di Paola Calò

Dal 3 giugno, con la riapertura della mobilità senza obbligo di quarantena per chi arriva da altre regioni, siamo liberi. Sulla scia della polemiche per il ritorno delle notti della movida, si abbattono i confini, e l’Italia riprende a incontrare, a consumare, a viaggiare. Qualche esperto è rimasto, a ricordare possibili nuove ondate del virus, a raccomandarci di andar cauti, ma i più puntano sul fatto che non abbiamo molte informazioni sulla possibile evoluzione della pandemia.

Eppure. Eppure non siamo del tutto convinti, le città, passato l’entusiasmo iniziale, sono piene solo a metà, gran parte dei negozi sono chiusi, per strada gli sguardi sono timorosi, fai fatica a riconoscere e a riconoscerti. E non solo per colpa delle mascherine. Il tuo cocktail preferito ha sempre lo stesso sapore ma il rito no, ti senti impacciato, saremo troppi qui dentro, c’è la security fuori, chissà quanto è distante un metro. Forse era meglio stare a casa.

È la sindrome della capanna, dicono gli addetti ai lavori. Una sindrome che, secondo Massimo di Giannantonio ed Enrico Zanalda, Presidenti della Società Italiana di Psichiatria, ha interessato nel dopo lockdown circa un milione di Italiani, in difficoltà per la paura di lasciare il guscio protettivo della propria casa, aprirsi di nuovo all’esterno, confrontarsi con la vita precedente. Che, ai giorni nostri, prende anche le forme del timore del contagio, di abbassare la guardia, di vanificare gli sforzi finora fatti, di rompere un equilibrio faticosamente conquistato dopo i mesi di distanziamento fisico prescritto.

Una review recente della letteratura, pubblicata su Lancet sulle conseguenze psicologiche della quarantena e dell’isolamento prolungato, ha riportato sintomi post-traumatici da stress, confusione e paura (1). In inglese è la cabin fever, termine non scientifico usato per la prima volta nei primi anni dell’800, durante le epidemie di tifo. Che è passato poi a descrivere, nel 1900 nell’America del Nord, la sindrome che colpiva i cercatori d’oro, costretti a trascorrere dei mesi interi in luoghi isolati e che sperimentavano, al rientro nella civiltà, sentimenti negativi come letargia, irritabilità, frustrazione, irrequietezza, noia e rabbia. E studiato a metà degli anni ’50 dai ricercatori della NASA, per preservare la salute psichica gli astronauti dalla pressione combinata di un lavoro stressante e un isolamento prolungato.

Sicuramente psichiatri e psicologici, che rispetto alle altre categorie sanitarie sembravano inizialmente ai margini dell’emergenza epidemiologica, di fatto in questo momento storico si trovano ad affrontare le ricadute sulla popolazione di un evento epocale che ha investito tutta la popolazione, con un impatto e modalità diversi a seconda dell’età, del ruolo, della condizione abitativa, ma che non ha risparmiato nessuno. Interessando chi ha lavorato, per il rischio di esposizione al contagio o la necessità di adeguarsi rapidamente alle nuove tecnologie, e chi non ha potuto, per le preoccupazioni economiche che ne sono derivate. Chi ha figli, per i problemi legati all’incertezza per il futuro, alla coabitazione in spazi ristretti, alla necessità di supportare i più piccoli, e chi si è trovato da solo. Chi vive nei grandi centri urbani e chi vive in periferia. Chi si è trovato nelle aree maggiormente toccate dal contagio e chi in quelle in cui la sanità era da anni abbandonata e precaria. Chi ha cercato di mantenere il ritmo di sempre, grazie alla tecnologia e restando iperconnesso, e chi non poteva, o non sapeva, tenere il passo. Tra videoparty, videolezioni, videoconsulti e videocommiati, tutti noi abbiamo sperimentato forzatamente nuovi modi di celebrare le ricorrenze, di frequentare gli amici, di partecipare a una sessione di fitness, di assistere a una lezione, di chiedere un parere medico, di accompagnare i nostri cari alla morte.

Tra tutto, tra tutti, si muovevano, invisibili, il virus e l’angoscia. Con un impatto sulla popolazione solo in parte finora chiarito, aggravato dall’incognita legata alla durata dell’isolamento.

