di Claudia Fava e Giuseppe Carratelli

Sommario

1. Il caso oggetto della sentenza del Tribunale di Cosenza1

2. La prova del reato di dichiarazione infedele2

3. Il ‘doppio binario’ in materia penale tributaria3

Conclusioni

Nota a sentenza n. 1328/15 Reg. Sent. – Tribunale di Cosenza – Sezione Penale – 25/5/2015

1) Il caso oggetto della sentenza del Tribunale di Cosenza

La sentenza che si annota ripercorre l’articolato dibattito giurisprudenziale sulla prova delle violazioni tributarie in ambito penalistico.

L’art.4 del decreto legislativo 74/2000 prevede la fattispecie di “dichiarazione infedele”. Per tale norma è stata inserita una clausola di riserva espressa4che esclude l’applicazione della norma sulla dichiarazione infedele nei casi in cui le condotte di maggiore gravità siano assorbite nella sfera applicativa dei reati di dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici-, da cui si ricava che tale delitto si sostanzia in una dichiarazione fiscale mendace5, rispetto alla quale, per la rilevanza penale, è estranea qualsivoglia fraudolenza6 che accompagni la condotta tipica, sicchè quest’ultima si concretizza nell’evidenziare qualcosa di non corrispondente alla realtà7: elementi attivi inferiori o elementi passivi inesistenti.-

Il caso in esame prende le mosse da un accertamento dell’Agenzia delle Entrate che contestava ad un imprenditore, quale legale rappresentante di una s.r.l. avente ad oggetto la vendita al dettaglio di calzature, e soggetto attivo8 del reato contestato9, “…la violazione dell’art.4 D.l.vo 74/2000 per aver indicato, al fine di evadere l’I.V.A. e l’I.R.E.S., nelle relative dichiarazioni annuali (Modello Unico SC 2009) riguardanti l’anno d’imposta 2008, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, nonché elementi passivi fittizi…”.-

L’ipotesi accusatoria si fondava, esclusivamente, sugli esiti degli accertamenti effettuati sulla dichiarazione dell’anno d’imposta 2008, relativa ad imposte sui redditi e sul valore aggiunto ( che costituiscono l’oggetto materiale10 del delitto di cui all’art.4 del Dlgs. 74/200011), dall’Agenzia delle Entrate, riassunti ed esposti, durante l’istruttoria dibattimentale, dal funzionario che aveva svolto detti accertamenti. –

Lo stesso, in dibattimento, riferiva di aver rilevato maggiori componenti positivi di reddito, per una cifra complessiva pari ad € 580.542,00, inoltre, con riferimento all’I.V.A. pagata, veniva recuperato a tassazione un importo di circa € 1.800.000,00, somma ritenuta non inerente all’attività imprenditoriale.

Nel corso del suo esame il teste riferiva, con riferimento agli elementi positivi di reddito, che gli accertamenti eseguiti avevano consentito di rilevare un maggior ricarico sulla merce venduta, pari al 119,78%, rispetto a quello dichiarato, pari al 60,90%; a tali conclusioni si perveniva, vista l’inoperatività della società al momento del controllo da parte dell’amministrazione finanziaria, sulla base dei dati rinvenienti dalle fatture d’acquisto della merce, per gli anni precedenti che contenevano, inoltre, le indicazioni sul prezzo di vendita da effettuare al pubblico e lo sconto consentito, trattandosi di società operante in regime di franchising.-

Precisava, inoltre, di non aver verificato, in concreto, se il prezzo consigliato dall’affiliante fosse stato rispettato dall’affiliato, confermando la circostanza che, al momento dell’accertamento, la società non fosse operativa.- Su domanda della difesa il teste non era in grado di specificare ed illustrare le modalità di calcolo mediante le quali si era pervenuti al risultato numerico sopra indicato, procedimento non meglio esplicato anche nel processo verbale acquisito agli atti, in cui si faceva riferimento ad una generica “media ponderata”.-

