di Flavio V. Ponte

La legge 28 giugno 2012, n. 92 contiene “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”. Lo scopo dichiaratamente perseguito è il governo delle dinamiche e dei meccanismi attivi nel mercato del lavoro che, a ben vedere, non sembra munito di regole “proprie” o, comunque, utili a garantire un equilibrato scambio tra i soggetti che domandano e offrono forza lavoro. Sulla questione, già prima della riforma, la letteratura ha discettato temi e problematiche1.

Anche il legislatore, fin dalla legge 29 aprile 1949, n. 264, si è preoccupato di confezionare provvedimenti specifici in materia di avviamento al lavoro e di assistenza dei lavoratori involontariamente disoccupati; risale al 1952, invece, uno dei primi interventi di ampio respiro riguardanti lo sviluppo dell’economia e l’incremento dell’occupazione (legge 25 luglio 1952, n. 949).

Successivamente, tra i più significativi interventi si annoverano la legge 1 giugno 1977, n. 285 (Provvedimenti per l’occupazione giovanile), il d.l. 9 luglio 1980, n. 302 (Istituzione del Fondo di solidarietà per interventi finanziari finalizzati allo sviluppo dell’occupazione), il d.l. 29 gennaio 1983, n. 17 (Misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire l’occupazione: conv. in l. 25 marzo 1983, n. 79) , la legge 11 aprile 1986, n. 113 (Piano straordinario per l’occupazione giovanile), la legge 28 febbraio 1987, n. 57 (Norme sull’organizzazione del mercato del lavoro), il d.l. 21 marzo 1988, n. 86 (convertito in legge 20 maggio 1988, n. 160), i decreti legge 22 novembre 1990, n. 337, 28 gennaio 1991, n. 29 e 29 marzo 1991, n. 108 (tutti contenenti disposizioni urgenti in materia di sostegno dell’occupazione), la legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), d.l. 16 maggio 1994, n. 299 (disposizioni urgenti in materia di occupazione e di fiscalizzazione degli oneri sociali: convertito in legge 19 luglio 1994, n. 451), la legge 24 giugno 1997, n. 196 (Norme in materia di promozione dell’occupazione), il d.lgs. 6 ottobre 1998, n. 379 (Intervento sostitutivo del Governo per la ripartizione di funzioni amministrative tra regioni ed enti locali in materia di mercato del lavoro, a norma dell’articolo 4, comma 5, della legge 15 marzo 1997, n. 59), la legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro), il successivo d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30), il c.d. decreto legislativo “correttivo” 6 ottobre 2003, n. 251 (Disposizioni correttive del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, in materia di occupazione e mercato del lavoro), il d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo: convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148).

Dalla legislazione risalente agli anni ’70-’90 appare particolarmente evidente l’affannosa ricerca, per via normativa, di una forma di sostegno all’occupazione, quasi a volere individuare nel diritto positivo l’unica vera forza antagonista in grado di fronteggiare gli squilibri e le inefficienze del mercato2. Taluni hanno definito il prodotto legislativo di quella stagione “diritto del lavoro dell’emergenza”, evidentemente pensando ad altre esperienze utilizzabili quale termine di relazione, fisiologicamente caratterizzate da una politica del diritto più serena3.

L’estrema fiducia nell’efficacia della norma continua ad animare le intenzioni del legislatore, evidentemente ancora alla ricerca della norma “antagonista”, ossia della disciplina in grado di determinare equilibri attualmente inesistenti e capace di correggere le distorsioni che producono disuguaglianza. Ne risulta palese un effetto ipertrofico per l’insistenza con la quale si aggiungono strati alla complessa normativa già esistente.

Nell’interpretare il “nuovo”, in un quadro reso così complesso dalle stratificazioni normative, si corre sempre il rischio di dimenticare ciò che di buono c’era (o rimane) nel vecchio ed è facile che nell’impeto riformista ci si lasci guidare dalla passione che anima chi – anche in buona fede – ritiene necessario rimescolare le carte.

