di Marco Ferrari

La questione del crocifisso nelle aule scolastiche, tornata in auge grazie alla sentenza emessa il 3 novembre 2009 dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo[1], ha fatto risaltare una pluralità di argomentazioni a favore della sua esposizione, che vanno da un certo sentimentalismo a dichiarazioni imperiose d’identità nazionale; un argomento variamente proposto sulla stampa riguarda l’attribuzione di valori laici al simbolo religioso, per cui eliminare il crocifisso dalle pareti degli uffici pubblici costituirebbe un danno proprio al principio della laicità dello Stato[2].

Provo a rispondere ad alcuni punti di questo argomento, perché la prospettiva da cui vedere la questione mi sembra capovolta. Innanzitutto, i valori laici: tolleranza, rispetto, solidarietà, pur essendo comuni alle istanze di base di pressoché tutte le religioni, si dicono “laici” per il carattere di a-confessionalità, cioè per la non appartenenza ad un sistema di precetti consolidato dalla tradizione religiosa; quindi sono universali in quanto si rivolgono a tutti gli esseri umani, senza necessità di aderire a dogmi o costumi particolari.

Il simbolo religioso, avendo un preciso significato di appartenenza, ha come valore preminente quello che ne costituisce la ragion d’essere, e solo in secondo piano possono sovrapporsi altri significati; ciò vuol dire che i valori laici non possono essere simboleggiati dal crocifisso, certo non in prima istanza. Anzi, va ricordato che nella storia, talvolta, il crocifisso è stato anche usato come simbolo contro l’avanzata di quei valori che dovrebbe rappresentare (perfino alcuni derivanti dalla parola stessa di Cristo). Per di più, l’immagine della morte di Cristo fu probabilmente adottata in epoca successiva dalla Chiesa, per favorire la diffusione del cattolicesimo in ambito pagano, appropriandosi così di usanze idolatriche lontane dalla cultura biblica[3].

Il principio di laicità non può essere in alcun modo delegittimato dalla sentenza sulla rimozione dei crocifissi dai luoghi pubblici, perché lo Stato laico è lo Stato non confessionale, che non ha una religione ufficiale e non riconosce la preminenza a nessun culto, nemmeno a quello maggioritario. Gli uffici pubblici, cioè dello Stato, cioè dell’intera comunità, proprio per il rispetto di tutti i culti non dovrebbero recare alcun simbolo che indichi il primato di uno di essi, né di una ideologia politica, né di altre espressioni d’appartenenza che non sia alla collettività nazionale.

Un esempio può forse chiarire il concetto: la bandiera italiana non reca più lo stemma dei Savoia, in quanto era simbolo della “proprietà privata” della monarchia sulla nazione; diventando res publica, ossia “cosa di tutti”, lo stemma che decretava la padronanza di un casato sul Paese è stato giustamente eliminato. Seguendo la logica identitaria (per cui il cristianesimo definisce la nostra cultura e il crocifisso in aula ne è l’espressione[4]), anche in quel caso si potrebbe fare appello alla tradizione: infatti se l’Italia odierna è un Paese unito, lo si deve proprio ai Savoia; ma quanti al giorno d’oggi sosterrebbero un’idea del genere? Come la bandiera, anche i luoghi dello Stato, gli spazi e gli edifici pubblici, appartengono a tutto il popolo ed è giusto che, in virtù di ciò, non siano contrassegnati col simbolo di alcuni, anche se numerosi. E la questione, naturalmente di principio, ma non per questo astratta, si estende al discorso dell’immigrazione e quindi dell’affermazione d’identità: di fronte alla crescente comunità islamica, proveniente spesso da Paesi teocratici, la laicità dello Stato non è una debolezza, non è una retrocessione cui far fronte con l’esposizione del crocifisso per ribadire una (dubbia) identità cristiano-cattolica degli italiani; bensì un’affermazione ancor più potente, che dà l’esempio di come in questo Paese non è la confessione religiosa a dettar legge, qualunque essa sia.

Non c’è bisogno nemmeno di arrivare all’eccesso della Francia, che negli uffici pubblici vieta anche l’esposizione di simboli religiosi sulla propria persona. Se la religione è un fatto personale, allora, proprio per il rispetto dei culti che la laicità propugna, è giusto lasciare al privato cittadino la libertà individuale di manifestare il proprio credo. Per questo non ritengo del tutto corretto l’esempio, portato da molti, dell’imposizione del velo alle donne islamiche: tornando al ragionamento capovolto, si rischia di commettere l’errore denunciato attribuendo al velo un significato che, in se stesso, non ha. Non fu infatti concepito necessariamente per la degradazione della donna, quanto per la sua protezione dagli sguardi degli uomini[5], al fine di non lasciar spazio alla provocazione sessuale (un tema, peraltro, in vario modo comune a tutti i culti maggiori). È chiaro che il problema del velo apre tutto un altro, enorme dibattito; però, vedervi unicamente la discriminazione, che pure è un drammatico aspetto sovrappostosi nel tempo, equivale a vedervi un significato politico a tutti i costi, negarne il valore polisemico, a rischio di scadere nella parzialità di una posizione dal sapore integralista.

Concludo dicendo che, in ogni caso, la questione del crocifisso in aula andrebbe affrontata non tanto in sede legale, quanto attraverso la maturazione culturale del dibattito nel nostro Paese; una sentenza impositiva, per quanto giusta e formalmente ineccepibile, potrebbe portare a reazioni contrarie che lederebbero, quelle sì, l’idea di laicità della nostra cultura. È necessario comprendere l’importanza del dialogo interculturale, aprirsi alle differenze, accogliere la diversità e ribadire la propria identità, per raggiungere il vero scopo dello Stato laico: abbattere muri e frontiere, non costruirne di nuove.

 

Note

[1] Sentenza “Lautsi v. Italy 03.11.2009”, disponibile per consultazione sul sito HUDOC – European Court of Human Rights, sezione “Chamber judgements”.

[2] Ad esempio, quanto emerge in taluni interventi nel dibattito ospitato sulla rubrica “il Chiosco” del quotidiano Calabria Ora.

[3] “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”, Esodo 20, 4.

[4] Espressione che, in ogni caso, non data molto indietro nel tempo: la legge più vecchia in materia risale al periodo pre-unitario, è la Legge Casati del 1859, attuata peraltro cinquant’anni più tardi dal regio decreto 150/1908.

[5] “Di’ alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli; questo sarà più atto a distinguerle dalle altre, e a che non vengano offese”, sura XXXIII, 59.

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