di Anastasia Palma

Uno degli istituti più affascinanti del mondo giuridico, ad avviso di chi scrive, è l’elemento accidentale della condizione apponibile al negozio. Atto puramente volontario, espressione dell’autonomia privata, che conferisce al negozio nel quale venga recepita una configurazione prismatica, frutto di una evoluzione storica risalente al pensiero giuridico romano, arricchito poi dalla riflessione canonistica, per giungere – attraverso l’elaborazione della pandettistica tedesca incentrata sul dogma della volontà – all’attenzione della dottrina italiana del novecento, che ne ha esaltato le caratteristiche strutturali e funzionali elaborando la teoria della “fattispecie complessa a formazione successiva”. Teoria dottrinale che sorregge la codificazione del 1942, i cui enunciati normativi sono tutt’ora in vigore (artt. 1353 e seguenti c.c.), che ne ha fatto confluire la disciplina nell’ambito del contratto in generale. Anche sul piano semantico l’orientamento del legislatore del codice è inequivocabilmente calibrato su tale teoria: la rubrica dell’art. 1353 si intitola “contratto condizionale” con chiara trasposizione dal concetto di negozio che il legislatore italiano, a differenza di quello tedesco, ha ritenuto di non codificare, rimandando alla figura del contratto la regolamentazione generale degli atti negoziali.

L’istituto della condicio nasce e si sviluppa nel diritto giustinianeo. In esso, la condizione è essenzialmente condizione sospensiva: la condizione risolutiva non è altro che una particolare condizione sospensiva, apposta ad un patto accessorio (pactum adiectum) diretto a risolvere il contratto. Nel diritto intermedio, la condizione viene per la prima volta classificata, nell’ambito di una partizione degli elementi negoziali di derivazione scolastica e aristotelica, tra gli accidentalia del negozio, in contrapposizione agli essentialia.

Al pari del dies e del modus, costituisce un elemento accessorio e accidentale, che le parti possono aggiungere al contenuto del negozio, perfettamente coerente con la teoria generale del negozio giuridico (Rechtsgeschaft), elaborata dalla pandettistica tedesca del secolo scorso nell’ambito di una corrente di pensiero di derivazione individualistica ed idealistica, che attribuisce un ruolo decisivo alla volontà creatrice dello spirito umano. La norma giuridica concepita quale comando, il diritto soggettivo quale potere della volontà, ed il negozio giuridico quale dichiarazione di volontà, costituiscono i presupposti logico-giuridici che fanno assurgere la volontà a fonte diretta di effetti giuridici, sia pure attraverso una mediazione dell’ordinamento, il cui comando assiste il privato con l’imposizione della sanzione dovuta all’inosservanza della regola negoziale.

In tale ottica, la dottrina pandettistica si affannò a trovare giustificazione al dilemma della volontà condizionata – dilemma rappresentato dal fatto che, avendosi riguardo al momento psicologico del volere, questo non può che essere per sua natura attuale e incondizionato, trasformandosi diversamente in un non volere – mediante variegate elaborazioni dogmatiche disattese dal legislatore italiano e dunque inattuali, sulle quali pertanto non ci si sofferma.

Un decisivo passo avanti nello sviluppo della teoria della condizione, sganciandola da questioni attinenti alla volontà, è stato effettuato ponendo l’attenzione sul progressivo realizzarsi della fattispecie complessa rappresentata dal negozio condizionale. Un notevole contributo in tal senso, nell’ambito della dottrina italiana, è stato compiuto con il mutamento della prospettiva di studio del negozio sottoposto a condizione, rispetto alle concezioni di derivazione pandettistica, elaborando la figura della fattispecie a formazione progressiva (cfr. D. RUBINO, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Milano, 1939, ristampato da Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1978).

