di Anastasia Palma

Sommario

  • La disciplina normativa del contratto di leasing
  • La fattispecie esaminata dalle Sezioni Unite
  • La valutazione esegetica della Suprema Corte sulla validità dei contratti di leasing nei quali la variabilità del canone sia stabilita in relazione ad indici finanziari e tassi di cambio

Con sentenza del 23 febbraio 2023, n. 5657, le Sezioni Unite hanno cassato la sentenza di merito (Corte d’Appello di Trieste del 19 dicembre 1918) che aveva ritenuto immeritevole di tutela, perché affetto da aleatorietà, difficoltà di interpretazione e asimmetria delle prestazioni, un contratto di leasing immobiliare corredato da una clausola di indicizzazione e rischio di cambio, pronunciando il seguente principio di diritto: “La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone vari in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l’importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte, non costituisce uno strumento finanziario derivato implicito, sì che la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del d.lgs. 58/98”.

La pronuncia si fonda sull’affermazione secondo cui Il giudizio di immeritevolezza degli interessi, di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà.

  1. La disciplina normativa del contratto di leasing

Con il contratto di leasing finanziario una parte (concedente) si obbliga ad acquistare su indicazione dell’altra parte (utilizzatore) uno specifico bene ponendolo a sua esclusiva disposizione. Al termine del contratto l’utilizzatore avrà diverse opzioni: potrà acquistare il bene versando un’ulteriore somma di denaro, potrà decidere di restituire il bene oppure potrà rinnovare il contratto a condizioni più vantaggiose. A fronte della prestazione ricevuta dal concedente (acquisto, messa a disposizione del bene, opzione di acquisto, rinnovazione del contratto o restituzione del bene) l’utilizzatore sarà tenuto al pagamento di un canone in rate. La misura dell’importo del canone sarà comprensiva del prezzo iniziale per l’acquisto del bene, di tutti gli interessi, dei costi maturati durante il godimento, degli utili dell’impresa concedente, nonché dell’assunzione dei rischi inerenti al bene medesimo quali deterioramento, distruzione e perimento. Nell’ipotesi in cui l’utilizzatore, alla scadenza del contratto voglia acquistare il bene sarà tenuto al pagamento di un ulteriore corrispettivo. Dal punto di vista funzionale, nel contratto di leasing si possono evidenziare due distinte finalità: un funzione finanziaria nel caso di beni strumentali all’esercizio dell’impresa e che diventano facilmente obsoleti: in questa ipotesi l’imprenditore potrà evitare immobilizzazione di capitali per l’acquisto di beni rapida obsolescenza (la vita economica del bene generalmente coincide con la durata del godimento). In questa evenienza il pagamento del canone da parte dell’imprenditore ha una funzione finalizzata al godimento del bene in quanto l’ipotesi del trasferimento alla scadenza è del tutto residuale: si tratta del c.d leasing di godimento.

Nell’ipotesi in cui il contratto di leasing, invece, abbia ad oggetto un bene non deteriorabile, la sua funzione è rinvenibile nel godimento del bene e nel suo trasferimento finale. Pertanto, il canone, al cui versamento sarà tenuto l’utilizzatore sarà comprensivo sia del corrispettivo per il godimento del bene, sia in parte del pagamento anticipato delle rate del prezzo. In questa evenienza si avrà il c.d. leasing traslativo. Dal punto di vista della causa il contratto di leasing, potendo assolvere diverse finalità potrebbe avere un meccanismo assimilabile alla locazione poichè è finalizzato prevalentemente al godimento del bene. Si potrebbe, ancora, far riferimento alla vendita a rate con riserva di proprietà quando l’utilizzatore vuole pervenire all’acquisizione definitiva del bene. Si potrebbe fare ulteriormente riferimento alla disciplina del contratto di mutuo quando l’utilizzatore attribuisca ai canoni versati la funzione di restituzione rateale della somma finanziata. Le ipotesi di risoluzione variano a seconda che si consideri il leasing come contratto di durata finalizzato al godimento del bene: in questa evenienza le prestazioni già eseguite non saranno interessate da un’eventuale risoluzione e l’utilizzatore non avrà diritto alla restituzione delle rate di canone corrisposte. Se nel leasing, invece, si rinviene un meccanismo analogo alla vendita i canoni avranno la duplice funzione di corrispettivo per il godimento del bene e di corrispettivo per l’acquisto rateale anticipato di prezzo: l’utilizzatore, in questo caso, avrà diritto alla parziale restituzione dei canoni versati dal momento che l’effetto traslativo finale non si verificherà a causa della risoluzione, mentre il concedente avrà diritto ad un indennizzo per l’avvenuto utilizzo del bene. “Tale distinzione e la conseguente applicazione del rimedio ex art. 1256 al solo leasing traslativo sono tuttavia superate da quella prospettiva sensibile al profilo della giustizia contrattuale la quale, al di là da una funzione traslativa della operazione, attribuisce portata generale al rimedio in questione, in quanto rispondente alla esigenza di riconduzione ad equità del contratto e al divieto di indebito arricchimento.”1

