di Nicola Fiorita

  • P. BRANCA, Yalla Italia, Edizioni lavoro, Roma, 2007, pp. 190
  • N. FÜRSTENBERG, Chi ha paura di Tariq Ramadan?, I libri di Reset, Marsilio, Venezia, 2007, pp. 198
  • Y. PALLAVICINI, Dentro la moschea, Rizzoli, Milano, 2007, pp. 516

 Yalla Italia rappresenta il più recente lavoro di un autore da tempo considerato tra i più noti ed acuti studiosi italiani del mondo islamico. Tutta la produzione scientifica di Paolo Branca si caratterizza per la pacatezza dei toni e la profondità dell’analisi, costantemente refrattaria ai clamori mediatici, immune dalle facili strumentalizzazioni di ogni segno e orientata piuttosto a diffondere quella conoscenza dell’Islam senza la quale risulta impossibile elaborare risposte adeguate alle sfide della modernità. Un compito di per sé complesso che rischia di divenire titanico in un contesto attraversato, oltre che da pericolosi fondamentalisti inclini ad usare la religione per legittimare il proprio discorso politico, anche da veri e propri “professionisti dell’anti-Islam”, come dimostrano gli ingenerosi attacchi che sono stati lanciati contro lo studioso milanese da parte del vicedirettore (e dai suoi immancabili epigoni) di uno dei maggiori quotidiani nazionali.

Yalla Italia risente in alcuni passaggi di questo clima (benché l’Autore si sforzi di restare fedele al suo stile sobrio e moderato), ma soprattutto paga un prezzo, in termini di profondità e complessità, al taglio fortemente divulgativo che lo caratterizza. Se certamente questo volume non rappresenta l’opera più importante di Paolo Branca, esso però si segnala per il prezioso pregio di parlar chiaro su argomenti di grandissima attualità e di offrire al lettore non solo notizie e informazioni di un certo rilievo quanto soprattutto un’utile chiave di lettura applicabile a tutte le questioni più recenti che coinvolgono l’Islam. E’ una chiave di lettura che rifugge da ogni forzatura, che contesta il pervicace tentativo di costruire una intrinseca inconciliabilità tra Islam e occidente ma anche lo scivolamento verso una lettura “buonista” dell’Islam, è una meditata impostazione che non si nasconde i problemi ma neppure li ingigantisce al fine di renderli sostanzialmente irresolubili. Con sincerità e lucidità, Paolo Branca sciorina le tante difficoltà che connotano il rapporto tra Islam e occidente e cerca di inserirle in una visione “alta”, capace di apprezzare tutti gli elementi (storici, politici, economici) che concorrono o hanno concorso a produrre l’arretratezza del mondo islamico e a definire i suoi rapporti con la modernità nei termini attuali, senza sottrarsi all’impegnativo compito di indicare soluzioni o cammini percorribili per stemperare incomprensioni e fraintendimenti.

            Yalla Italia non è un libro sull’Islam italiano, o perlomeno non è solo un libro sull’Islam italiano. La prima parte del volume, infatti, si sviluppa intorno ad un’ampia riflessione sull’Islam globale, sulle sue caratteristiche e sui suoi valori fondanti. Così che, in queste battute iniziali, l’obiettivo dell’Autore sembra essere principalmente quello di ripulire il campo d’indagine dai tanti stereotipi che sono andati consolidandosi nel corso dei secoli.

Tra i numerosi profili di interesse, voglio ricordare le pagine dedicate al tema particolarmente controverso dell’applicazione e dell’interpretazione della legge religiosa. Al momento di sottoporre ad una stringente analisi critica quelle correnti di pensiero radicali che si affannano a riproporre una lettura rigida e atemporale del Corano, Paolo Branca non sceglie la strada più scontata – quella che conduce ad opporre versetto a versetto, interpretazione a interpretazione, esempio ad esempio -, preferendo suggerire un’impostazione completamente diversa, che non accetti il terreno scelto dai conservatori e rilanci al contrario l’idea di una lettura storicizzata del Testo sacro. Solo questa via, difatti, sembra permettere al mondo orientale di procedere verso quella combinazione tra tradizione e modernità che rappresenta l’unica possibilità per tutte le società che intendano progredire senza rinunciare alla propria identità e ai propri valori. Peraltro, laddove questa impostazione fosse definitivamente recepita, molti dei problemi che oggi appesantiscono l’evoluzione di questi Paesi (dalla mancata separazione tra ordine delle cose temporali e ordine delle cose spirituali al ritardo accumulato in tema di riconoscimento dei diritti umani) sarebbero probabilmente destinati a ridimensionarsi con sorprendente rapidità.

