati membri e, quindi, le scelte economiche e la programmazione degli impegni di spesa in materia sociale.

48 V. Speziale, o.u.c., 524 ss.

49 Id., ibidem; cfr. inoltre R. Layard, S. Nickell, R. Jackman, Unemployment: Macroeconomic performance anche the labour market, Oxford, 2005; OCSE (OECD) 2004, Employment Outlook, cit.; E. Reyneri, Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, 2011, I, 131 ss.

50 OCSE (OECD) 2004, Employment Outlook, cit., 80.

51 Cfr. V. Speziale, o.u.c., 524; G. Esping Andersen, Social Foundations of Postindustrial Economies. Oxford 1999; R. Artoni, M. D’Antoni, M. Del Conte, S. Liebman, Employment protection systems and welfare state models. A comparative study, Bocconi legal studies research paper 06-11, Milano, 2006, 3 ss.

52 Dati ISTAT reperibili in http://www.pietroichino.it/?p=17248; cfr. anche V. Speziale, o.u.c., 525 ss.

53 V’è quindi una netto sbilanciamento quantitativo a favore delle imprese che “subiscono” la reintegrazione.

54 Si tenga presente che la Germania, assunta a parametro-guida, è definita dal The Global Competitiveness Report 2011-2012 come paese fortemente rigido (è collocato al 125° posto nella graduatoria sulla flessibilità del lavoro: cfr. pagina 24 del Report reperibile in http://www.weforum.org/reports/global-competitiveness-report-2011-2012), a causa della scarsa flessibilità salariale e degli alti costi connessi ai licenziamenti.

55 Cfr. ancora V. Speziale, o.u.c., 534 e, soprattutto, la relazione presentata dall’A. al Convegno Nazionale del Centro Studi “Domenico Napoletano” tenutosi a Pescara, 11 e 12 maggio 2012, sul tema “Il licenziamento individuale tra diritti fondamentali e flessibilità del lavoro”, dattiloscritto.

56 Id., o.u.c., 532 ss. ma, più dettagliatamente, cfr. la relazione presentata al Convegno Nazionale del Centro Studi “Domenico Napoletano” tenutosi a Pescara, cit., 24 ss.

57 Cass. S.U., 10 gennaio 2006, n. 141, FI, 2006, I, 704, con note di Dalfino e Proto Pisani; anche in RIDL, 2006, II, 440, con nota di Vallebona; ADL, 2006, 594, con nota di Menegatti. In argomento v. F. Santoni, Tecniche sanzionatorie e rimedi risarcitori nei rapporti di lavoro, DML, 2008, 1-2, 45 ss.

58 Sia consentito il rinvio a F.V. Ponte, La prova del danno esistenziale nel rapporto di lavoro: creazione dell’ipotesi di danno e negazione della sua risarcibilità, DML, 2008, 1-2, 131 ss.; sul tema, in generale, v. R. Del Punta, Diritti della persona e contratto di lavoro, in Il danno alla persona del lavoratore, Atti del Convegno AIDLASS tenutosi a Napoli nel 2006, Milano, 2007, 19 ss.; R. Casillo, La dignità nel rapporto di lavoro, W.P.C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, 2008, 71; A. Tursi, Il danno non patrimoniale nel rapporto di lavoro, RIDL, 2003, I, p. 294; L. Montuschi, Problemi del danno alla persona nel rapporto di lavoro, RIDL, 1994, I, p. 319.

59 L’espressione è di V. Speziale, o.u.c., 535. Cfr. B. Caruso, Per un ragionevole, e apparentemente paradossale, compromesso sull’art. 18: riformarlo senza cambiarlo, in W.P.C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, 2012, 140, 3 ss., che, efficacemente, parla dell’importanza della collocazione sistematica dell’art. 18 e della sua funzione di “cerniera” all’interno dello Statuto dei lavoratori.

60C. cost. 10 Giugno 1966, n. 63, MGL, 1966, 133; tra le tante sentenze della S.C. in argomento cfr. Cass. 17 ottobre 2006, n. 22229, FI, Rep. 2007, voce Prescrizione e decadenza, n. 37.

61 Definiti, come si è visto, imprenditori.

62 L. Mengoni, Fondata sul lavoro: la repubblica tra diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà, Milano, 1998. In argomento v. G. Calabrò, Potere costituente e teoria dei valori. La filosofia giuridica di C. Mortati, Lungro, 1997.

63 Sul tema cfr. G. Calabrò, P.B. Helzel, Il sistema dei diritti e dei doveri, Torino, 2007.

64 R. Niro, Comm. art. 41 Cost., in R. Bifulco, A Celotti, M. Olivetti (a cura di), Comm. Cost., cit., 854.

65 U. Romagnoli, Il diritto del lavoro nel prisma del principio d’eguaglianza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1997, 3, 533 e ss.

66 Id., ibidem.

67 Id., ibidem.

68 Cfr. M. Mazziotti, voce Lavoro (dir. cost.), cit., 341 e, in particolare, nota 16: “Come è noto, la Costituente non approvò la disposizione, contenuta nel progetto dei Settantacinque, per effetto della quale, l’esercizio dei diritti politici sarebbe stato condizionato all’adempimento di questo dovere, e che istituiva così una sanzione che, per essere applicata, avrebbe richiesto la precisazione, per mezzo del legislatore, dell’obbligo imposto dalla Costituzione…”.

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