Il testo definitivamente approvato e poi promulgato dal Presidente della Repubblica si presenta con una struttura diversa da quella che aveva caratterizzato i lavori parlamentari: la primigenia stesura è stata profondamente modificata mediante la notevole riduzione degli articoli (da 77 a 4) e il sostanziale inserimento delle singole disposizioni in diversi commi.

Il d.d.l. presentato in data 5 aprile era composto da 72 articoli; alla Camera ne venivano aggiunti 7. Il Governo ha imposto la questione di fiducia in Senato: i diversi capi e articoli già caratterizzanti il d.d.l. sono confluiti, a seguito della proposizione di 4 emendamenti, in altrettanti articoli. Ciò ha fatto venire meno le diverse rubriche, costringendo il lettore a orientarsi tra i diversi (e anonimi) commi.

Il d.d.l. (n. 3249) e’ stato approvato in Senato il 31 maggio 2012, con modifiche, frutto di emendamenti approvati dalla 11a Commissione. La Camera ha poi approvato il testo (n. 5256), confermando sostanzialmente l’impianto deciso in modo bi-partisan in Commissione.

Nella relazione del 21 giugno 2012 elaborata dal Servizio studi – Osservatorio legislativo e parlamentare sono evidenziati gli aspetti tecnici che caratterizzano il testo4.

Gli elementi di criticità sono diversi, sia con riguardo ai profili di coordinamento con la legislazione vigente sia circa il concetto di semplificazione. L’Osservatorio rileva la genericità di taluni richiami effettuati nel corpo del testo, ovvero, il riferimento a concetti generici. L’art. 1, comma 35 prevede che la mancata corresponsione dell’indennità di cui al comma 34 – si tratta dei tirocini informativi – costituisce un illecito amministrativo sanzionato a norma della legge n. 689/1981: il comma 34, tuttavia, rinvia a un accordo Governo/regioni la definizione di linee-guida in materia. L’Osservatorio avanza perplessità circa la compatibilità tra tale previsione e il principio di legalità atteso che tali future linee-guida non hanno contenuto precettivo. Si tratta di tecnica biasimata dall’Osservatorio che, a pag. 5 della relazione, denuncia diversi casi di rinvio e/o richiamo generico (è ricorrente, nel corpo del testo, il riferimento alla “seconda parte” di una norma, ovvero alla “misura prevista” per talune categorie di soggetti, o ancora all’applicazione di altre norme “in quanto compatibili”, ecc.; parimenti dicasi per i riferimenti, assolutamente fumosi, agli “indirizzi assunti in sede europea”, alle “indicazioni della Unione europea”, ai “livelli minimi fissati a livello europeo”: cfr. art. 1, comma 1, lettera h) e art. 4 commi 51 e 62, lettera a); l’art. 3, commi 6, 29 e 30 attribuiscono all’atto di un organo amministrativo (mediante lo strumento del decreto direttoriale) la potestà di determinare il quantum dell’aliquota contributiva relativa ai fondi di solidarietà, secondo una procedura della quale appare dubbia la compatibilità con il sistema delle fonti del diritto; sempre con l’art. 3, commi 44 e 45, si prevede che la disciplina di due fondi istituiti per legge sia adeguata mediante decreto ministeriale a quella introdotta dalla riforma: in questo caso sarebbe stato opportuno specificare il rapporto tra gli atti in questione e gli accordi collettivi considerato che la normativa previgente affidava esclusivamente all’autonomia collettiva il compito di disciplinare i fondi in questione.

In molti casi il testo impone modifiche alla disciplina vigente che, tuttavia, non appaiono perfettamente coordinate atteso che le modifiche disposte speso non sono testuali; in altri casi il difetto di coordinamento con la normativa vigente emerge ove si consideri che le novità hanno carattere organico che, nell’ambito delle partizioni del testo nelle quali sono inserite, appaiono decontestualizzate; accade che alcune volte le modifiche costituiscono un sistema unico con gli altri provvedimenti e, tuttavia, non sono in essi collocate.