In questa autorevole impostazione concettuale, la manifestazione di volontà non è che il primo elemento della fattispecie produttiva degli effetti, il cui elemento conclusivo è costituito dall’evento condizionante. Il negozio condizionale, nella fase di pendenza, si ritiene produrre i c.d. effetti giuridici preliminari, individuati principalmente nel vincolo di irrevocabilità e nell’obbligo di non impedire il completamento della fattispecie. Tali effetti sarebbero quindi caratterizzati da una funzione mediata, consistente nell’assicurare la produzione degli effetti definitivi. Il negozio condizionale, in base a tale teoria, è quindi una fattispecie parziale produttiva di soli effetti preliminari; alla fattispecie complessiva, comprensiva dell’evento condizionante, si ricollegano invece gli effetti finali. L’elemento psicologico della volontà non è dunque più in primo piano.

Con altra non meno autorevole impostazione dottrinale (A. FALZEA, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Giuffrè, Milano, 1941) l’analisi strutturale della fattispecie complessa riceve ulteriore impulso attraverso l’originale ricostruzione della figura della fattispecie a formazione successiva, alla cui costituzione concorrono fattispecie parziali e più elementari.

Con particolare riferimento all’ipotesi in cui una delle fattispecie parziali costituenti la fattispecie complessa sia un negozio giuridico, si distingue, nell’ambito del ciclo di formazione della stessa, un ciclo formativo interno, relativo al negozio ed esaurientesi con il venire ad esistenza degli essentialia caratteristici del nomen iuris, ed un ciclo formativo esterno, riguardante quegli ulteriori elementi (definiti “coelementi”), posti all’esterno della fattispecie negoziale in senso stretto, che influiscono unicamente sul prodursi degli effetti, ma non sulla perfezione e validità del negozio, né sul contenuto degli effetti. Tutti i “coelementi” di efficacia, sono quindi caratterizzati da estrinsecità strutturale, intesa quale estraneità al ciclo formativo interno della fattispecie negoziale ed alla determinazione del contenuto degli effetti e del programma.

Nell’ambito dei coelementi di efficacia, l’illustre Autore effettua una distinzione tra coelementi necessari (indispensabili cioè per determinare la struttura dell’effetto, in quanto costituiti da eventi che individuano o determinano il venire ad esistenza del soggetto o dell’oggetto, e altrimenti denominati fonti di qualificazione, soggettiva o oggettiva, dell’effetto giuridico) e coelementi accidentali. Questi ultimi sono non essenziali alla struttura dell’effetto ed indifferenti rispetto al contenuto dello stesso, la cui accidentalità si misura con la c.d. prova di resistenza, ossia estrapolando il contenuto accidentale dal contesto negoziale tipico e astratto, e verificandone in tal modo la provenienza da un punto di vista logico. Il coelemento accidentale è per l’appunto la condizione sospensiva, suddivisa nelle due specie di condizione volontaria e condizione legale, a seconda che la subordinazione dell’evento sia prevista dalle parti o dalla legge. Questo coelemento funge da concausa degli effetti del negozio, concorrendo a formare la fattispecie complessa di cui si è detto, e determinando non il contenuto, ma il se e il quando degli effetti negoziali.

Tale analisi si accompagna ad una penetrante indagine volta ad individuare gli interessi effettivamente tutelati con il meccanismo condizionale. Il dato comune alle due specie di condizione, volontaria e legale, è rintracciato nella tutela di un piano di interessi esterno, rispetto al piano degli interessi tipicamente tutelati con il negozio. La tutela del piano di interessi esterno accomuna dunque la condizione volontaria e quella legale (quest’ultima si differenzia dalla prima in base al fatto che gli interessi esterni non appartengono alle stesse parti del negozio, bensì a soggetti terzi, ovvero si collocano su un piano generale, che postula un intervento del legislatore diretto alla regolazione dell’efficacia negoziale). Esso ha la funzione di contrapporre la condizione ai coelementi necessari di efficacia, il cui verificarsi, individuando il soggetto o l’oggetto della fattispecie e quindi quegli effetti, determina la realizzazione dell’interesse interno negoziale.