In Italia, come già in altri scenari internazionali e nazionali, tristemente colpiti dall’epidemia, sono stati messi a punto interventi psicologici per l’emergenza sanitaria, per lo più tramite help-line dedicate ai pazienti in quarantena, agli operatori sanitari, a coloro che avevano sperimentato uno o più lutti in famiglia, alla popolazione che aveva modificato del tutto stili di vita, di lavoro e di relazione.

L’ossessione per il contagio, il timore del contatto fisico, casuale o necessario, la trasmissione del virus con modalità poco conosciute, alimentato da una comunicazione mediatica non sempre lineare e corretta, il grande mistero degli asintomatici, dei paucisintomatici, dei sintomatici per altre cause, hanno amplificato enormemente la paura, che in qualche caso, ha travalicato gli argini della ragione: è il caso dello studente di Messina che ha ucciso la compagna per timore di aver contratto l’infezione.

Un impatto che, in modo particolare, ha riguardato le persone più fragili e più a rischio; uno studio di un gruppo di ricercatori italiani (2) ha evidenziato che coloro che soffrono di un disturbo psichiatrico, anche di entità non grave, hanno un più elevato livello di stress legato all’infezione da Covid, e una probabilità più alta di sviluppare sintomi ansiosi e depressivi di una certa gravità.

Per ognuno, il lockdown ha comportato la perdita di certezze e abitudini acquisite negli anni. La quarantena, prolungatasi per due mesi, ha visto susseguirsi stressor diverse nelle diverse fasi. Con necessità di strategie di coping differenti. Hans Selye (3), medico austriaco, aveva ben descritto queste reazioni nella Teoria Generale dello Stress: come in tutti i processi di adattamento, dalla fase di allarme, preoccupazione e timore della perdita (economica, affettiva, relazionale) si è passati all’accettazione di quanto accadeva e delle restrizioni imposte, ai canti dai balconi, alla nascita dei nuovi eroi, alla riconquista di riti familiari. Quante volte abbiamo usato la parola «resilienza»?

Dopo la disperazione e la preoccupazione iniziale, abbiamo cominciato a liberarci dalle sovrastrutture, dai legami non desiderati, dalle regole sociali che informano continuamente la nostra esistenza. Congratulandoci con noi stessi per quelle capacità che non pensavamo di avere, per quelle qualità che inaspettatamente avevamo trovato in noi, senza il bisogno che ci fossero restituite da una socializzazione spesso forzata, o che si esibissero palcoscenico del nostro status.

Abbiamo riscoperto i limiti della società che erano poi i nostri limiti, e cominciato a guardare all’interno di noi, all’interno delle nostre case, come si guarda a un amore di gioventù che pensavamo sbiadito. Gli esperti hanno fornito consigli: non rinunciare alle abitudini, rimanere in contatto con l’esterno, mantenersi fisicamente attivi, bilanciare il rispetto degli spazi altrui e la condivisione con i conviventi, guardare al distanziamento come a un’opportunità e non un ostacolo. Mettere in atto un distanziamento fisico che non deve significare sociale, come giustamente ha precisato Francesco Sabatini, presidente emerito dell’Accademia della Crusca.

Con la fase della resistenza, al netto di tutti i danni, la necessità di una distanza di sicurezza interpersonale ha consentito di apprezzare un nuovo modo di vivere e di staccare da una sorta di pressione sociale che in fin dei conti lasciava sfiniti e insoddisfatti. Pian piano abbiamo cambiato priorità e certezze, apprezzato il tempo risparmiato per spostamenti non necessari, imparato una nuova grammatica, più sintetica ed essenziale, della comunicazione, del lavoro, delle riunioni, delle conferenze.

È la sensazione che siano terminate le riserve energetiche, e si stia bene in casa, seguendo il ritmo del tempo soggettivo; la capanna garantisce un torpore benefico e rilassante. È la sospensione del giudizio d’esistenza delle cose, che obbedisce alla preoccupazione di servirsi di esse.

Il virus, nemico comune, restituiva un senso al nostro rimanere a casa, che era quello di difesa di sé ma anche di protezione della comunità: ognuno sentiva, attraverso l’adeguamento a delle semplici prescrizioni, di poter fare la propria parte, di essere parte del processo di cura. Non ci sono ancora vaccini, non sono ottimizzate le terapie. La cura siamo noi.

Questa riduzione del contatto con l’altro creava meno competizione, meno angoscia, meno nemici; come alcuni nostri pazienti, abituati a evitare i contatti sociali, che hanno vissuto come protettiva la dimensione in cui il contatto/confronto con l’altro sono banditi.