Non mi sembra un caso, da questo punto di vista, il riferimento introdotto nel volume all’opera di Tariq Ramadan. Personaggio altamente controverso e oggetto dei più disparati giudizi, Ramadan rappresenta oggi una figura centrale dell’Islam europeo in quanto studioso che propone significative innovazioni nel tessuto giuridico tradizionale pur mantenendosi all’interno della comunità religiosa e che cerca nelle fonti sacre gli elementi che permettano all’Islam di intercettare e metabolizzare le grandi conquiste della civiltà europea. All’intellettuale svizzero, di famiglia egiziana, è dedicato interamente il volume di Nina zu Fürstenberg, che si lascia apprezzare per la scrittura fresca e per i rimandi continui alle questioni concrete ma soprattutto per il contributo di riflessione sulle dinamiche che attraversano le comunità islamiche occidentali, ovvero l’Islam che si forma e che vive intorno a noi.

Sebbene, come è ovvio, siano presenti nel territorio europeo gruppi islamici di origine, provenienza e ideologia diversa, portatori di strategie di insediamento altrettanto diversificate, non v’è dubbio che il consolidamento della loro presenza nei confini europei stia lentamente producendo delle ibridazioni significative che potrebbero produrre mutamenti decisivi nell’interpretazione dei comandi e dei divieti di origine divina e che potrebbero generare un salutare effetto-cascata nella più complessiva attuazione su scala globale del diritto islamico. In questo processo, Tariq Ramadan – per la sua storia, per il suo carisma, per la sua autorevolezza – occupa un ruolo fondamentale ed insostituibile. Nelle sue opere vi è già la configurazione di un Islam rinnovato, capace di vivere in armonia con i principi occidentali senza per questo cessare di essere una fede religiosa fondata sulla prevalenza della comunità sull’individuo, della giustizia sociale sul profitto, dell’obbedienza sulla libertà, ovvero senza rinunciare ad essere se stesso.

L’obiettivo di una piena integrazione dei mussulmani in Europa fondata sulla condivisione dei principi democratici, dei diritti umani e della laicità dello Stato, appare così (sorprendentemente) a portata di mano, ma richiede al contempo la realizzazione di un duplice sforzo. Da un lato, occorre che i mussulmani si liberino delle interpretazioni tradizionaliste del Corano, come delle letture arbitrarie della sharî’a fornite strumentalmente dagli specialisti del sapere religioso nel corso dei secoli per legittimare regimi illiberali, e spingano per la riapertura della porta del ragionamento indipendente: il Corano presenta numerosi versetti che, ove si proceda a contestualizzarli e a depurarli delle incrostazioni autoritarie, permetterebbero già una piena armonia tra legislazioni europee e diritto islamico. Dall’altro lato, occorre che i sistemi giuridici occidentali, sempre secondo Ramadan, rinuncino a relegare la religione nella sfera privata e si impegnino a garantire l’assoluta eguaglianza tra tutte le confessioni religiose che agiscono nella sfera pubblica: assenza di discriminazioni interne e assenza di discriminazioni esterne permetterebbero finalmente a tutti gli individui di origine musulmana (uomini e donne, credenti e non credenti, ferventi religiosi e tiepidi fedeli, convertiti e apostati) di partecipare a pieno titolo alla vita sociale europea, contribuendo al suo progresso e introiettandone i valori essenziali.