La geniale ricostruzione di Falzea, in cui il profilo dell’estrinsecità strutturale della condizione, e quindi l’estraneità della stessa al ciclo formativo interno del negozio e alla determinazione del contenuto del programma e dei suoi effetti, ha trovato conferma con l’emanazione del codice civile del 1942, e precisamente nella disposizione dell’art. 1353 a norma del quale con la condizione vengono subordinate l’efficacia o la risoluzione, e non la perfezione o l’esistenza del negozio, né la qualità degli effetti. Il tutto con la mutazione semantica, che si è già ricordata, frutto della scelta del legislatore di non codificare il negozio giuridico, per cui la figura codicistica che ne risulta è quella del “contratto condizionale”.

Doverosamente adeguandosi al linguaggio del codice civile, va osservato che, rientrando negli elementi c.d. accidentali del contratto e non in quelli c.d. essenziali [rectius: requisiti] – la cui mancanza determina una nullità c.d. strutturale ai sensi dell’art. 1418, co. 2, c.c., e in assenza dei quali il contratto non può sorgere validamente – una compiuta definizione si ritrova nell’art. 1353 c.c., secondo cui <<La condizione è una disposizione che fa dipendere l’efficacia o la risoluzione del contratto dal verificarsi di un evento futuro e incerto>>.

Tale meccanismo consente alle parti di ampliare gli spazi della loro autonomia, potendo ricollegare a questo o a quell’evento gli obblighi che ritengono opportuni. Dunque, gli elementi accidentali sono quelli che, in virtù del potere riconosciuto dall’art. 1322 c.c., le parti sono libere di apporre o meno, in quanto la loro presenza non è fondamentale ai fini dell’esistenza del contratto, ma se apposti acquistano piena efficacia nella struttura e nella funzione dell’atto negoziale.

La condizione che sospende l’efficacia del contratto detta <<sospensiva>>, a differenza di quella che ne prevede un’eventuale risoluzione, detta <<risolutiva>>, impedisce la produzione degli effetti del contratto stesso, rendendolo inefficace in pendenza della condizione. Avveratasi la condizione, esso acquisterà efficacia ex tunc anche con riguardo ai terzi (c.d. retroattività reale della condizione). Nell’ipotesi contraria, mancando l’avveramento della condizione, il contratto perderà ogni effetto con riguardo al futuro, mentre relativamente al passato verrà meno il vincolo per i contraenti.

La condizione risolutiva, al contrario, non sospende gli effetti del contratto che sono immediati, ma si tratta di un’efficacia provvisoria che può venir meno nel caso in cui si realizzi l’evento dedotto in condizione. In questa evenienza, tra le parti e i terzi verrà ripristinata la situazione anteriore alla conclusione del contratto stesso.

Ulteriori differenze vanno tracciate sottolineando che, nel sistema codificato, la condizione può essere legale o volontaria a seconda che essa sia posta dalle parti o dalla legge. La condizione volontaria si configura come una clausola che rientra nel contenuto dell’accordo ed è qualificabile come elemento accidentale, poiché non è inserita nei suoi elementi costitutivi e non attiene alla perfezione del contratto. Ovviamente vi è una libertà delle parti circa la possibilità di sottoporre il contratto a condizione, fermo restando che è la legge ad escludere taluni negozi, come ad esempio quelli familiari, dalla sottoponibilità a condizione.

Ulteriore differenza rileva sul piano del “fatto dedotto in condizione”, distinguendo a seconda che l’evento dipenda o meno dalla volontà della parte. Nel primo caso si parla di condizione potestativa, nel secondo caso si delinea la condizione casuale, ma è inoltre possibile che venga apposta una condizione mista che inglobi entrambi i caratteri. In particolar modo è potestativa la condizione il cui avverarsi, o meno, dipende da un fatto proprio di uno dei contraenti. Casuale è invece quella che consiste in un evento fortuito che obbedisce a leggi sue proprie nel senso che le parti non hanno alcuna possibilità di farlo verificare o impedirlo. Mista è la condizione che dipende, ad un tempo, dalla volontà di uno dei contraenti o di un terzo, o dal caso.

