di Pasquale Laghi

Si riporta, per gentile concessione dell’autore, la nota a Cass. civ., sez. III, ord. 25 luglio 2022, n. 23067, già pubblicata in Foro italiano, 2022, I, 3064, secondo cui la clausola con la quale il de cuius dichiara di non attribuire beni al coniuge non configura una disposizione diseredativa, in quanto volta semplicemente ad escluderlo dal beneficio delle sole disposizioni testamentarie, atteso che il coniuge conserva, comunque, la qualità di erede necessario cui spetta la quota legittima.

La Suprema corte interviene incidentalmente — nel contesto di un giudizio promosso per il recupero di un finanziamento nei confronti degli eredi di uno dei debitori — sul tema della diseredazione del legittimario e sulle correlate questioni connesse agli effetti che ne derivano sulla vocazione del successore che ne sia colpito, colte, soprattutto, con riguardo all’acquisto della qualità di erede del de cuius e del relativo conseguimento della legittimazione passiva nell’ambito dei giudizi promossi contro costui.

Per vero, stante la marginalità del capo decisorio nell’economia del giudizio — comunque oggetto di un autonomo motivo di ricorso — non è dato sapere l’esatto tenore della clausola negativa contenuta nell’atto di ultima volontà, se non che attraverso di essa il testatore abbia stabilito di non lasciare alcun bene al coniuge, in quanto questi sarebbe stato già titolare di sostanze proprie. Ebbene, a fronte della doglianza di quest’ultimo, che asseriva d’esser stato estromesso dalla devoluzione ereditaria del de cuius, risultando, perciò, carente di legittimazione passiva rispetto alla pretesa restitutoria del creditore del defunto, la corte ha negato che la disposizione testamentaria in esame potesse integrare una clausola diseredativa, dovendosi ritenere finalizzata alla semplice esclusione del legittimario dalle sole attribuzioni testamentarie, atteso che questi, proprio in ragione della posizione soggettiva rivestita rispetto al de cuius (coniuge), avrebbe conservato la qualità di erede necessario ex art. 536 c.c., cui spetta sempre la quota legittima, non suscettibile d’esser intaccata dal testatore.

Nonostante per il corretto inquadramento della questione sarebbero stati necessari ulteriori elementi fattuali — volti, se non altro, a cogliere l’esatto contenuto della scheda testamentaria, onde appurare se alla devoluzione ereditaria del de cuius si sia ovviato attraverso il ricorso alle regole della successione testamentaria o di quella legittima, ovvero ancora attraverso il concorso tra di esse ex art. 457, 2° comma, c.c. — il principio espresso dalla Suprema corte merita d’esser sottoposto ad un vaglio critico che — attingendo al contributo che l’argomento ha ricevuto tanto in sede pretoria che dottrinale —, da un lato, chiarisca il regime giuridico da doversi accordare alle disposizioni destitutive che colpiscono la posizione ereditaria di un legittimario e, dall’altro, gli effetti che, dalle stesse, in ogni caso, discendono con riguardo all’acquisizione della qualità di erede da parte del medesimo, con il portato di conseguenze che da ciò si ricavano in punto di legittimazione passiva nei giudizi che concernono il de cuius.

Si tratta di questioni che, a ben vedere, finiscono inevitabilmente per intrecciarsi con quelle riconnesse alla tutela dei creditori, sul piano degli strumenti concretamente utilizzabili dagli stessi per realizzare i propri interessi, a fronte di un potenziale impiego fraudolento di disposizioni diseredative ovvero del ricorso alla preterizione del legittimario che, nella delicata interazione sistematica con altri istituti di diritto ereditario, potrebbero rendere quanto meno disagevole l’effettiva realizzazione delle rispettive ragioni di credito.