A titolo esemplificativo l’Osservatorio indica i seguenti casi: l’art. 1, comma 11, lettera a), reitera una modifica non testuale della disciplina contenuta nella l. n. 604/1966 e, però, dispone la modifica testuale del solo art. 32, legge n. 183/2010 (c.d. Collegato lavoro) che, a sua volta, non aveva provveduto alla novellazione della citata norma del 1966; l’art. 1, comma 21, lettera b), incide in modo non testuale sull’art. 13, d.lgs. n. 124/2004, escludendone l’applicazione; c) l’art. 1, commi 24 e 27 contengono l’interpretazione autentica dell’art. 69, comma 1 e 61 del d.lgs. n. 276/2003, con riferimento agli elementi essenziali di validità del contratto di co.co.co. e con riferimento alle professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi: si tratta di interpretazioni che introducono modifiche non testuali e che riguardano, a quanto sembra, l’interpretazione futura della norma; d) l’art. 1, comma 30, si occupa dell’associazione in partecipazione ma, a differenza del comma 28 (che modifica la disciplina contenuta nel codice civile intervenendo testualmente), non inserisce le modifiche nel contesto normativo che è proprio alla materia; e) l’art. 2, comma 24, non modifica la norma alla quale fa riferimento (art. 7, comma 3, d.l. 21 marzo 1988, n. 86, convertito in l. 20 maggio 1988, n. 160), bensì prevede che le prestazioni disciplinate siano “assorbite”; f) l’art. 2, comma 39, incide sull’art. 12, comma 1, d.lgs. n. 276/2003 senza disporre modifiche testuali (eppure riducendo l’aliquota contributiva prevista da quella norma); g) l’art. 2, comma 58, incide sull’ambito applicativo di diverse disposizioni contenute nel codice penale e definisce i contenuti della sentenza di condanna in determinati casi, senza dedicare la novellazione a un appropriato contesto normativo (parimenti dicasi per i successivi commi 59 e 62); h) l’art. 3, comma 3, estende l’obbligo contributivo di cui all’art. 9, l. 29 dicembre 1990, n. 407, senza effettuare modifiche testuali; i) l’art. 4, commi 24, 25 e 26 interviene sulla genitorialità senza incidere sul contesto normativo, ossia il d.lgs. 26 marzo 2001, n. 165; l) l’art. 4, commi 34 e seguenti, sembrano fare sistema con il precedente comma 33, che modifica il d.lgs. 12 aprile 2000, n. 181: anche in questo caso le novità non si inseriscono – fisicamente – nel testo della norma modificata; m) parimenti dicasi per l’art. 4, commi 75 e 76 (In questo caso il coordinamento va operato con l’art. 2, comma 11, l. 24 dicembre 2003, n. 350 e con l’art. 334, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (codice delle assicurazioni private); n) probabilmente più gravi sono i difetti di coordinamento con la legge n. 604/1966 e n. 300/1970 cui si è accennato ai quali si aggiungono le perplessità che riguardano il coordinamento con le norme contenute nel codice di procedura civile (in particolare, artt. 409 e seguenti): l’art. 1, comma 41 si occupa del termine iniziale di efficacia di licenziamento, senza modificare tuttavia le due norme (legge n. 604 e legge n. 300) dedicate all’argomento. Sempre l’art. 1, comma 47 e seguenti, introduce un rito speciale accelerato applicabile ai casi di licenziamento ma non è posto in relazione con gli artt. 409 e seguenti del codice di procedura civile; o) l’art. 1, comma 2, introduce il sistema di monitoraggio e valutazione del mercato del lavoro, ma non si coordina con l’art. 17 del d.lgs. n. 276/2003.

V’è poi da rilevare l’impatto finanziario della riforma che, per molti versi, dovrebbe essere autosufficiente, ovvero, dovrebbe potere andare a regime “a costo zero”: in disparte – almeno per ora – le ovvie considerazioni che potrebbero spendersi sul metodo, v’è da sottolineare come sia poco ipotizzabile l’immediata (ed esplicitamente auspicata dal Legislatore) “buona riuscita” della novella, mantenendo il diktat della “invarianza” degli oneri.