In relazione alla fase patologica del contratto, si considera come grave inadempimento il mancato pagamento dei canoni pari a sei (se sono dovuti mensilmente) o a due (se sono trimestrali non consecutivi o di importo equivalente nel caso di leasing immobiliari), ossia di quattro canoni mensili nelle altre ipotesi di locazione finanziaria. In questa evenienza la parte concedente riottiene il bene purché corrisponda all’utilizzatore quanto residua dalla vendita o da altra collocazione del bene in base ai valori di mercato, al netto di quanto dovutogli fino al momento della risoluzione (comprensivo dei canoni a scadere, del prezzo finale di acquisto delle spese sostenute). Nell’ipotesi di valore di mercato inferiore, invece, il concedente preserverà un diritto di credito per la differenza.

Diversamente dal leasing di godimento o traslativo, nel c.d. leasing operativo, la parte concedente è generalmente anche produttrice del bene che si presenterà come strumentale e standardizzato. “Caratteristiche ancor più peculiari assume il contratto quando ha per oggetto beni immobili esistenti (c.d. immobiliare puro) o da costruire (c.d. in costruendo, ove l’acquisizione del bene presuppone l’esecuzione di un contratto di appalto), anche perché la prassi contrattuale presenta una varietà di clausole che a volte impedisce una ricostruzione unitaria. Secondo il valore attribuito al diritto di opposizione la dottrina oscilla tra le figure della locazione e della vendita. Nella prima ipotesi il c.d. prezzo finale è elevato e corrisponde al valore del bene, si chè i canoni corrisposti sono remunerativi del solo godimento.; diversamente se il prezzo finale è esiguo e non corrispondente al valore del bene, i canoni configurano ratei di prezzo.”2

  1. La fattispecie esaminata dalle Sezioni Unite

Il caso affrontato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 5657 del 2023 riguardava un contratto di leasing stipulato tra due società avente ad oggetto un bene immobile. Nelle previsioni contrattuali veniva stabilito che la valuta nominale di riferimento del contratto fosse il franco svizzero; che l’utilizzatore rimborsasse il finanziamento in euro; che il rimborso dovesse avvenire in un arco temporale di quindici anni e attraverso corresponsione di un anticipo, di pagamenti rateizzati e di un prezzo finale di riscatto. Veniva inoltre stabilito che la rata dovuta dalla società utilizzatrice alla società concedente potesse aumentare o diminuire in virtù di due variabili determinate dalla variazione di tassi.

Segnatamente, con ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite si ravvisava l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza in ordine alla validità delle clausole di indicizzazione degli interessi inserite in diversi contratti, sia di leasing che di mutuo stipulati in valuta estera, come quelle del giudizio vagliato dalla Suprema Corte, nonché circa la loro qualificazione in strumenti finanziari derivati. Pertanto, all’attenzione delle Sezioni Unite si sottoponevano le seguenti questioni: “Se le clausole, come quella oggetto del contendere siano una mera forma di indicizzazione oppure un “derivato implicito” e quindi una scommessa con fine speculativo; se la clausola oggetto del contendere possa avere per effetto di snaturare la causa del contratto di leasing, trasformandolo in un contratto di altro tipo o in un contratto a causa mista; se il relativo patto contrattuale comporti violazione dell’obbligo di buona fede, per mancanza di chiarezza e di informazione, conseguenti alla natura puramente speculativa della clausola”.3