Particolare attenzione va posta alle differenze tra condizione “potestativa semplice” e “condizione meramente potestativa”.

Quanto alla condizione potestativa, l’art. 1355 c.c. ne evidenzia una sorta di sottospecie dichiarandola implicitamente nulla, facendone dipendere anche la nullità del contratto o della singola clausola cui la condizione sia apposta: si tratta della condizione sospensiva meramente potestativa. In questo caso la sorte del contratto, o della clausola, dipende dal mero arbitrio dell’alienante o del debitore (non del creditore) e non da un evento esterno come è proprio della condizione potestativa semplice. Nella condizione meramente potestativa l’evento in essa dedotto consiste in un fatto volontario delle parti. L’atto dedotto in condizione è un atto di pura volontà.

La condizione sospensiva meramente potestativa, se risponde ad un concreto intento negoziale, si traduce in diritto di opzione poiché la riserva di esprimere la volontà in ordine all’efficacia del contratto significa che la parte si riserva il diritto di accettare la dichiarazione dell’altra. La condizione risolutiva meramente potestativa, invece, non sarebbe concepita come una vera e propria condizione, ma come un potere di recesso o di revoca. Essa costituirebbe una clausola attributiva di diritto di recesso (ad esempio: concludo un contratto di locazione ma lo potrò risolvere se vorrò). La giurisprudenza considera valida tale clausola sulla base dell’art. 1355 c.c. e rileva la differenza con il recesso proprio sul fatto che l’avverarsi della condizione risolutiva agisca retroattivamente.

La condizione è bilaterale quando è apposta nell’interesse di entrambe le parti, unilaterale ove apposta nell’interesse di una sola parte. Le parti, nella loro autonomia contrattuale, possono pattuire una condizione sospensiva o risolutiva nell’esclusivo interesse di uno soltanto dei contraenti occorrendo una espressa clausola o una serie di elementi, in grado di indurre il convincimento che si tratti di una condizione alla quale l’altra parte non abbia alcun interesse. La parte, nel cui interesse è posta la condizione, ha la facoltà di rinunziarvi sia prima, sia dopo, sia in seguito all’avveramento o non avveramento di essa, senza che la controparte possa ostacolarne la volontà. Il potere contrattuale che l’art. 1322 c.c. riconosce alla parti, consente inoltre la possibilità di apporre la condizione nell’esclusivo interesse di una di esse, configurandosi in tal caso la c.d. condizione unilaterale.

Ulteriore distinguo va operato fra condicio facti (condizione volontaria) e condicio juris (condizione legale), ossia quella posta direttamente dalla legge e non per volontà delle parti. Al pari della condizione volontaria essa può essere prevista come risolutiva o sospensiva. La condizione legale sospensiva si inserisce nei requisiti di efficacia del contratto che possono essere futuri (condizioni) o presenti (presupposti).

Il suo fondamento trova espressione nella tutela di un interesse di portata generale e quindi esterno al contratto, configurandosi come elemento essenziale dello stesso. Ad essa si considera applicabile la disciplina prevista per la condizione volontaria ritenendosi possibile una certa coincidenza, salvo opportuni adeguamenti e deroghe appropriate alla funzione dei requisiti normativi di efficacia. Nell’ipotesi di condizione legale il contratto è vincolante per ciascuna parte e poiché essa è inerente all’efficacia del contratto, la sua mancanza definitiva determinerà la risoluzione dello stesso (il contratto non sarà invalido ma semplicemente non idoneo ad esplicare l’effetto collegato alla condizione).

L’art. 1354 c.c. sancisce che << E’ nullo il contratto al quale è apposta una condizione sospensiva o risolutiva, contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. La condizione rende nullo il contratto se è sospensiva (1347) ; se invece è risolutiva, si ha come non apposta.>> Poiché l’evento dedotto in condizione deve essere incerto, altresì deve essere anche possibile. Un’eventuale impossibilità del verificarsi dell’evento preclude la stessa possibilità di sussistenza del contratto condizionato. Nell’ipotesi di condizione sospensiva la sua impossibilità determina la definitiva inefficacia del contratto. Nel caso di condizione risolutiva essa si considera come non apposta, non essendo in grado di incidere sull’efficacia contrattuale.