Con riferimento agli elementi passivi fittizi esposti, il teste dichiarava che aveva rinvenuto in contabilità 4 fatture di acconto emesse da un’altra società nei confronti della s.r.l. sottoposta a verifica, inerenti l’acquisto di un immobile, ma tale unità immobiliare era occupata da una pizzeria; in considerazione di ciò e nonostante l’esibizione di un contratto preliminare di compravendita da parte della s.r.l. oggetto di accertamento, si ritenevano i costi delle predette fatture non inerenti l’attività d’impresa.-

Tuttavia, nel corso dell’istruttoria, veniva sentito quale teste della difesa uno dei soci della s.r.l. oggetto di accertamento, il quale precisava che quest’ultima aveva ad oggetto la vendita al dettaglio di calzature, attività svolta anche mediante affiliazione ad un marchio noto a livello internazionale, che imponeva prezzi e percentuali di sconto, modificabili in minima parte.- Tale circostanza veniva confermata anche dal commercialista della società, il quale evidenziava il collegamento del software utilizzato nella sede della società a quello dei pc del franchisor, senza possibilità di occultamente di informazioni. A fortiori, il teste aggiungeva che l’omessa dichiarazione dei ricavi sarebbe stata possibile solo mediante il mancato rilascio dello scontrino fiscale o mediante l’emissione di scontrini per importi minori rispetto a quelli effettivamente introitati, ipotesi questa, definita impossibile e non praticabile proprio in considerazione del monitoraggio continuo esercitato tramite il software collegato al franchisor.- Ed invero, è emerso che non sarebbe stato possibile vendere un bene omettendo di passare lo stesso dal lettore installato presso la cassa per lo scarico, perché ciò avrebbe impedito di rimuovere il dispositivo antitaccheggio, con conseguente impossibilità per l’acquirente di uscire dall’esercizio commerciale con il prodotto “non scaricato”; d’altra parte, il mancato scarico avrebbe aumentato le giacenze di cassa, circostanza prontamente verificabile nel corso degli inventari periodici disposti dalla casa madre.-

Sempre il commercialista della società, affermava che l’acquisto dell’immobile di cui alle 4 fatture d’acconto sopracitate, era finalizzato all’apertura di un nuovo punto vendita, ma tale operazione non andava a buon fine a causa dei problemi economici della società oggetto dell’accertamento.-

Per questo motivo l’unità immobiliare de qua, mai definitivamente acquistata dalla società, era poi risultata adibita ad attività commerciale di altro tipo.-

Di fronte a questo compendio probatorio il Giudice monocratico del Tribunale di Cosenza ha ritenuto di non poter pervenire ad un giudizio di colpevolezza nei confronti dell’imputato, rilevato che dall’esame dei testi della difesa le condizioni di vendita dei prodotti forniti dal franchisor (costituenti il 95% dell’attività della società oggetto di accertamento) erano rigide e modificabili in misura non superiore al 40% del prezzo consigliato, onde evitare macroscopiche differenze nei vari punti vendita distribuiti sul territorio nazionale.-

Inoltre i testimoni fornivano una esauriente motivazione in merito alla impossibilità, per il singolo punto vendita, di occultare ricavi e ciò, sempre in considerazione del vigente sistema di capillare registrazione di ogni prodotto acquistato dal franchisor, che non consentiva al singolo affiliato di far uscire dal punto vendita prodotti pagati, anche solo parzialmente, in nero.-

Tali considerazioni risultavano ancor più plausibili e persuasive se rapportate alla genericità delle argomentazioni offerte dal teste d’accusa, senza effettuare correttamente il calcolo delle c.d. “media ponderata”, ed invero, lo stesso teste riferiva di aver calcolato l’effettiva percentuale di ricarico, sulla base del prezzo d’acquisto indicato in fattura, nonché del prezzo di vendita al pubblico sempre riportato in fattura e delle percentuali di sconto da poter praticare, riferendo di non aver potuto acquisire notizie dai dipendenti in merito alle modalità di vendita in concreto applicate, stante l’inoperatività della società al momento del controllo.-