La mancanza di competitività, l’annullamento dell’aggressività, il vedere l’altro come fratello ha ingenerato una serie di azioni virtuose e generose inaspettate; ne usciremo cambiati, ci dicevamo.

Infine, è sopraggiunto l’esaurimento psico-fisico; attutite le difese, cessate le posizioni enfatiche e l’affaccendamento iniziali, terminate le riserve emotive che ci consentivano di convivere con il virus, la fine del lockdown ci ha autorizzato a tornare alla vita di tutti i giorni.

La sindrome della capanna coincide, temporalmente, con la possibilità di uscire dalla camera di decompressione che l’epidemia ci aveva concesso. Con la necessità di abbandonare l’area sicura che avevamo individuato.

Torniamo alla vita, dicevamo, ma come? Con ansia, mancanza di energia e di entusiasmo, motivazione ridotta, insoddisfazione, esitazione, timore. È un contrasto stridente con chi invece morde il freno, un’ansia che può prendere le forme del senso di incertezza su dove si possa annidare il virus, o del distacco emotivo dal resto del mondo. Che impone di risintonizzarsi gradualmente in maniera empatica con il prossimo, di riequilibrare il proprio ritmo attraverso nuovi codici di comportamento. Che spesso si traduce in ansia di prestazione, timore di non essere (più) all’altezza, paura di dover recuperare quello che si doveva, ma non si poteva fare, in mancanza di regole chiare su procedure, distanziamento, possibilità, rischio.

Con il fantasma che un evento inedito, impensabile se non in una realtà distopica, non sia archiviato, e possa ripresentarsi.

Da qui prende forma la depressione, che nasce dalle aspettative disilluse, dalle rassicurazioni insoddisfatte. Oppure si rinforza la paura, con aspetti di tipo fobici legati alla necessità di controllo delle preoccupazioni e dell’incertezza, e con il timore per la propria salute, fisica e psichica, in particolare nelle persone vulnerabili.

Sono attacchi di panico, ansia e depressione post-traumatici, soprattutto nei soggetti più fragili, negli anziani, in coloro che hanno sperimentato perdite affettive ed economiche, che tornano ad affollare gli ambulatori psichiatrici e psicologici.

E si impone la rabbia, che origina dal contrasto sociale che l’emergenza aveva sfumato e che torna a evidenziarsi nella sua drammaticità, e a cercare un capro espiatorio (il giovane che esce per l’aperitivo, il vacanziero che viene dal Nord): che può essere diretta verso se stessi, verso la famiglia, verso l’organizzazione che impone limiti.

Molte associazioni e società scientifiche hanno posto l’accento sulla violenza domestica, sui suicidi, sulle manifestazioni di rabbia sociale. O sul consumo di alcool e sostanze, usati per controllare l’ansia, attutire la depressione, moderare la rabbia, creando i presupposti del malessere futuro. Ma dobbiamo guardare al futuro con ottimismo e fiducia.

È cambiata la visione della cura, che ha caratterizzato la sanità negli ultimi anni, che vedeva il luogo privilegiato del trattamento specialistico nell’ospedale, e che ha creato i grandi colossi sanitari. Mentre la nuova epidemia ha impresso un nuovo impulso alla medicina territoriale.

Rarefattosi l’intervento del privato nella sanità, le regole del distanziamento rimandano alla necessità di recuperare la dimensione domestica del proprio spazio rispetto a quella del contatto con l’altro.

L’ospedale marca ancora di più la solitudine, la casa crea il necessario distanziamento e consente il recupero dalla malattia, circondato dai propri affetti.

È cambiata la percezione di noi e del nostro senso di comunità; abbiamo imparato a proteggerci.

È cambiata la fiducia nei giovani, non solo perché a rischio inferiore di contrarre il virus, ma perché maggiormente adattabili alle regole, più abili nell’uso delle tecnologie utili, più resilienti.

Abbiamo imparato delle grandi lezioni, dall’emergenza.

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Bibliografia

  1. Brooks SK, Webster RK, Smith LE, Woodland L, Wessely S, Greenberg N, Rubin GJ. The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence. Lancet 2020; 395: 912–20.

  2. Iasevoli F, Fornaro M, D’Urso G, Galletta D, Casella C, Paternoster M, et al. Psychological distress in serious mental illness patients during the COVID-19 outbreak and one-month mass quarantine in Italy, Psychological medicine; 2020:1-6.

  3. Selye, H. The stress of life. McGraw-Hill, 1956.

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