Il concetto di impossibilità, non deve essere inteso con riferimento all’impossibilità di esecuzione del contratto, poiché essa non ha riguardo alla misura dell’impegno del contraente. Essa, deve essere piuttosto concepita come la sussistenza di un impedimento di fatto o di diritto che concretizza la certezza della non realizzazione dell’evento in base ad un giudizio di ragionevolezza. L’impossibilità, che può essere naturale o giuridica, deve essere piuttosto distinta rispetto alla illiceità della condizione che si configura quando essa sia contraria a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume. L’abusivo condizionamento della persona del contraente si verifica dunque nell’ipotesi in cui la condizione costituisca un mezzo di coercizione del soggetto, in grado di ledere i suoi interessi essenziali.

Il profilo dell’illiceità può inoltre riflettere l’illiceità del fatto da cui dipende l’efficacia contrattuale. Ovviamente, essa può configurarsi nell’ipotesi in cui si assuma quale presupposto di un effetto favorevole per l’autore del fatto. Nell’ipotesi in cui, invece, l’inefficacia del contratto costituisca una sanzione per il contraente colpevole dell’illecito, la condizione deve ritenersi lecita. Una eventuale illiceità del contratto renderà, a differenza dell’impossibilità, nullo il contratto, anche nell’ipotesi di condizione risolutiva. Dunque, la condizione illecita rende nulla la promessa e ciò risponde ai princìpi generali. Quindi oltre ad essere futuro e incerto, l’evento dedotto in condizione deve essere possibile e lecito.

L’art. 1354 c.c. sotto la rubrica <<condizioni illecite e impossibile>> contempla entrambe le ipotesi, anche se occorre precisare come tale norma non esaurisce l’ambito delle previsioni codicistiche che si possono applicare ai casi di illiceità della condizione. Durante il periodo di pendenza della condizione che va dalla conclusione del contratto fino a quando l’evento, pur non verificandosi, si può ancora verificare, il contratto, anche se condizionato, non è privo di effetti poiché esso determina una situazione soggettiva della quale l’interessato può disporre e per la quale può reclamare un’apposita tutela giurisdizionale. Il richiamo è quindi agli artt. 1356 e 1357 cc..

L’art. 1356 c.c. stabilisce che in pendenza della condizione sospensiva l’acquirente di un diritto può compiere atti conservativi mentre in caso di condizione risolutiva lo stesso potere spetta all’alienante a fronte al diritto dell’acquirente di esercitare il diritto. Le parti si trovano, quindi, in una situazione di aspettativa che è concepita come fonte di effetti preliminari discendenti secondo taluni direttamente dalla legge, secondo altri dalla stessa volontà dei contraenti. Nessun effetto collegato alla situazione finale può quindi verificarsi finché dura la fase di pendenza, ma la situazione di aspettativa di diritto è disponibile sia inter vivos sia mortis causa, cosicché chi acquista subentrerà nel rapporto condizionato (art. 1357 c.c.).