Nello specifico la sentenza affermava che “Il modo e la misura in cui il canone di leasing dovesse variare erano stabiliti dal contratto come segue: a) la rata poteva variare sia in aumento che in diminuzione; b) la variabilità del canone dipendente dalle fluttuazioni del tasso LIBOR era illimitata in aumento, e limitata in diminuzione (non oltre due punti in meno dell’indice di base), e si sarebbe applicata a partire dal canone in scadenza nel mese in cui si era verificata la variazione del tasso LIBOR; c) la variabilità del canone dipendente dalle fluttuazioni del cambio franco/euro era illimitata sia in aumento che in diminuzione; d) la misura della variazione del canone dipendente dalle fluttuazioni del cambio franco/euro doveva determinarsi con una formula matematica, pari al canone, diviso per il cambio al momento del pagamento della rata, e moltiplicato per la differenza tra cambio storico (cioè il cambio fissato convenzionalmente dalle parti alla stipula del contratto) e cambio alla scadenza del canone. Unica differenza tra l’ipotesi di apprezzamento del franco e quella di apprezzamento dell’euro in corso di contratto era che nel primo caso (apprezzamento del franco, e quindi variazione a favore del debitore) a base del calcolo si sarebbe dovuto porre l’importo della rata al netto dell’IVA, e nel secondo caso (deprezzamento del franco, e quindi variazione a favore del creditore) a base del calcolo si sarebbe dovuto porre l’importo della rata al lordo dell’IVA; e) infine, il contratto prevedeva che eventuali variazioni del canone non avrebbero comportato l’aumento o la diminuzione della rata mensilmente dovuta, ma sarebbero state regolate a parte, con periodiche rimesse reciproche tra le parti.”4

Dalla ricostruzione della vicenda effettuata nella sentenza emergeva che decorsi sei anni dalla stipulazione del contratto, la società concedente, a seguito dell’inadempimento da parte della società utilizzatrice chiedeva ed otteneva dal Tribunale l’emissione di un decreto ingiuntivo nei riguardi della società debitrice e dei suoi garanti per i canoni scaduti e non corrisposti. Nell’opposizione al decreto effettuata dagli intimati si sosteneva che il contratto di leasing stipulato con la società concedente, relativamente alla parte in cui conteneva la clausola di variabilità del canone, andava qualificato come “strumento finanziario implicito” e pertanto era da ritenersi nullo, poiché stipulato senza il necessario assolvimento dei preventivi obblighi informativi da parte della banca, così come previsto dalla D.lgs. n. 58 del 1958. Sulla base di tali ragioni si chiedeva la revoca del decreto ingiuntivo nonché la restituzione di tutte le somme corrisposte a titolo di indicizzazione del canone. Il Tribunale riteneva che la clausola in questione, con la quale si prevedeva la variazione del canone in virtù dei diversi tassi (LIBOR e tasso di cambio tra l’euro e il franco svizzero) contenesse due strumenti finanziari derivati distinti rispetto al contratto di leasing stipulato tra le parti. Sulla scorta di tale qualificazione della clausola il Tribunale pronunciò la nullità affermando che la società utilizzatrice non aveva ricevuto le preventive informazioni precontrattuali così come stabilito dalla legge relativamente alla stipulazione di contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari. Ne seguiva la riduzione del credito della società concedente e la condanna al risarcimento del danno sofferto dalla società utilizzatrice.

La sentenza fu appellata dalla società concedente e rigettata dalla Corte di Appello sulla base di una motivazione diversa da quella effettuata dal Tribunale. Nello specifico La Corte considerava l’intero contratto come una sorta di swaps qualificandolo come aleatorio, riconducendolo, così, al genere delle scommesse. La Corte D’Appello, sul punto, così come si evince dalla sentenza in commento sosteneva che “la clausola di ancoraggio del canone al tasso di cambio tra franco svizzero ed euro era “astrusa, macchinosa, complessa e oscura”, e provocava uno “squilibro nelle prestazioni” (p. 16), in quanto la formula di calcolo del “rischio cambio” differiva a seconda che la variazione fosse favorevole o sfavorevole al concedente; che il contratto era stato qualificato come “contenente elementi riconducibili a strumenti finanziari derivati” anche dal consulente d’ufficio nominato in primo grado; che al momento della stipula – sempre ad avviso del c.t.u. – era “prevedibile un apprezzamento del franco” rispetto all’euro.”5 Sicché,sulla base di tali argomentazioni, la Corte D’Appello accoglieva l’opposizione al decreto ingiuntivo sostenendo che la sola clausola di rischio cambio era da ritenersi invalida ai sensi dell’articolo 1322 c.c., comma 2 e non in quanto il contratto fosse nullo a causa della violazione degli obblighi d informazione precontrattuale sanciti dalla D. lgs. n. 58/58 (così come ritenuto dal Tribunale).