Sono particolarmente interessanti, inoltre, le indicazioni dell’Osservatorio concernenti la chiarezza e la proprietà della formulazione del testo:

Nel corpo del testo sono contenute disposizioni di delega di cui non si rende notizia né nel titolo del provvedimento né nella rubrica degli articoli (è il caso dell’art. 4, contenente deleghe al Governo in materia di: apprendimenti non formali e informali e di partecipazione dei dipendenti agli utili e al capitale delle imprese; riordino della normativa in materia di servizi per l’impiego, incentivi all’occupazione e apprendistato). Peraltro, i contenuti delle deleghe presentano profili particolarmente problematici: si passa dalla brevità del termine per raccogliere la delega in materia di apprendimenti (6 mesi) alla lunghezza del termine per l’adozione di eventuali disposizioni integrative e correttive (24 mesi); ancora, in alcuni casi la delega è estremamente generica, quanto ai principi e ai criteri direttivi da seguire (è il caso della partecipazione dei dipendenti agli utili e al capitale delle imprese: ivi si fa riferimento a “livelli minimi” fissati da altre norme ovvero alla “verifica dell’applicazione e degli esiti di piani o decisioni concordate”).

V’è poi il caso della delegificazione: l’art. 3, commi 36 e 42 e l’art. 4, comma 18, affidano a decreti ministeriali il potere di incidere su disposizioni disciplinate da fonti primarie del diritto, come nel caso della disciplina del diverso termine di durata del comitato amministratore, della disciplina concernente i fondi di solidarietà e delle ulteriori modalità semplificate per l’accertamento della veridicità delle dimissioni del lavoratore o della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, consentendo in tal guisa ad una fonte di rango subordinato il compito di modificare disposizioni di rango legislativo, peraltro in spregio a quanto previsto dalla l. 23 agosto 1988, n. 400.

Problema simile si presenta con riferimento all’evocazione, da parte del legislatore, di “decreti di natura non regolamentare” (l’art. 1, comma 9 lettera f) e comma 21, l’art. 2, comma 19, l’art. 3, commi 16 e 19 nonché l’art. 4 commi 18 e 25 demandano la loro attuazione a siffatti decreti).

L’osservatorio avanza seri dubbi in merito a tale tecnica considerata la giurisprudenza della Corte costituzionale e del Consiglio di stato in argomento: a) la Consulta ha qualificato tali decreti quali “att[i] statal[i] dalla indefinibile natura giuridica”5; b) secondo il Consiglio di Stato “…deve rilevarsi che, nonostante la crescente diffusione di quel fenomeno efficacemente descritto in termini di “fuga dal regolamento” (che si manifesta, talvolta anche in base ad esplicite indicazioni legislative, tramite l’adozione di atti normativi secondari che si autoqualificano in termini non regolamentari) deve, in linea di principio, escludersi che il potere normativo dei Ministri e, più in generale, del governo possa esercitarsi mediante atti “tipici”, di natura non regolamentare6.

Non vanno poi ignorati i problemi di efficacia temporale delle disposizioni, visto che alcune norme hanno efficacia differita nel tempo (art. 1, comma 16, art. 2, comma 68, art. 3, comma 2), altre spiegano effetti dalla entrata in vigore della legge n. 92, ovvero, da momenti successivi (art. 1, commi 25 e 39, art. 3, comma 49), sicché vi sono problemi di applicazione intertemporale (art. 1, comma 15, 18, 22 e 32)); non mancano, altresì, problemi connessi alla natura meramente programmatica di alcune norme e alla introduzione di disposizioni meramente descrittive ovvero delle quali appare dubbia o incerta la portata normativa (si è detto dell’art. 1, comma 1 e della indicazione delle finalità della legge) in merito a cui, a titolo meramente esemplificativo si segnalano: il caso dell’art. 1, comma 9, in materia di rapporti di lavoro a termine; l’art. 1, comma 26, secondo capoverso, lettera a), concernente i “significativi percorsi formativi” valutabili al fine dell’esclusione della presunzione applicabile in caso di qualificazione del rapporto di lavoro autonomo; l’art. 1, comma 42, lettera b), argomenta di “diligenza alla ricerca di una nuova occupazione” con riferimento alla individuazione della indennità risarcitoria da corrispondere in caso di licenziamento illegittimo); la presenza di preamboli nel corpo del testo. Si tratta di esplicazioni che non hanno immediata portata normativa: art. 1, comma 2, art. 3, comma 16, art. 4, commi 12, 24, 27, lettera c) e 62.