Quando i testimoni hanno confermato che dopo la stipula di un regolare contratto preliminare, finalizzato all’apertura di un nuovo punto vendita, l’affare non si perfezionava sebbene al momento della dichiarazione effettuata, le fatture emesse nei confronti della società soggetta ad accertamento erano relative ad esborsi da quest’ultima sostenuti ed inerenti l’attività d’impresa, poiché finalizzati all’acquisto di nuovi locali ove esercitare l’attività di vendita al dettaglio, senza, dunque alcuna indebite indicazione di elementi passivi, ossia di costi sostenuti.-

Sulla base di dette indicazioni, il Giudice del Tribunale Penale di Cosenza ha ritenuto di dover assolvere l’imputato perchè il fatto non sussiste.-

2. La prova del reato di dichiarazione infedele

Nella sentenza in esame, correttamente, il Tribunale di Cosenza, ha aderito ad un principio già ribadito da numerose sentenze.-

Ed invero, “L’essenza del reato di dichiarazione infedele prevista dall’art. 4 d.lg. n. 74 del 2000 è costituita dalla presentazione di una dichiarazione, relativa alle imposte sui redditi o all’i.v.a. ideologicamente falsa, posta in essere per indurre in errore l’amministrazione finanziaria, anche se non preceduta da ulteriori elementi fraudolenti.”12

Tale pronuncia è perfettamente aderente al caso di specie, non essendo emersa alcuna prova circa in merito alla falsità della dichiarazione IRES ed IVA.-

A fortiori, si richiamano alcune decisioni dei giudici di merito e di legittimità:

1) “In tema di dichiarazione infedele, la verifica del giudice penale può sovrapporsi o anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata davanti al giudice tributario, perché nella sede penale deve darsi prevalenza al dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura formale che caratterizzano l’ordinamento tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria.”13

2) “Ai fini dell’accertamento in sede penale della configurabilità del reato di omessa dichiarazione allo scopo di evasione dell’imposta sui redditi, deve darsi prevalenza al dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario.”14

3) “Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa.” 15

Dalla lettura di queste massime emergono le vistose differenze del sistema probatorio nel processo tributario e nel processo penale.-

Giova evidenziare che la stessa condotta deve essere autonomamente valutata dal giudice penale e dal giudice tributario, al fine di stabilirne la rilevanza nell’ambito specifico in cui l’accertamento di quei fatti è destinato ad operare16.-

Ad esempio, il decreto di archiviazione non impedisce che lo stesso fatto venga diversamente definito, valutato e qualificato dal giudice tributario, poiché l’impromuovibilità (ex art.408 e segg. c.p.p.) dell’azione penale ha come presupposto la mancanza di un processo, e pertanto non da luogo a preclusioni di alcun tipo17.-

Il giudice penale non potrà limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza, anche definitiva, in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice della commissione tributaria, viceversa, nell’esercizio dei propri poteri autonomi di valutazione, dovrà analizzare il materiale probatorio e la condotta della parte, verificando la rilevanza nello specifico ambito in cui esso opera18.-

3. Il ‘doppio binario’ in materia penale tributaria

Recentemente la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata su un ricorso proposto da un contribuente che, richiamando la sentenza del 04.03.2014 della Corte Europea dei diritti dell’uomo, evidenziava che l’imputato era stato già condannato in sede tributaria al pagamento dell’imposta evasa, comprensiva degli interessi e delle sanzioni, e che pertanto si sarebbe profilata l’ipotesi di “ne bis in idem”, per identità dell’oggetto tra il procedimento tributario e quello penale. Tuttavia, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20266 del 15.05.2014, ha ritenuto infondato tale motivo di gravame, richiamando sul punto la pronuncia delle Sezioni Unite n. 37425 del 28.03.2013 con la quale è stato affermato che i reati previsti dal D. Lgs. n. 74/2000 “non si pongono in rapporto di specialità ma di progressione illecita con il D. Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, comma 1, che stabilisce le sanzioni amministrative in materia di riscossione, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni”.- Peraltro, come sottolineato dalla Corte di Cassazione, nell’ordinamento italiano, i rapporti tra il sistema sanzionatorio amministrativo, processo penale e processo tributario sono disciplinati dagli artt. 19, 20 e 21 del D. Lgs. n. 74/2000.-