Come si desume dalla citata sentenza, la pronuncia della Corte D’Appello veniva impugnata per Cassazione dalla società concedente con un ricorso in cui si sostenevano l’erronea interpretazione e qualificazione del contratto. Segnatamente, secondo la società ricorrente “L’errore sarebbe consistito nel non apprezzare adeguatamente la comune volontà delle parti, che fu quella di stipulare un normale contratto di leasing in valuta estera. Che fosse intenzione delle parti stipulare un contratto in valuta estera si sarebbe dovuto desumere, ad avviso della ricorrente, dalla valutazione complessiva delle clausole contrattuali e dalla condotta delle parti anche nella fase precedente la stipula. Se la Corte d’appello avesse tenuto conto del fatto che il contratto fu stipulato in valuta estera, avrebbe dovuto trarre la conclusione che le clausole di indicizzazione del canone non solo non erano affatto atipiche, ma costituivano normali clausole diffuse nella prassi bancaria in tutti i rapporti finanziari accesi in divisa estera, quando il debitore sia un soggetto residente in un paese dell’ “area Euro”. La contestata clausola, pertanto, non aveva altro effetto che consentire al debitore di restituire in euro un finanziamento concessogli in altra valuta.”6

Altresì la società ricorrente sosteneva l’erronea qualificazione del contratto da parte della Corte D’Appello così come si desume dalla sentenza della Suprema Corte secondo cui “Deduce la ricorrente che la clausola di doppia indicizzazione prevista dal contratto non possedeva alcuna delle caratteristiche tipiche degli strumenti finanziari derivati: non l’astrazione, non l’autonomia, non l’esistenza d’un capitale puramente nozionale, non la previsione del valore da assegnare ai reciproci flussi finanziari nel caso di cessazione degli effetti del contratto (e cioè il c.d. “mark to market”).”7

Ancora, nel ricorso, secondo la società ricorrente vi era stata la violazione dell’articolo 1322 c.c. in base all’articolo 360 comma 3 c.p.c. (la norma nell’enunciare i motivi di impugnazione delle sentenze pronunziate in Appello, al comma terzo sancisce quelli inerenti alla violazione o falsa applicazione delle norme di diritto). Secondo tale società, infatti, il contratto stipulato non conteneva alcun presupposto per qualificarlo come “immeritevole” ai sensi della citata norma. Precisamente la clausola di indicizzazione non attribuiva vantaggi ingiusti e sproporzionati ad una soltanto delle parti in quanto il contratto prevedeva l’aumento o la diminuizione del canone in modo simmetrico. La suddetta clausola, inoltre, nelle ragioni della ricorrente, non poneva una delle parti in uno stato di soggezione rispetto all’altra e non costringeva alcuna di esse alla violazione di doveri di solidarietà costituzionalmente tutelati.

  1. La valutazione esegetica della Suprema Corte sulla validità dei contratti di leasing nei quali la variabilità del canone sia stabilita in relazione ad indici finanziari e tassi di cambio.

Ciò premesso,di seguito i principali passaggi espositivi della sentenza della Suprema Corte relativi al giudizio di meritevolezza delle clausole di indicizzazione inserite nel contratto di leasing.

Sul punto, le Sezioni Unite della Cassazione hanno ritenuto fondata la censura inerente alla violazione dell’articolo 1322 c.c. comma 2. ribadendo come il giudizio di meritevolezza del contratto non coincida col giudizio di liceità, dell’oggetto o della causa. A sostegno di ciò facevano riferimento al concetto di meritevolezza contenuto nella Relazione al Codice Civile inteso “come giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con essa avuto di mira dalle parti, cioè lo scopo pratico o causa concreta che dir si voglia. Ed il risultato del contratto dovrà dirsi immeritevole solo quando sia contrario alla coscienza civile, all’economia, al buon costume od all’ordine pubblico.”8