Che si tratti di testo normativo particolarmente “fluido” non è opinione semplicisticamente derivante dalle considerazioni pocanzi spiegate e, peraltro, dalla natura della materia, notoriamente impermeabile agli approcci “sclerotici”, ma affonda le radici nella volontà governativa e, quindi, nelle modifiche (seppure minime) immediatamente imposte al testo in occasione della conversione del d.l. n. 22 giugno 2012, n. 83 (c.d. decreto crescita, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134). Modifiche che sono state affiancate dai primissimi approcci interpretativi spiegati dall’Amministrazione maggiormente coinvolta dai nuovi meccanismi previsti nella norma.

Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha emesso due circolari: la prima (n. 18/2012) avente ad oggetto le tipologie contrattuali e altre disposizioni – prime indicazioni operative; la seconda (n. 20/2012) avente ad oggetto lavoro intermittente alla luce delle modifiche apportate agli artt. 33-40 del D.Lgs. n. 276/2003 – istruzioni operative al personale ispettivo.

In sintesi, riservando riflessioni più approfondite al prosieguo, con la circolare n. 18 il Ministero si occupa dei contratti a tempo determinato, dell’apprendistato, del lavoro intermittente, del lavoro accessorio, del collocamento dei disabili, delle dimissioni “in bianco”; la circolare n. 20, invece, si occupa integralmente del lavoro intermittente, fornendo indicazioni in merito all’inquadramento della nuova disciplina, alle novità concernenti gli obblighi di comunicazione, e alle attività di vigilanza.

Sul piano legislativo, invece, le modifiche introdotte con la legge di conversione n. 134/2012 del d.l. n. 83/2012 riguardano diversi punti della riforma: rapporti a tempo determinato, apprendistato, lavoro accessorio, ammortizzatori sociali, mercato del lavoro.

L’elaborazione delle modifiche di cui sopra all’indomani della promulgazione della legge di riforma dimostra – ove ve ne fosse bisogno – che è prevalso e prevale in argomento l’approccio decisionista7 anche a scapito della precisione dei contenuti.

Poco male, ove si trattasse di intervento d’urgenza finalizzato a “tamponare”; il punto è che l’ambiziosa (tale esplicitamente definita dalla Commissione europea) legge di riforma dovrebbe provocare cambiamenti strutturali e quindi compulsare in modo possibilmente duraturo l’avvio di un nuovo corso nelle relazioni tra gli attori del mercato del lavoro: il metodo, quindi, non sembra coerente con il merito, ed è in oltre prevedibile (ma, forse, anche auspicabile) che l’attività di manutenzione della riforma non si arresti immediatamente.

L’art. 1, comma 1, l. n. 92/2012 individua i fini cui è asservita la riforma: realizzazione di un mercato del lavoro inclusivo e dinamico; la creazione di occupazione, in quantità e qualità; la crescita sociale ed economica; la riduzione permanente del tasso di disoccupazione.

Si tratta, come è evidente, di obiettivi ambiziosi la cui lapidaria affermazione è forse più utile al legislatore che ai fruitori del prodotto appena partorito e, quanto al metodo, si è visto che il “filo” che connette le varie parti della novella è rappresentato dalla profonda convinzione dell’efficacia dello strumento individuato, ossia, della regolazione – a volte opportuna, spesso esasperata o pericolosamente invadente – di un mercato che sarebbe oggi negativamente influenzato da una normativa bisognosa di revisione. Il che equivale a dire, sostanzialmente, due cose: la norma ha creato il “danno”, la norma può risolverlo; la riforma di oggi è necessaria per porre rimedio alle riforme – evidentemente errate o inopportune – di ieri.