Queste posizioni, così brevemente sintetizzate, hanno calamitato dissensi radicali e critiche feroci da tutti i versanti della cultura islamica ed europea. La vicinanza di Tariq Ramadan ai Fratelli Musulmani e la sua fiera difesa dell’Islam lo hanno fatto sospettare di doppiezza, di ipocrisia e di tendere subdolamente all’islamizzazione del territorio europeo; la sua imponente opera di riforma e di adeguamento storico del diritto islamico gli sono valse le contrapposte accuse di tradimento del mondo mussulmano, di occidentalizzazione, di incompatibilità con la fede nell’Islam. In particolare, mi pare opportuno richiamare quelle tante critiche che sono state avanzate dai pensatori di origine mussulmana, fermi nel denunciare i cedimenti eccessivi nei confronti dei valori europei contenuti nel pensiero di Ramadan o, all’opposto, l’insufficienza di un pensiero che continua a muoversi secondo le categorie tradizionali ostacolando di fatto il cammino verso un Islam davvero liberale. L’ampiezza di questo dibattito, colpevolmente celato dai grandi mezzi di comunicazione all’opinione pubblica europea, dimostra la vitalità dell’Islam contemporaneo e induce a ritenere che stiano maturando i tempi per un confronto globale tra le diverse anime di questa religione.

Se pure tale ricchezza di posizioni risulta agevolata dall’assenza di un potere centrale e sovraordinato capace di imbrigliare le diverse opinioni con i richiami al rispetto dell’ortodossia, l’assenza di un’autorità che possa ricondurre ad unità questa proliferazione di voci rischia di alimentare la frammentazione del mondo islamico, di permettere il rafforzamento di gruppi violenti pseudo-religiosi e di amplificare un frastuono di interpretazioni in cui i tentativi riformisti più lucidi finiscono con il confondersi ed annullarsi. L’Islam, questo Islam così incerto sul suo futuro, spinto a confrontarsi con quei principi occidentali con cui milioni di mussulmani devono rapportarsi quotidianamente, combattuto tra un ritorno al passato e un’apertura ai segni dei tempi, pare sempre più necessitare di un evento che possa schiudere una via islamica alla democrazia. Oggi, il bisogno principale dell’Islam sembra proprio quello di vivere il suo Concilio Vaticano II o comunque di trovare un luogo e un momento di discussione libera tra tutte le sue componenti che generi una grande stagione di innovazione condivisa e partecipata.

Sin dal titolo del libro si intuisce come l’Autrice non nasconda le proprie idee e le proprie simpatie, intendendo al contrario schierarsi apertamente in difesa di Ramadan e impegnandosi a sottoporre ad un attento vaglio critico le tesi dei suoi principali detrattori. Non interessa, in questa sede, dilungarsi sulla vita di Ramadan e neppure pronunciarsi sulle polemiche che continuano ad investirne l’attività, ma certo si può convenire con Nina zu Fürstenberg quando si tratta di valutare il valore del pensiero di Ramadan e le ricadute che esso può produrre. A questo prolifico Autore si devono teorie, come quella che configura l’Europa quale dimora della testimonianza dei mussulmani e quindi terra di pace, e prese di posizione, come quella sulla moratoria delle pene corporali, che aprono scenari inediti e che modificano in profondità il dibattito interno al sapere giuridico-religioso dell’Islam. Ragioni che mi appaiono più che sufficienti per continuare a seguire con attenzione il lavoro di Ramadan e per impegnarsi ad evitare che la sua voce venga, più o meno esplicitamente, tacitata.

Altra voce che merita un attento ascolto è quella di Yahya Pallavicini, imam della mosche al-Wahid di Milano ed indiscusso leader di una delle prime organizzazioni (la Co.re.Is) islamiche sorte in Italia. Il suo volume è principalmente diretto, per l’appunto, a far conoscere ad un pubblico più vasto della ristretta cerchia di specialisti l’esistenza di un Islam italiano moderato (diffuso sull’intero territorio nazionale anche se certamente minoritario), illustrando l’azione dialogante e ragionevole della comunità, la sua presenza in alcuni organismi statali come la Consulta istituita presso il Ministero dell’Interno e l’operato dei suoi principali esponenti. Sullo sfondo si intravedono i piccoli passi compiuti dall’Islam italiano verso la costruzione di un pensiero autonomo e di un ceto dirigente autoctono ma emergono anche con chiarezza le linee di frattura tra le sue componenti, non sempre disposte a convergere verso l’unità e non sempre aperte al confronto sereno.