Ulteriormente, nella sentenza, la Suprema Corte affermava che questo principio, seppur anteriore alla Costituzione è stato da essa sancito negli articoli 2 comma 2, 4 comma 2 e 41 comma 2, perciò “Un contratto dunque non può dirsi “immeritevole” sol perché poco conveniente per una delle parti. L’ordinamento garantisce il contraente il cui consenso sia stato stornato o prevaricato, non quello che, libero ed informato, abbia compiuto scelte contrattuali non pienamente satisfattive dei propri interessi economici. Affinché dunque un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi dell’art. 1322 c.c., è necessario accertare la contrarietà (non del patto, ma) del risultato cui esso mira con i princìpi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati. Sono stati perciò ritenuti immeritevoli, ai sensi dell’art. 1322, comma secondo, c.c., contratti o patti contrattuali che, pur formalmente rispettosi della legge, avevano per scopo o per effetto di: (a) attribuire ad una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita per l’altra (sentenze 22950/15; 19559/15); (b) porre una delle parti in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all’altra (sentenze 4222/17; 3080/13; 12454/09; 1898/00; 9975/95); (c) costringere una delle parti a tenere condotte contrastanti coi superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti (sentenza 14343/09).”9

Nel caso di specie, la Corte D’Appello riteneva che la clausola del contratto “rischio cambio” fosse immeritevole ai sensi dell’articolo 1322 c.c. sulla base di tre argomenti: il calcolo della variazione del tasso di interesse dovuto dalla società utilizzatrice risultava “astruso e macchinoso”; la clausola disciplinante il saggio di interessi si presentava caratterizzata da aleatorietà e squilibrio poiché prevedeva un differente calcolo di indicizzazione, in base alla circostanza che l’euro fosse apprezzato o deprezzato rispetto alla valuta di riferimento e infine in base alla circostanza secondo cui il C.T.U. aveva accertato che fin dal momento della stipulazione del contratto sussisteva un costante apprezzamento del franco svizzero sull’euro.

Le argomentazioni spese dalla Corte D’Appello, in base all’interpretazione delle Sezioni Unite, non sono state ritenute valide a giustificare un giudizio di immeritevolezza della clausola ai sensi dell’articolo 1322 c.c. comma 2. Infatti “Il primo argomento è erroneo perché una clausola contrattuale “astrusa” od inintelligibile non rende il contratto nullo o “immeritevole” ex 1322 c.c.. Dinanzi a clausole contrattuali oscure il giudice deve ricorrere agli strumenti legali di ermeneutica (artt. 1362-1371 c.c.), e non ad un giudizio di immeritevolezza. La clausola oscura andrà dunque interpretata, in mancanza di altri criteri, almeno in modo che le si possa dare un senso (artt. 1371 c.c.), oppure contra proferentem (art. 1370 c.c.).”10 In ordine all’affermazione in base alla quale la clausola sarebbe macchinosa, la Corte di Cassazione ha affermato che essa non può essere condivisa sulla base delle due ragioni che seguono: “..Una clausola contrattuale non può dirsi dunque mai “macchinosa” in senso assoluto. Può esserlo in senso relativo, ad es. se contenuta in un testo contrattuale predisposto unilateralmente e sottoposto a persona priva delle necessarie competenze per comprenderlo. Ma in quest’ultima ipotesi non si dirà che quel contratto è “immeritevole”: si dirà, piuttosto, che il contratto è annullabile poiché il consenso del contraente è stato dato per errore o carpito con dolo. Oppure si dirà che il proponente è tenuto al risarcimento del danno per non avere fornito alla controparte le necessarie informazioni precontrattuali, ove imposte dalla legge o dal dovere di buona fede.” Pertanto, secondo la Corte, “…L’equazione stabilita dalla Corte d’appello, per cui “macchinosità della clausola = immeritevolezza” è dunque erronea in punto di diritto.” 11

La seconda ragione, afferma ancora la Corte è che la macchinosità della clausola consisteva in una moltiplicazione di un rapporto per una differenza, non presentandosi tale operazione come macchinosa, ma piuttosto come aritmetica.