Conclusioni

Da quanto esposto emergono le vistose differenze del sistema probatorio nel processo tributario e nel processo penale.-

Per come già detto, la stessa condotta deve essere autonomamente valutata dal giudice penale e dal giudice tributario, al fine di stabilirne la rilevanza nell’ambito specifico in cui l’accertamento di quei fatti è destinato ad operare.-

Il potere di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria si dota sempre più spesso, per espressa previsione normativa, dello strumento presuntivo, in forza del quale l’onus probandi viene posto in capo al contribuente. E ciò, in deroga al principio giuridico generale enunciato dall’art. 2497 cod. civ. secondo il quale chi vuole dimostrare l’esistenza di un fatto ha l’obbligo di fornire in giudizio le prove dell’esistenza del fatto stesso.

In ambito penale, invece, l’unica presunzione operante è quella di non colpevolezza affermata dall’art. 27, co. 2, Cost., e tale principio è posto a fondamento del sistema processuale penale nel quale l’onere della prova spetta, appunto, al P.M.

Quanto al sistema delle prove nel processo penale, giova ricordare che l’art. 193 c.p.c. stabilisce l’inosservanza dei limiti di prova previsti dalle leggi civili, con eccezione di quelli che riguardano lo stato di famiglia e di cittadinanza, mentre gli art. 530, co. 2 e 533, co. 1 c.p.c. , obbligano il giudice ad una pronuncia assolutoria per l’ipotesi di insufficienza di prove, o nel caso in cui sussista un ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato.

Di tal che, la prova del reato in ambito tributario, fondata su una presunzione, non può trovare legittimo ingresso in sede penale.

La giurisprudenza di legittimità è conforme nel ritenere che non è configurabile alcuna pregiudiziale tributaria, con la conseguenza che il processo penale non sottostà né ai tempi, né agli esiti del procedimento tributario, ed altresì che incombe unicamente sul giudice penale il compito di procedere all’accertamento e quindi alla determinazione dell’imposta evasa, ben potendo giungere a determinazioni diverse ed antitetiche rispetto a quelle fatte proprie dal giudice tributario.

Il giudice penale ha quindi l’obbligo di verificare l’eventuale configurabilità di illeciti penali, non già in modo presuntivo, bensì ancorando le proprie determinazioni a fatti concreti.

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Note

1 Scritto dalla Prof.ssa Claudia Fava.

2 Scritto dall’Avv. Giuseppe Carratelli.

3 Scritto dall’Avv. Giuseppe Carratelli.

4 Al riguardo si veda U. NANNUCCI, La riforma del diritto penale tributario, Padova, 2000, p.153

5 In tal senso A. LANZI, Diritto e procedura penale tributaria, Padova, 2001, p.207

6 Cfr. A. MANNA, Prime osservazioni sulla nuova riforma del diritto penale tributario, in Riv.trim.pen.dir.econ., 2000, p.130

7 Sul punto I. CARACCIOLI, Diritto e procedura penale tributaria, Padova, 2001, p.208

8 A. LANZI, op. cit., p.208

9 U. NANNUCCI, op. cit., p.157

10 A. LANZI, op. cit., p.210

11 U. NANNUCCI, op. cit., p.159 ss

12 Tribunale Firenze, sez. II, 17/07/2014

13 cfr. Cassazione penale, sez. III, 01/10/2013, n. 46165

14 Cassazione penale, sez. III, 08/04/2014, n. 37302

15 cfr. Cassazione penale, sez. III, 23/01/2013, n. 7078, ove in applicazione del suddetto principio la Corte ha ritenuto inoperante ai fini di prova del reato di cui all’art. 4 d.lg. n. 74 del 2000, la presunzione di cui all’art. 32, comma 1 n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973 che configura come ricavi o compensi i prelevamenti, ove non ne sia indicato il soggetto beneficiario, e gli importi riscossi.-

16 IANNACCONE, I rapporti tra processo penale e procedimento tributario alla luce della recente giurisprudenza di legittimità, in Il Fisco, 2008, 7376

17 Cass. Sez. Tributaria. n.11375 del 27.5.2011

18 CTR Molise n.104 del 19.4.2007

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