L’aspettativa di diritto può essere intesa come una pretesa alla conservazione degli effetti che derivano da una determinata fattispecie condizionale. Essa, viene tutelata nel nostro ordinamento tramite la possibilità di opporre ai terzi il relativo titolo di acquisto. Un’eventuale alienazione effettuata sotto condizione sospensiva non è dunque traslativa del diritto, in quanto l’acquirente è tutelato nella sua aspettativa, nel senso che, una volta avverata la condizione, il suo acquisto prevarrà su atti di disposizione effettuati dall’alienante nella fase di pendenza della condizione. Ovviamente l’opponibilità è subordinata ai normali requisiti previsti per l’opponibilità del contratto. Quindi in virtù del principio di conservazione degli effetti si può trarre la conclusione che gli atti di disposizione del titolare dell’aspettativa sono opponibili ai terzi aventi causa dell’alienante. A tal proposito, l’art. 1357 c.c., nel disciplinare gli atti di disposizione in pendenza della condizione sancisce che <<Chi ha un diritto subordinato a condizione sospensiva o risolutiva può disporre in pendenza di questa; ma gli effetti di ogni atto di disposizione sono subordinati alla stessa condizione>>. La stessa regola è prevista per il titolare del diritto sottoposto a condizione risolutiva. Nella fase di pendenza della condizione, il titolare può esercitare il suo diritto e compiere gli atti di amministrazione. Gli atti di disposizione resteranno travolti se la condizione si avvera. Ne discende che un’aspettativa giuridicamente tutelata è riscontrabile in capo all’altro contraente relativamente al riacquisto del diritto. Colui che aliena un diritto sotto condizione risolutiva è infatti tutelato in ordine al riacquisto del diritto nell’ipotesi di avveramento della condizione, poiché il suo titolo prevarrà sugli atti dispositivi dell’acquirente. Proprio la possibilità di compiere atti conservativi ribadisce l’importanza dell’aspettativa nascente dal contratto condizionato quale posizione giuridica tutelata. Nello specifico, il compimento di atti conservativi si rinviene nella possibilità di ottenere provvedimenti giudiziari cautelativi, ossia l’imposizione di una cauzione oppure la concessione di un sequestro conservativo. Ciò poiché la condizione è una clausola contrattuale, e come tale è rimessa ai contraenti la previsione di opportune garanzie. Una cautela giudiziaria deve essere considerarsi limitata alle ipotesi in cui sopraggiunga una situazione di pericolo che induca fortemente a ritenere che la parte non possa conseguire o recuperare il proprio diritto.

Gli atti conservativi abbracciano un ampio ventaglio di possibilità, avendo riguardo non solo alla conservazione materiale e giuridica dell’oggetto della prestazione, ma anche alla conservazione delle condizioni che rendono possibile l’adempimento. Si considerano atti conservativi il sequestro giudiziario (art. 670 c.p.c.), il sequestro conservativo (artt. 2905 c.c. e 671 c.p.c.), l’azione di apposizione di sigilli (art. 753 c.p.c). Inoltre si annoverano anche la possibilità di agire con l’azione revocatoria, l’azione di denuncia di nuova opera e di danno temuto (artt. 1171-1172 c.c.) e l’azione surrogatoria (art. 2900). Infine si annoverano le azioni possessorie, qualora il proprietario interinale resti inerte (art.1168 c.c.), il diritto di separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede (artt. 484 ss.), il diritto di intervenire nelle espropriazioni immobiliari, ma non in quelle mobiliari (art. 563 co. 1 c.p.c.), l’ammissione alle procedure concorsuali. Sonno ammesse infine anche misure cautelari atipiche. Le parti possono stabilirle concordando comportamenti, nell’ambito della loro autonomia privata, che vanno oltre la mera funzione conservativa del bene. Se al compimento degli atti conservativi non seguirà l’avveramento, chi ha agito dovrà risarcire il danno in base alle regole dettate per il sequestro.