In altri termini, si potrebbe scorgere nella legge n. 92 un malcelato biasimo nei confronti del legislatore che per ultimo ha cercato, in modo massiccio ed esclusi i successivi interventi estemporanei ovvero di manutenzione, di rivedere le regole governanti le dinamiche del mercato del lavoro: si tratta dell’esperienza legislativa del 2003 (legge delega n. 30 del 14 febbraio 2003 e, poi, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276) alla quale sarebbe imputabile la predilezione per la flessibilità ai margini, ossia, la precisa scelta di favorire l’incremento dell’occupazione mediante il ricorso a rapporti flessibili ovvero a bad jobs e, quindi, il solo obiettivo di incrementare numericamente il numero degli occupati, a prescindere dalla qualità dei rapporti e dall’impatto della riforma sui salari8.

Il discorso poi si complica nel merito: la riduzione permanente del tasso di disoccupazione costituisce affermazione di principio, peraltro già contenuta nel d.lgs. n. 276/2003, che ricalca sostanzialmente le affermazioni contenute nella documentazione confezionata, periodicamente, dalle istituzioni europee e di cui si è data notizia nel capitolo precedente. In buona sostanza, appare quantomeno naturale l’affermazione di principio in una legge il cui titolo è Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita; forse un po’ meno ovvio l’utilizzo del termine permanente: non può che essere un auspicio, atteso che è difficile, tecnicamente, riconoscere a una legge il merito di intervenire su un elemento così ostico e difficile da trattare (e da misurare) qual è la disoccupazione. E’ noto, infatti, che la disoccupazione ha un andamento variabile legato a diversi fenomeni, alcuni dei quali evidentemente non governabili dalla norma neanche nell’ottica prediletta dal legislatore nostrano che, come detto, appare particolarmente fiducioso nell’impatto della regola sul mercato.

Basti considerare che l’aumento o la diminuzione del tasso di disoccupazione sono condizionati anche dalle scelte dei soggetti in cerca di lavoro e, quindi, dal loro comportamento che – com’è normalmente osservato – muta a seconda dei periodi, della sussistenza di una recessione più o meno grave9.

Quanto alla realizzazione di un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, valgano le osservazioni già spese: l’inclusività del mercato, intesa quale capacità dello stesso di favorire la mobilità e il dinamismo nel passaggio dallo stato di occupazione a quello di disoccupazione (e viceversa) è ritenuta, da taluni, oggetto plasmabile per via legislativa e da altri oggetto particolarmente sfuggente agli effetti delle riforme; il punto è che, come si è visto, le parti che coltivano approcci molto distanti tra loro utilizzano, per lo più, gli stessi dati.

Rimangono la creazione di occupazione (in quantità e qualità) e la crescita sociale: si tratta di obiettivi coerenti con le strategie europee degli ultimi anni e, in aggiunta a quanto già riferito, con le decisioni adottate dal Consiglio dell’Unione europea nel 2001 e nel 2005: nella prima decisione (2001/63/CE) il Consiglio ribadisce la necessita di consolidare il processo di Lussemburgo e, quindi, l’obiettivo della piena occupazione; nella seconda decisione (2005/600/CE), si riprende il dibattito coltivato in occasione della stipulazione del Trattato di Lisbona, individuando – tra le altre cose – nella capacità di adattamento dei lavoratori e delle imprese la chiave per il raggiungimento della piena occupazione.