Prescindendo dalle differenti questioni relative all’ammissibilità della clausola di esclusione di un successibile ab intestato, quandanche essa esaurisca il contenuto dell’atto di ultima volontà — risolte positivamente dall’ultimo arresto di legittimità (Cass. 25 maggio 2012, n. 8352), che, recependo in pieno gli impulsi dottrinali in argomento (M. BIN, La diseredazione. Contributo allo studio del contenuto del testamento, Torino, 1966, 69 ss.), l’ha ricondotta nell’alveo disciplinare definito dall’art. 587 c.c. ovverosia delle manifestazioni volitive per mezzo delle quali il de cuius «dispone» di tutte le proprie sostanze o di parte di esse, convergendo, quindi, nella complessiva funzione regolativa della devoluzione ereditaria che di per sé costituisce la «causa unitaria» del testamento, alla quale partecipano disposizioni tanto «attributive» che «negative» (P. LAGHI, La clausola di diseredazione: da disposizione «afflittiva» a strumento regolativo della devoluzione ereditaria, Napoli, 2013) — il problema della diseredazione del legittimario — al netto delle insistenti istanze riformistiche che propendono per il suo inserimento nel sistema, affrancando la legittima dall’angusta e formalistica qualificazione di «rendita da posizione», per renderla più rispondente ai criteri del «merito» e del «bisogno», adeguandola, quindi, a quelle variegate esigenze di giustizia sostanziale che emergono nelle dinamiche familiari (P. LAGHI, Famiglie «ricomposte» e successione necessaria: problematiche attuali, soluzioni negoziali e prospettive de iure condendo, in Contratto e impr., 2017, 1359 ss.; G. PERLINGIERI, Il «discorso preliminare» di Portalis tra presente e futuro del diritto delle successioni e della famiglia, in Dir. successioni e famiglia, 2015, 679) — può, allo stato attuale, essere affrontato solo sul piano delle conseguenze sanzionatorie derivanti dall’ipotesi in cui il testatore abbia inserito nell’atto di ultima volontà una dichiarazione di tal fatta, in quanto evidentemente stridente con l’intensa tutela normativa che il legislatore accorda ai riservatari.

In argomento, in dottrina si sono sviluppati orientamenti affatto differenti — influenzati dalla maggiore o minore propensione ideologica dell’interprete verso un più intenso ruolo dell’autonomia privata nel contesto successorio — l’uno proteso a sostenere la «nullità» della disposizione diseredativa di un legittimario, sulla scorta delle previsioni normative emergenti dagli art. 457, 3° comma, c.c. — per il quale «le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari» (v. D. RUSSO, La diseredazione, Torino, 1998, 200) — e 549 c.c., secondo cui «Il testatore non può imporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimari» (M. BIN, La diseredazione, cit., 257), ancorché non sia mancato chi ha sostenuto la tesi dell’invalidità radicale sulla scorta dell’art. 1343 c.c. affermandone l’illiceità per contrarietà a norme imperative (L. BIGLIAZZI GERI, A proposito di diseredazione, in Corriere giur., 1994, 1503), ovvero al principio di solidarietà familiare avente rilevanza costituzionale, o ancora, sul piano tecnico, per la sua natura meramente negativa e non attributiva di diritti (P. LAGHI, La clausola di diseredazione, cit., 82); l’altro, attualmente maggioritario, volto a considerare la disposizione diseredativa come «indirettamente attributiva in favore di terzi» e, perciò, valida, seppur suscettibile d’esser sottoposta a riduzione ex art. 553 c.c. entro i limiti della quota di legittima (M. TATARANO, La diseredazione. Profili evolutivi, Napoli, 2012, 142 ss.).

Nelle trame di quest’indirizzo, si colloca anche quell’opinione (G. PERLINGIERI, Il patto di famiglia tra bilanciamento dei principî e valutazione comparativa degli interessi, in AA.VV., Liberalità non donative e attività notarile, Milano, 2008, 132 ss.) che, valorizzando gli indici normativi emergenti dal sistema, tende ad un ragionevole bilanciamento degli interessi contrapposti, proponendo di considerare l’azione di riduzione come uno strumento volto a garantire una tutela per equivalente, attraverso il sorgere del diritto del successore necessario ad «una legittima in denaro» o per valore, e non già «in natura o restitutoria», che nell’ipotesi della diseredazione potrebbe assumere una particolare funzionalità proprio in considerazione dell’assenza del carattere attributivo della relativa disposizione.

L’opzione per l’uno o per l’altro orientamento non v’è dubbio che richieda un’attenta analisi esegetica che chiarisca i concetti di «disposizione», «pesi» e «condizioni» rispettivamente richiamati dagli art. 553 e 549 c.c., al cui esito può ritenersi che, se con la prima nozione si fa riferimento a una manifestazione volitiva funzionalmente volta all’attribuzione di «diritti» verso terzi, in quanto tale idonea a ledere solo «indirettamente» la posizione del legittimario, con le altre due si allude a clausole che «direttamente» incidono su quest’ultima, imponendovi una limitazione, ma senza che per effetto di esse vengano immediatamente devoluti diritti ad altri soggetti. Siffatta evenienza, con evidenza è quella che ricorre nell’ipotesi di diseredazione del legittimario, atteso che la disposizione in questione colpisce direttamente la posizione ereditaria del successore necessario, solo di riflesso imprimendo un differente orientamento soggettivo all’attribuzione delle sostanze ereditarie (P. LAGHI, Diseredazione, voce del Digesto civ., aggiornamento X, Torino, 2016, 224).

Ciò detto, non v’è dubbio che accedendo alla tesi della riducibilità — ancorché de iure condendo essa appaia auspicabile — si finirebbe per snaturare l’intento destitutivo della disposizione, intendendola come volta a limitare l’attribuzione in favore del riservatario alla sola quota indisponibile, sulla scorta di un’evidente fictio non rispondente neanche ad una volontà «presunta» (o anche solo presumibile) del testatore. Appare dirimente, al fine di trovare una corretta soluzione al problema in analisi, soffermarsi sulle caratterizzazioni proprie della «vocazione» del legittimario e analizzare i meccanismi operativi della disposizione diseredativa. Ebbene, non v’è dubbio che la «vocazione» dell’erede necessario abbia carattere «unitario», sicché la stessa, da un lato, non tolleri d’esser frazionata e diversificata con riguardo alla «quota di legittima» e a quella «disponibile» (cfr. D. RUSSO, La diseredazione, cit., 201) e, dall’altro, essa non si configuri come un tertium genus di vocazione, distinto da quella legittima o testamentaria, costituendo la successione necessaria solo un sistema di tutele riconosciuto a determinati soggetti, in ragione della loro qualità nel rapporto col de cuius, che trova applicazione tanto nel contesto della successione ab intestato che della successione testamentaria (P. LAGHI, Il diritto di abitazione del coniuge superstite nella successione legittima: lacune normative ed interpretazione assiologica, in Corti calabresi, 2014, 596 s.; C. COPPOLA, I diritti di abitazione e d’uso spettanti ex lege, La successione legittima, in Tratt. succ. don. Bonilini, Milano, 2009, 119). Ne deriva, pertanto, che la clausola destitutiva incida direttamente sulla «vocazione» unitaria del legittimario con lo scopo di rimuoverla radicalmente, così che la stessa debba ritenersi «nulla» in quanto collidente con quel complesso di norme poste a tutela dei riservatari.

Se da una parte non appare condivisibile — ancorché dal provvedimento in rassegna non emerga con precisione la formulazione testuale della clausola racchiusa nella scheda testamentaria — l’assunto per il quale non avrebbe carattere «diseredativo» la disposizione con la quale il de cuius afferma di non lasciare nulla al coniuge, in quanto già titolare di propri beni, atteso che non esistendo formule «sacramentali» codificate per esprimere la volontà destitutiva, questa deve necessariamente ricavarsi dal suo essere finalizzata a negare l’attribuzione di beni ad un soggetto che per legge ne avrebbe il diritto; del pari non convince l’interpretazione sulla scorta della quale la Suprema corte afferma che una siffatta dichiarazione sarebbe unicamente finalizzata ad escludere il legittimario dal beneficio delle disposizioni testamentarie. Infatti, a meno che non si voglia ricorrere ad un’evidente forzatura esegetica volta ad intendere la disposizione de qua come protesa a limitare l’attribuzione a favore del coniuge alla sola quota legittima — con l’evidente conseguenza di «trasformare» una disposizione negativa in una disposizione «implicitamente» istitutiva sulla scorta, però, di una volontà a dir poco presunta (della cui rilevanza è lecito dubitare) — è certo che la disposizione diseredativa (ancorché nulla) incida sulla «vocazione» del riservatario con lo scopo di rimuoverla.

Ebbene, laddove il contenuto della scheda testamentaria si esaurisca unicamente nella clausola destitutiva, non v’è dubbio che si aprirebbe la successione legittima — ovvero al concorso di questa con la successione testamentaria qualora nella scheda vi fossero altre disposizioni attributive ma solo a titolo particolare —, alla quale anche il legittimario invalidamente destituito parteciperebbe quale successore ex lege, attesa la sua sicura priorità normativamente riconosciutagli nel relativo ordine. Viceversa — per come sembra sia accaduto nel caso oggetto della decisione in epigrafe —, ancorché la disposizione diseredativa sia invalida, il legittimario colpitone non acquisterebbe automaticamente la qualità di erede, stante la presenza nell’atto di ultima volontà di disposizioni attributive a titolo universale a favore di altri soggetti, quand’anche espresse nella modalità dell’institutio ex re certa, dotata di vis espansiva; sicché dovrebbe ritenersi che l’invalida destituzione del legittimario produrrebbe effetti equivalenti a quelli della sua semplice «preterizione»; atteso che la lesione della legittima che questi subirebbe, non deriva dalla invalida diseredazione, ma dalla presenza di disposizioni attributive in favore di altri soggetti. Ciò in quanto, se è vero che, malgrado la disposizione diseredativa il legittimario conserva quel sistema di tutele che la legge gli riconosce in virtù della propria «qualità» soggettiva che gli deriva dalla peculiare posizione che riveste nell’ordine familiare rispetto al de cuius, è, tuttavia, innegabile che ciò non implichi una «vocazione autonoma», né tanto meno determini immediatamente e di per sé, in capo al riservatario, l’acquisto automatico della qualità di erede. Perché ciò accada, appare necessario — in considerazione del tracciato parallelismo che intercorre tra «diseredazione invalida» e «preterizione» —, che quest’ultimo esperisca vittoriosamente le azioni di riduzione o di annullamento del testamento e, quindi, ottenga il riconoscimento dei suoi diritti di legittimario, in applicazione del principio di diritto che la corte ha avuto modo di riaffermare costantemente, seppur con riguardo al perimetro applicativo dell’art. 564, 1° comma, c.c., sostenendo l’operatività della condizione della preventiva accettazione con beneficio di inventario ai fini dell’esperimento dell’azione di riduzione, soltanto per il legittimario che rivesta allo stesso tempo la qualità di erede. Argomentazioni, queste, che, peraltro, trovano conferma nel principio pacificamente riconosciuto, per il quale il legittimario pretermesso, tanto nella successione legittima che testamentaria, qualora impugni per simulazione un atto posto in essere dall’ereditando, a tutela della propria quota di riserva, agisce in qualità di terzo e non già di erede, qualità, quest’ultima, che acquista solo a seguito del vittorioso esercizio dell’azione di riduzione. Ebbene, la circostanza per la quale «diseredazione» e «preterizione» possano determinare i medesimi effetti nei confronti del legittimario risulta confermata dall’analisi casistica operata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 3 luglio 2013, n. 16635, Foro it., Rep. 2013, voce Successione ereditaria, n. 184), che ha avuto modo di riconoscere la ricorrenza della «preterizione», allorquando: a) nella successione testamentaria il testatore abbia disposto a titolo universale dell’intero asse a favore di altri, in base alla considerazione che, a norma dell’art. 457, 2° comma, c.c., questi non è chiamato all’eredità fino a quando l’istituzione testamentaria di erede non venga ridotta nei suoi confronti; b) nella successione ab intestato, il de cuius si sia spogliato in vita dell’intero suo patrimonio con atti di donazione, considerato che per l’assenza di beni relitti, il legittimario viene a trovarsi nella necessità di esperire l’azione di riduzione a tutela della situazione di diritto sostanziale che la legge gli riconosce (cfr. Cass. 7 ottobre 2005, n. 19527, id., 2006, I, 1834, con nota di richiami, e Riv. not., 2008, 211, con nota di Alessandrini Calisti). Situazioni, queste, coincidenti con quella in cui l’ereditando abbia diseredato il legittimario, devolvendo i beni ad altri per via testamentaria ovvero previamente attribuendoli a titolo donativo a terzi. Da quanto detto, ne deriva che il legittimario diseredato, ancorché invalidamente, non acquisendo immediatamente la qualità di erede, non acquista in via automatica, per effetto del solo fatto della morte del testatore ovvero della sua mera qualità di legittimario (che, lungi dall’essere espressiva di una posizione ereditaria attuale è indicativa di una qualità derivante dallo status familiare, abilitante al ricorso di specifici strumenti di tutela al cui positivo esperimento può seguire l’acquisto della qualità di erede), la legittimazione passiva a stare nel giudizio intentato dai creditori del de cuius.

Le precedenti considerazioni aprono alla più ampia questione relativa alla tutela dei creditori, ciò in quanto la diseredazione, così come la «preterizione», potrebbero essere fraudolentemente preordinate (se non addirittura concordate tra testatore e legittimario) a ledere le ragioni di questi ultimi. Il problema deve essere affrontato innanzitutto con riguardo ai creditori del legittimario invalidamente diseredato, i quali, nonostante si neghi che il riservatario destituito ottenga automaticamente la qualità (e la correlata posizione giuridica) di erede del de cuius, ciò nondimeno non sarebbero impediti nel soddisfacimento dei propri interessi. È, infatti, ormai acclarato, seppur relativamente ai legittimari totalmente pretermessi — ma con evidente estensibilità del principio in diritto, fondata sull’equiparazione effettuale che ricorre con il caso della diseredazione — rimasti inerti nella tutela dei rispettivi diritti riservati, che i loro creditori possano esercitare, in via surrogatoria rispetto ad essi, azione di riduzione nei confronti delle disposizioni lesive, atteso che è lo stesso dato testuale emergente dall’art. 557, 1° comma, c.c. che, individuando i soggetti che possono domandare la riduzione, fa riferimento esplicito ai legittimari, ai «loro eredi o aventi causa», così confermando la natura patrimoniale dell’azione e di conseguenza la sua «cedibilità» e «trasmissibilità»; essendo stato ormai fugato ogni dubbio relativo alla ricomprensione nella locuzione «aventi causa» anche dei creditori del riservatario. Una tale soluzione — che, come evidente, richiede il bilanciamento tra due situazioni contrapposte, dovendosi contemperare la libertà di esercizio dei diritti di natura personale, quale appunto quello di accettare o meno l’eredità (in accordo con il principio per cui nessuno può assumere la qualità di erede contro la propria volontà), con l’esigenza di preservare la garanzia patrimoniale dei creditori — discende, per come già rilevato dalla stessa corte (Cass. 20 giugno 2019, n. 16623), dall’interpretazione sistematica delle previsioni di cui agli art. 557, 2900 e 524 c.c. In ragione di essa, l’art. 2900 c.c. consente al creditore di esercitare in via surrogatoria i diritti e le azioni che spettano al proprio debitore verso i terzi, a condizione che non si verta nel contesto di diritti o di azioni indisponibili od aventi natura personalissima, ma che abbiano carattere patrimoniale; carattere che sulla scorta di quanto già osservato a fronte dell’inciso di cui all’art. 557, 1° comma, c.c. deve riconoscersi all’azione di riduzione.

Peraltro, la legittimazione dei creditori del legittimario può ulteriormente argomentarsi muovendo dall’interpretazione a contrario — vale a dire volta a ricavarne anche il portato disciplinare implicito sulla scorta di un ragionamento logico-deduttivo — del 3° comma della norma da ultimo citata, che nega ai «soli» creditori «ereditari» la possibilità di chiedere la riduzione delle disposizioni lesive se il legittimario ha accettato con beneficio di inventario. Non v’è dubbio, però, che l’accoglimento dell’azione di riduzione esercitata in via surrogatoria dai creditori — e che necessariamente ai sensi del disposto dell’art. 2900, 2° comma, c.c., che prevede il litisconsorzio necessario del debitore, deve veder convenuto in giudizio anche il legittimario inerte —, non determini l’acquisto della qualità di erede, né per il legittimario pretermesso (o invalidamente diseredato) né tanto meno per costoro, per come indirettamente evincibile dall’esegesi teorico-giurisprudenziale dell’art. 524 c.c.; norma che — seppur dettata in tema di rinunzia all’eredità lesiva delle ragioni dei creditori presenta uno stretto collegamento analogico con i casi della preterizione e della diseredazione del legittimario —, affermando che i creditori del chiamato possono «farsi autorizzare ad accettare l’eredità in nome e luogo del rinunziante, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino a concorrenza dei loro crediti», non prende in considerazione la qualità ereditaria, perseguendo «una finalità propriamente economica» che è quella di «consentire in via esclusiva la soddisfazione delle ragioni dei creditori sul compendio ereditario oggetto di rinuncia», con la logica conclusione che essa si limiti soltanto a conferire a costoro «una speciale legittimazione» funzionale al soddisfacimento dei rispettivi interessi. Per quanto concerne i creditori del defunto, invece, risulta chiaramente vano porsi il problema, stante la formulazione esplicita dell’art. 537, 3° comma, c.c. che esclude che gli stessi possano surrogarsi nell’esercizio dell’azione di riduzione al legittimario che abbia accettato con beneficio di inventario. Previsione quest’ultima che risulta coerente con quanto stabilito dall’art. 490 c.c., a norma del quale «l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari oltre il valore dei beni (ereditari) a lui pervenuti». Tanto meno potrebbe argomentarsi al riguardo un trattamento pregiudizievole per i creditori con riguardo alle donazioni poste in essere in vita dal de cuius, rispetto alle quali avrebbero avuto titolo a sindacarne l’opponibilità nei loro confronti, attraverso l’esperimento di azione revocatoria ordinaria, profilandosi, all’evidenza, in capo a loro, un interesse che sarebbe stato suscettibile di immediata tutela. Viceversa, qualora il chiamato abbia accettato in modo puro e semplice, stante la confusione tra patrimonio del de cuius e patrimonio dell’erede, i creditori possono agire surrogandosi al legittimario che non provveda a esercitare l’azione di riduzione, così indirettamente pregiudicando le ragioni di costoro. Tuttavia, affinché ciò possa verificarsi è pur sempre necessario che il legittimario abbia provveduto ad accettare l’eredità, effetto questo che, conformemente ai principî generali, potrebbe avvenire anche tacitamente, ad esempio resistendo nel giudizio intentato dai creditori del defunto, assumendovi la qualità di erede, ecc., ma che di sicuro non costituisce un effetto automatico riconnesso al verificarsi della morte del de cuius ovvero scaturente dalla semplice qualità soggettiva di legittimario. Pertanto, a fronte del permanere della situazione di incertezza, altro rimedio non vi sarebbe per i creditori, al fine di fugarla, che promuovere nei confronti del legittimario pretermesso o diseredato azione interrogatoria ex art. 481 c.c., onde ottenere la fissazione di un termine entro cui il chiamato ex lege possa determinarsi se accettare o rinunziare; in quest’ultima ipotesi, comunque, potendo ricorrere — sussistendone le condizioni — al rimedio di cui all’art. 524 c.c. (Cass., ord. 11 novembre 2021, n. 33479, ForoPlus; Trib. Roma 18 marzo 2021, Foro it., 2021, I, 1823, con nota di richiami).

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