E’ facilmente percepibile, nel lavoro di Pallavicini, il peso esercitato dall’essere una delle parti in causa, ovvero il rappresentante di quella comunità maggiormente indirizzata a muoversi con prudenza, sostanzialmente disposta a condividere il destino delle restanti minoranze religiose che operano in Italia, e perciò orientata a conformarsi alle leggi generali limitandosi a chiedere di potere accedere ai privilegi riconosciuti a tutte le altre confessioni. L’eco del confronto aspro tra le molteplici anime dell’Islam italiano giunge ben riconoscibile nelle pieghe di questo volume, al cui Autore capita più volte di attardarsi nella confutazione delle posizioni assunte dall’UCOOI, nella valorizzazione delle differenti strategie che orientano le singole comunità nei loro rapporti con lo Stato e nella sottolineatura delle distanze che le separano in ordine a questioni cruciali, come il velo islamico, la qualifica del venerdì quale giorno di riposo, la formazione e la selezione degli imam italiani. Ma ancor più netta, direi anzi assoluta ed intransigente, è la chiusura nei confronti delle posizioni teoriche cui si rifanno i mussulmani integralisti, chiaramente percepiti da Pallavicini non come “islamici che sbagliano” ma come veri e propri nemici dell’Islam e dei suoi fedeli.

Un atteggiamento che ritroviamo in forma ancora più nitida nella sezione del volume che ospita le voci dei singoli imam che aderiscono alla Co.re.Is, che sono per l’appunto voci di contrasti e recriminazioni, stanze di vita quotidiana che restituiscono il senso della fatica e delle difficoltà in cui si muovono gli islamici moderati che vivono in Italia, costretti a zig-zagare tra la negazione delle loro irrinunciabili esigenze religiose posta in essere da amministrazioni locali islamofobiche ed i disegni egemonici di organizzazioni islamiche più organizzate o più ricche che propugnano una lettura tradizionalista delle fonti sacre o comunque un Islam più politico che religioso. E’ proprio questo contesto che spinge gli islamici moderati a guardare con fiducia finanche eccessiva a quegli organi statali che danno loro rappresentanza e visibilità, agevolando di fatto la difesa delle loro autonomia e permettendo di mantenere vivo l’esempio di un Islam spirituale e ragionevole che sarebbe altrimenti destinato ad un’inevitabile marginalizzazione.

Più equilibrata, dunque, finisce con il risultare la descrizione dell’Islam italiano sulla quale ruota la parte conclusiva di Yalla Italia, cui è ora di tornare a guardare. Nemmeno in questa seconda sezione del libro mancano i riferimenti alle delicate controversie che vedono coinvolti i mussulmani che vivono in Italia – dalla nota vicenda della scuola islamica di viale Jenner a Milano ai tanti chiaroscuri che accompagnano la nascita e la vita delle moschee -, ma anche in questa occasione l’interesse principale del volume risiede non tanto nei particolari quanto piuttosto nel quadro complessivo che va delineandosi pagina dopo pagina. Come Yahya Pallavicini, ma senza farsi trasportare dall’onda lunga delle polemiche e senza farsi sviare dalle urgenze della propaganda, Paolo Branca ci racconta in fondo l’altro Islam, quello che resta schiacciato tra la strumentalizzazione jihadista e la retorica identitaria cui si dedicano intellettuali e politici folgorati sulla strada che conduce verso lo scontro di civiltà. Uno scontro che, a ben vedere, non c’è, non si consuma nelle nostre città nonostante l’impegno di tanti nel costruirlo. Quello in corso, scrive Branca (p. 17), è al contrario un processo di meticciato in cui ciascuno potrebbe offrire e prendere qualcosa, se non fosse che tutti pagano (paghiamo) il prezzo della propria impreparazione rispetto a trasformazioni sociali così rapide e profonde.

Ma se, come anche a me pare, tali processi sono allo stesso tempo inarrestabili ed irreversibili, allora non resta altra strada che quella di cercare di governarli nel miglior modo possibile, di rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Consapevolezza che, per coloro i quali di professione producono e divulgano sapere, significa principalmente scrivere libri, o anche piccole e  modeste recensioni.

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