Ciò che manca nella legge n. 92/2012, a ben vedere, è un riferimento diretto allo sviluppo dell’imprenditorialità per la creazione di posti di lavoro che, invero, il Consiglio del 19 gennaio 2001 (con la sopra menzionata decisione 2001/63/CE) aveva individuato quale step fondamentale della strategia europea: “La creazione di nuove imprese in generale, e in particolare il contributo alla crescita delle piccole e medie imprese (PMI) sono indispensabili per creare posti di lavoro e per sviluppare le opportunità di formazione dei giovani […] Gli Stati membri dovranno inoltre alleggerire e semplificare gli oneri amministrativi e fiscali che gravano sulle PMI, Tali politiche dovrebbero rafforzare la prevenzione del lavoro sommerso” (testualmente nell’allegato Orientamenti per l’occupazione per il 2001 – decisione 2001/63/CE relativa a orientamento per le politiche degli Stati membri a favore dell’occupazione per il 2001).

Considerando il testo della legge n. 92/2012, non è particolarmente evidente l’impatto della novella sulla creazione di nuove imprese e, comunque, il contributo della stessa alla creazione di posti di lavoro.

A quanto sembra – e a rischio di apparire ingenerosi rispetto al comunque apprezzabile sforzo legislativo – l’approccio riformista è stato coltivato pensando all’esistente, ossia, ai posti di lavoro presenti nel mercato e, quindi, alle posizioni non intercettate dall’offerta di forza lavoro (che sarebbe, come pure è probabile, o non calibrata alle esigenze della domanda o, peggio, insensibile alle richieste).

Ciò darebbe ragione a chi sostiene che in Italia la domanda di forza lavoro c’è, mentre mancherebbe una offerta di forza lavoro pertinente10.

La riforma interviene ancora sulla possibilità di assunzione che sarebbe incrementata dalla maggiore flessibilità in uscita: il che equivale a offrire ai datori di lavoro un motivo per evitare il lavoro “nero” e costituire rapporti a tempo indeterminato, quindi non un elemento immediatamente utilizzabile per la crescita dell’attività d’impresa ovvero per l’incremento della produzione e dello scambio di beni e servizi.

Il saldo dell’operazione, comunque, al netto degli interventi concernenti gli incentivi alle assunzioni è pari a zero, nel senso che la riforma non sembra particolarmente efficace sul piano della creazione di posti di lavoro.

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Note

1 Cfr. A. De Luca Tamajo, L. Ventura (a cura di), Il diritto del lavoro nell’emergenza, Napoli 1979; F. Santoni, Rapporti speciali di lavoro, Torino, 1993; L. Castelvetri, Il diritto del lavoro delle origini, Milano, 1994; L. Mariucci, Le fonti del diritto del lavoro, Torino, 1988; T. Treu, Politiche del lavoro: insegnamenti di un decennio, Bologna, 2001.

2 Sul punto v. R. Scognamiglio, Intorno alla storicità del diritto del lavoro, RIDL, 2006, 4, 375 ss.

3 R. De Luca Tamajo, L. Ventura, Il diritto del lavoro nell’emergenza, cit.

4 Testo reperibile in http://documenti.camera.it/leg16/dossier/testi/CL162.htm

5 C. cost. 17 marzo 2006, n. 116, FI, Rep. 2006, voce Agricoltura, n. 41 e anche in GCost, 2006, 1099, con nota di Manfrellotti.

6 C. Stato, ad. plen., 4 maggio 2012, richiamata nella relazione ma non reperibile in banca dati.

7 Di chi è orientato al “fare” a tutti i costi, secondo la critica particolarmente stringente di F. Carinci, Complimenti Dottor Frankenstein, cit., 4 ss.

8 Vedi L. Zoppoli, La riforma del mercato del lavoro, cit., dattiloscritto, 2 e 3, mentre per i riferimenti alle dinamiche salariali si rinvia a D. Checchi, Riforma del mercato del lavoro e disuguaglianza in Italia, cit., 8 ss.

9 Cfr. A. Del Boca, La disoccupazione, in G. J. Borjas, Economia del lavoro, ed. italiana a cura di A. Del Boca, D. Del Boca, L. Cappellari, A. Venturini, cit., 422 ss.

10 Cfr. P. Ichino, La riforma dei licenziamenti e i diritti fondamentali dei lavoratori, cit., 3 ss.

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