Nella sentenza la Cassazione si è soffermata sulla questione relativa all’aleatorietà ed allo squilibrio della clausola contrattuale affermando che “la sentenza impugnata mostra di confondere l’alea economica, insita in ogni contratto, con l’alea giuridica, che del contratto forma invece oggetto e ne è elemento essenziale: e cioè la susceptio periculi. E nel caso di specie causa del contratto era il trasferimento della proprietà di un immobile, non il trasferimento di un rischio dietro pagamento di un prezzo. In ogni caso un contratto aleatorio non è, per ciò solo, immeritevole di tutela ex articolo 1322 c.c.. La vendita del raccolto futuro (emptio spei), l’assicurazione sulla vita a tempo determinato per il caso di morte, la rendita vitalizia sono tutti contratti aleatori: e se la legge ne consente la stipula, l’aleatorietà non può ritenersi di per sé una caratteristica tale da rendere “immeritevole” di giuridica esistenza il contratto. Né è inibito alle parti stipulare contratti aleatori atipici: questa Corte infatti ha già affermato la liceità e la meritevolezza di contratti alesatori non espressamente previsti dalla legge: ad esempio, in materia di c.d. vitalizio atipico (ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 8209 del 22/04/2016; Sez. 3, Sentenza n. 2629 del 27/04/1982). Neppure è vietato inserire elementi di aleatorietà in un contratto commutativo. Le parti d’un contratto infatti, nell’esercizio del loro potere di autonomia negoziale, ben possono prefigurarsi la possibilità di sopravvenienze che incidono o possono incidere sull’equilibrio delle prestazioni, ed assumerne, reciprocamente o unilateralmente, il rischio, modificando in tal modo lo schema tipico del contratto commutativo e rendendolo per tale aspetto aleatorio, con l’effetto di escludere, nel caso di verificazione di tali sopravvenienze, l’applicabilità dei meccanismi riequilibratorii previsti nell’ordinaria disciplina del contratto (art. 1467 e 1664 cod. civ.). E l’assunzione del suddetto rischio, come già stabilito da questa Corte, può risultare anche per implicito dal regolamento convenzionale che le parti hanno dato al rapporto e dal modo in cui hanno strutturato le loro obbligazioni [Sez. 1, Sentenza n. 948 del 26/01/1993, Rv. 480454 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 17485 del 12/10/2012, Rv. 624088-01; Sez. 3, Ordinanza n. 8881 del 13/05/2020; Sez. 2, Sentenza n. 2622 del 4.2.2021..”12

Nella menzionata pronuncia la Corte in merito a quanto sostenuto ulteriormente dalla Corte D’appello (secondo cui la clausola di indicizzazione sarebbe da considerarsi immeritevole ai sensi dell’articolo 1322 comma 2 c.c. in quanto le relative obbligazioni contrattuali erano squilibrate poiché la misura della variazione del saggio di interessi non era simmetrica) stabiliva che “…Non è dunque lo iato tra prestazione e controprestazione che può rendere un contratto “immeritevole” di tutela ex art. 1322 c.c., se quella differenza sia stata in piena libertà ed autonomia compresa ed accettata. La seconda ragione è che lo squilibrio delle prestazioni non può farsi coincidere la convenienza del contratto. Chi ha fatto un cattivo affare non può pretendere di sciogliersi dal contratto invocando “lo squilibrio delle prestazioni”. L’intervento del giudice sul contratto non può che essere limitato a casi eccezionali, pena la violazione del fondamentale principio di libertà negoziale (così, ex multis, Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 36740 del 25/11/2021, Rv. 663148 – 01). La terza ragione è che lo squilibrio (economico) tra le prestazioni se è genetico legittima il ricorso alla rescissione per lesione; se è sopravvenuto legittima il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. L’esistenza di tali rimedi esclude dunque la necessità stessa di ricorrere a fantasiose invenzioni circa la “immeritevolezza” d’un contratto che preveda “prestazioni squilibrate”…13 Secondo la Corte, infine, “..Si potrà discutere se questa clausola sia valida ex art. 1341 c.c.; oppure se sia frutto dell’approfittamento d’uno stato di bisogno; od ancora se non sia stata adeguatamente illustrata in sede precontrattuale: ma nel primo caso soccorrerà il rimedio della nullità; nel secondo quello della rescissione; nel terzo quello dell’annullamento del contratto per errore o del risarcimento del danno…”14

La Corte si soffermata sul punto inerente al fatto che la Corte D’Appello riteneva la clausola in questione immeritevole sul presupposto che il C.T.U. avesse accertato sin dal momento della stipula del contratto che fosse “prevedibile un costante apprezzamento del franco svizzero sull’euro”15. In merito a tale punto, secondo la Corte “L’eventualità che uno dei contraenti taccia alla controparte circostanze note circa lo sviluppo o la convenienza dell’affare potrebbe costituire una violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella conclusione dei contratti, e dunque anche in questo caso i rimedi previsti dall’ordinamento possono essere l’annullamento del contratto per errore o il risarcimento del danno, ma non certo il giudizio di “immeritevolezza” del contratto.”16

