di Maurizio Ferrari

È costante nella giurisprudenza della Suprema Corte (ex multis v. sentenza della seconda sezione in data 20 febbraio 2020 n. 4451, in Foro it., 2020, I, 3618) l’affermazione del principio secondo cui non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo.

La costanza dell’affermazione, tuttavia, richiede di essere confrontata con la diversità delle fattispecie concrete delle decisioni nelle quali essa ha trovato occasione di essere ribadita, al fine di comprendere se il distinguo fra omessa pronuncia e rigetto implicito risponda ad un criterio ermeneutico fondato su basi normative oggettive o risulti in qualche modo un esercizio di giurisprudenza creativa.

Partendo dalla citata sentenza n. 4451 del 2020, si rileva che viene esaminato il caso di un preliminare di vendita di quote sociali a scopo transattivo, cui aveva dato esecuzione in forma specifica, ai sensi dell’art. 2932 c.c., il giudice di primo grado disponendo il trasferimento delle quote societarie e il pagamento del saldo-prezzo, nel contempo respingendo la domanda riconvenzionale proposta dal convenuto per la risoluzione del preliminare da eccessiva onerosità sopravvenuta, determinata dall’imprevedibile crollo dei valori immobiliari e dei livelli di redditività dell’azienda. Soccombente anche in appello, l’autore della domanda riconvenzionale ricorreva in Cassazione denunciando, tra l’altro un’omissione di pronuncia, per aver il giudice d’appello omesso di decidere sul capo di gravame inerente la clausola contrattuale che, a suo dire, evidenziava l’autonomia del preliminare di cessione delle quote rispetto alla parte transattiva del più ampio negozio che la contemplava.

Respingendo la censura, la Suprema corte ha stigmatizzato la circostanza per cui il ricorrente, nel denunciare un’omissione di pronuncia su un capo di gravame inerente la natura non transattiva del preliminare di cessione delle quote, avesse trascurato che il giudice d’appello aveva qualificato viceversa in senso transattivo l’intero negozio, ricavandone che non di omessa pronuncia si trattasse, bensì di rigetto implicito.

Con altra decisione (ordinanza 6 dicembre 2017 n. 29191, della sezione tributaria) la Corte ha ravvisato il rigetto implicito dell’eccezione di inammissibilità dell’appello nella sentenza che aveva valutato nel merito i motivi posti a fondamento del gravame. In tale fattispecie l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso avverso la sentenza d’appello confermativa di quella di primo grado, con cui la Commissione tributaria aveva accolto il ricorso del contribuente ritenendo nulla la cartella in quanto non preceduta da una valida notifica dell’atto prodromico. Il contribuente, a sua volta, ha proposto ricorso incidentale condizionato per avere la Commissione tributaria di secondo grado omesso di pronunciare sulla pregiudiziale eccezione di inammissibilità dell’appello in quanto non notificato anche al concessionario della riscossione, che era stato parte nel giudizio di primo grado. Secondo la Cassazione il rigetto da parte della Commissione tributaria regionale. del gravame proposto dall’Ufficio, all’esito dell’esame nel merito dei motivi che ne erano posti a fondamento, comporta di tutta evidenza l’implicito rigetto della eccezione di inammissibilità dello stesso.

Nella motivazione dell’ordinanza n. 29191 del 2017, la sezione tributaria si rifà ad altro precedente della prima sezione civile (sentenza 8 marzo 2007 n. 5351) che aveva ravvisato il rigetto implicito dell’eccezione di inammissibilità dell’appello nella decisione che, valutati nel merito i motivi posti a fondamento del gravame, li aveva accolti senza pronunciarsi sulla questione puramente processuale sollevata dalla parte appellata in ordine a presunti vizi della procura alle liti. Statuizione che a sua volta si era rifatta a Cass., sezione lavoro, 21 luglio 2006 n. 16788, secondo cui ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia. Nel caso di specie, riguardante una domanda di accertamento della sussistenza di un’ipotesi di frode alla legge con riguardo al divieto di interposizione di prestazioni di lavoro di cui all’art. 1 l. n. 1369 del 1960, finalizzato all’accesso ai benefici ex art. 8 l. n. 223 del 1991, con conseguente declaratoria di nullità dei relativi provvedimenti di messa in mobilità e dei successivi verbali di conciliazione individuali intervenuti, la Cassazione ha ritenuto che non fosse configurabile la violazione di cui all’art. 112 c.p.c., ravvisandosi nella sentenza impugnata una statuizione implicita sui capi di domanda di cui si era denunciato l’omesso esame, con l’affermazione dell’idoneità della transazione a precludere l’accertamento in ordine alla fondatezza delle pretese azionate dai lavoratori, pur pervenendo, tuttavia, all’annullamento con rinvio della stessa sotto altro profilo.

Cass. 13 agosto 2018 n. 20718 si è poi pronunciata nel senso che, spettando l’interpretazione della domanda al giudice del merito (sul punto, cfr. Cass. 22 giugno 2004 n. 11639; Cass. 21 febbraio 2006 n. 3702), ove questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda era stata avanzata ed era compresa nel thema decidendum, tale statuizione, ancorché erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione. Ritiene infatti la Corte che, avendo comunque il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione debba ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non sia logicamente verificabile prima di avere accertato che quella medesima motivazione è erronea. Non manca poi di stigmatizzare come ricorra il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (nel caso di specie, le doglianze dell’appellante principale sulla ritenuta violazione delle distanze dei balconi aggettanti si sono ritenute superate dall’accoglimento, nel merito, dell’appello incidentale riguardante la distanza dell’intero fabbricato).