L’art. 1358 c.c. dispone che <<Colui che si è obbligato sotto o che ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva o risolutiva, deve, in pendenza della condizione, comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte.>> In altri termini, chi ha assunto obbligazioni o ha alienato un diritto sotto condizione sospensiva, ovvero lo ha acquistato sotto condizione risolutiva, nella fase di pendenza della condizione è tenuto a comportarsi secondo buona fede. Si tratta di una applicazione della regola prevista dall’art. 1375 c.c. che comporta l’immediato risarcimento del danno ex contractu (sempre che la condizione non si avveri poi in seguito a circostanze obiettive e non imputabili al contraente inadempiente), nell’ipotesi in cui la parte non collabori con atti positivi finalizzati a favorire l’avveramento ovvero compie atti in grado di incidere negativamente sul futuro adempimento della prestazione. L’obbligo della buona fede grava quindi sulle parti del contratto e in tema di condizione può essere considerato come una specificazione di tale principio. Allo stesso modo delimita l’impegno della parte poiché un comportamento secondo buona fede è rapportato al fine di <<mantenere integre le ragioni dell’altra.>> Nello specifico, la parte non deve adoperarsi positivamente al fine di favorire l’avverarsi di una condizione disposta nell’interesse dell’altra. Piuttosto, la parte che ha la disponibilità del bene deve attivarsi allo scopo di preservare lo stesso in vista dell’aspettativa dell’altra. Tale obbligo deve intendersi operante nei limiti di un apprezzabile sacrificio e non richiede dunque la diligenza dovuta dal debitore ex art. 1176 c.c.. La violazione di tale obbligo comporta il risarcimento del danno solo nell’ipotesi in cui il bene risulti acquisito dalla parte lesa in modo definitivo. Quanto alla possibilità di ottenere la risoluzione del contratto essa è stata ammessa sulla base di quelle ipotesi in cui la violazione dell’obbligo giustifica l’interesse dell’altro contraente a non essere ulteriormente vincolato dal contratto.

L’art. 1359 c.c. dispone che <<La condizione si considera avverata qualora sia mancata per una causa imputabile alla parte che aveva un interesse contrario all’avveramento>>. Lo strumento della c.d. finzione di avveramento ricorre dunque ogni qualvolta la condizione sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva un interesse contrario, e non concorrente, all’avveramento stesso . Si realizza, in tal modo, sul piano giuridico, la stessa situazione che si sarebbe determinata in seguito all’avveramento. Ai fini dell’imputabilità è sufficiente la colpa, ma deve trattarsi di comportamenti positivi, salvo l’ipotesi in cui l’inerzia abbia violato specifici obblighi di agire discendenti dal contratto o dalla legge, compresa la buona fede (art. 1375 c.c.).

La parte, quindi, oltre a comportarsi secondo buona fede al fine di conservare integre le ragioni dell’altra, è soggetta ad un altro obbligo, ossia di non impedire l’avverarsi della condizione nel caso in cui abbia un interesse all’avveramento. Infatti, nel caso in cui la condizione diviene impossibile per causa imputabile alla parte, essa si considera avverata. Ciò nel senso che la legge sanziona il comportamento della parte facendo ugualmente produrre l’efficacia o la risoluzione del contratto collegate all’evento dedotto in condizione. Tale norma viene generalmente interpretata nel senso che rileva qualsiasi impedimento che possa essere imputato a dolo o colpa del contraente. Naturalmente, nel caso in cui l’evento impeditivo della condizione ha reso impossibile il contratto, il comportamento della parte determina il risarcimento del danno positivo. Nell’ipotesi di contratto condizionato, per l’operatività dell’art. 1359 c.c., in virtù del quale la condizione si considera avverata qualora sia mancata per una causa imputabile alla parte che aveva un interesse contrario al suo avveramento, è necessaria la sussistenza di una condotta dolosa o colposa di detta parte, non riscontrabile in un mero comportamento inattivo, salvo che questo costituisca violazione di un obbligo di agire imposto dalla legge. Ciò con particolare riferimento alle condizioni legali, il cui mancato avveramento determina la definitiva inefficacia del contratto, ma non preclude la responsabilità contrattuale della parte che colposamente o dolosamente vi abbia dato causa. La legge non contempla invece il caso inverso, ossia quello in cui la parte interessata alla condizione provoca l’avveramento di essa. In proposito è stata spesso sostenuta simmetria tra le due ipotesi, poiché mentre l’impedire del verificarsi della condizione impedisce il trasferimento del relativo diritto, (secondo che si tratti di condizione sospensiva o risolutiva), il provocare l’avveramento della stessa, viceversa, determina il trasferimento o il ritrasferimento. In condizione può essere dedotto qualsiasi evento o fatto volontario. Nel caso in cui il fatto volontario sia dedotto in condizione essa si configura come potestativa.

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