Pertanto dalla vicenda ricostruita dalle Sezioni Unite si evince che la Corte D’appello sosteneva che la clausola in questione fosse immeritevole ex art. 1322 comma 2 c.c. sulla base delle seguenti ragioni: 1) il calcolo della variazione del saggio di interesse dovuto dalla società utilizzatrice era considerato “astruso” e “macchinoso”;2) la clausola che disciplinava il rischio cambio era caratterizzata da aleatorietà e squilibrio poiché prevedeva una differente base di calcolo dell’indicizzazione in base alla circostanza che l’euro fosse apprezzato o deprezzato rispetto alla valuta di riferimento; 3) il C.T.U. aveva accertato che fin dal momento della stipulazione del contratto fosse prevedibile un costante apprezzamento del franco svizzero sull’euro. Dunque secondo la Corte di Cassazione“la Corte d’appello ha formulato in iure un giudizio di “immeritevolezza” del contratto, ex art. 1322, comma secondo, c.c., dopo avere accertato in facto circostanze irrilevanti ai fini del suddetto giudizio (aleatorietà, difficoltà di interpretazione, asimmetria delle prestazioni). Ha dunque, in questo modo, falsamente applicato il suddetto art. 1322”17.

Dal ragionamento della Suprema Corte si deduce che il giudizio meritevolezza del contratto di cui all’articolo 1322 comma 2 c.c., non coincide né con quello relativo alla liceità né con quello inerente all’oggetto o alla causa. Come premesso, sul punto, la Corte richiama come premesso la Relazione al Codice Civile secondo cui il la meritevolezza si sostanzia in un giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con esso avuto di mira dalle parti, cioè lo scopo pratico o la causa concreta che dir si voglia. Pertanto, come affermato nella Relazione, il risultato potrà dirsi immeritevole soltanto quando sia contrario alla coscienza civile, al buon costume o all’ordine pubblico. Ergo un contratto potrà essere non potrà considerarsi immeritevole soltanto perché sia conveniente per una solo dei contraenti. L’ordinamento, infatti, tutela il contraente il cui consenso sia stato stornato o prevaricato. Non garantisce, invece, la parte che abbia effettuato scelte contrattuali non del tutto satisfattive dei propri interessi economici in piena libertà e dopo le informazioni necessarie. La Corte sostiene che affinché un “patto atipico” possa definirsi “immeritevole”, ai sensi dell’art. 1322 c.c., occorre accertare la contrarietà non del patto bensì del risultato che esso mira a realizzare con i princìpi di solidarietà, parità e non prevaricazione che l’ordinamento giuridico pone alla base dei rapporti privati. Così, secondo la Corte sono stati considerati immeritevoli, ai sensi dell’art. 1322, comma secondo, c.c., contratti o patti contrattuali che, pur formalmente rispettosi della legge, avevano per scopo o per effetto di: conferire ad una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita per l’altra; porre una delle parti in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all’altra; costringere una delle parti a tenere condotte contrastanti coi superiori doveri di solidarietà costituzionalmente. In conclusione, sulla scorta di tale valutazione ermeneutica inerente al giudizio di meritevolezza disciplinato dall’articolo 1322 c.c., le Sezioni Unite hanno ritenuto non idonee le ragioni sopra esposte della Corte D’Appello.

Note

1 P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, Edizioni scientifiche italiane, 2021, pag. 712

2 P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, Edizioni scientifiche italiane, 2021, pag. 713

3 Sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 5657/2023 pag. 17

4 Sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 5657/2023 Pagg. 2 e 3

5 Cfr. Pag. 4 Sentenza n. 5657/2023

6 Cfr. Pag. 6 Sentenza n. 5657/2023

7 Cfr. Pag. 6 Sentenza n. 5657/2023

8 Cfr. pag. 9 Sentenza n. 5657/2023

9 Cfr. pag. 10 Sentenza n. 5657/2023

10 Cfr. pag. 10 Sentenza n. 5657/2023

11 Cfr. pag. 11 Sentenza n. 5657/2023

12 Cfr. Par. 12 Sentenza n.5657/2023

13 Cfr. Par. 14 Sentenza n. 5657/2023

14 Cfr. Pag. 14 Sentenza n. 5657/2023

15 Cfr. Pag. 16 Sentenza n. 5657/2023

16 Cfr. Pag. 16 Sentenza n. 5657/2023

17 Cfr. Pag. 16 Sentenza n. 5657/2023

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