La Corte nota che, per giurisprudenza costante, il vizio di omessa pronuncia è escluso quando la sentenza abbia assunto una decisione che comporti l’implicito rigetto della domanda od eccezione formulata dalla parte (cfr., tra le molte, Cass. 11 settembre 2015 n. 17956; Cass. 4 ottobre 2011 n. 20311), giacché diversamente da quanto dedotto dal ricorrente la sentenza impugnata non si è limitata al recepimento acritico delle conclusioni del c.t.u., ma ha chiarito che la parte non aveva fornito elementi per smentire la qualificazione dell’opera come “nuova costruzione”.

Ancora Cass. 4 giugno 2019 n. 15255 ha affermato che non ricorre il vizio di omessa pronuncia di una sentenza di appello quando, pur non essendovi un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, tuttavia la decisione adottata comporti necessariamente la reiezione di tale motivo, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto.

Si tratta di un arresto giurisprudenziale che, in motivazione, fa leva sul principio – innanzi già ricordato – in forza del quale l’interpretazione della domanda e delle eccezioni rientra nel compito del giudice di merito, il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere sindacato in Cassazione sotto il profilo del vizio di motivazione e non anche per il suo contenuto, naturalmente entro i limiti in cui il sindacato della motivazione è tuttora consentito, e cioè nell’ipotesi in cui essa non soddisfi il requisito del “minimo costituzionale” (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053). Principio che non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) trattandosi in tal caso della denuncia di un error in procedendo che attribuisce alla Corte di Cassazione il potere-dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e deduzioni delle parti (cfr. Cass. 10 ottobre 2014 n. 21421; Cass. 25 ottobre 2017 n. 25259). Essendo noto che la regola di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato comporta il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda di merito.

In giurisprudenza è stato più volte affermato che il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione, attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell’ambito del petitum, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall’attore, può essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (cfr. Cass. 19 giugno 2004 n. 11455; Cass. 6 ottobre 2005 n. 19475; Cass. 11 gennaio 2011 n. 455; Cass. 24 settembre 2015 n. 18868).

Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia, tuttavia, non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica, in particolare, quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione (Cass. 4 ottobre 2011 n. 20311; Cass. 20 settembre 2013 n. 21612; Cass. 11 settembre 2015 n. 17956).

La casistica esaminata consente di concludere che, se è pacifica in giurisprudenza l’affermazione del principio secondo cui non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo, non v’è altrettanta chiarezza nel delineare i contorni della fattispecie processuale della “statuizione implicita di rigetto”. Si tratta, a nostro modo di vedere, di una locuzione tralatiziamente recepita dalle sentenze succedutesi nel tempo, per altro riguardanti fattispecie concrete le più varie e dissimili, che sembra porsi più come un argine contenitivo del vizio censurabile in Cassazione che non come espressione semantica dal valore contenutistico univoco.

Se la categoria del “vizio di omessa pronuncia” trova riferimenti normativi precisi (fra n. 4 e n. 5 dell’art. 360, 1° comma, c.p.c.), la categoria del “rigetto implicito” è di creazione giurisprudenziale. Essa non può giovarsi di un enunciato legislativo che faccia da base all’opera dell’interprete, ma si affida puramente e semplicemente – verrebbe da dire sic et simpliciter – all’ermeneutica che, ben inteso, è scienza eccelsa ed insostituibile nella ricostruzione delle fattispecie giuridiche. Non di meno essa corre il rischio di dilagare in territori estranei all’intentio legis, quando manchi di un ancoraggio al dato normativo, oscillando fra autoreferenzialità e creazionismo (sul punto si vedano R. PARDOLESI e G. PINO, Post-diritto e giudice legislatore. Sulla creatività della giurisprudenza, in Foro it., 2017, V, 113).

Un esempio concreto di siffatto rischio ce lo offre sempre la giurisprudenza della Cassazione, allorché ha introdotto il principio giurisprudenziale innovativo secondo cui deve ritenersi formato un “giudicato implicito” sull’affermazione della giurisdizione da parte del giudice di primo grado, sicché alla parte vittoriosa nel merito in quel grado di giudizio, che non si sia premurata di proporre appello incidentale limitandosi a difendere le proprie ragioni nel merito, rimane precluso il ricorso in Cassazione avverso la sentenza di difetto di giurisdizione pronunciata dal giudice d’appello (per ampi riferimenti, v. Cass. 20 ottobre 2016 n. 21260, Foro it., 2017, I, 977, con note di G.G. POLI, A. TRAVI e F. AULETTA). Orientamento che desta non poche perplessità sol che si consideri come a fronte dell’enunciato normativo dell’art. 37 c.p.c., a mente del quale “il difetto di giurisdizione … è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”, il principio giurisprudenziale affermato si rivela tutt’altro che un’interpretazione del testo legislativo, bensì una sua aperta contraddizione: “il difetto di giurisdizione … non può essere rilevato, nemmeno d’ufficio, in nessuno stato e grado del processo se si è formato un giudicato implicito”. Et de hoc satis!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *