di Maurizio Ferrari

La riapertura delle attività industriali, commerciali e artigianali, nella c.d. “Fase 2” dell’emergenza sanitaria (DPCM 26 aprile 2020), per un verso costituisce un recupero della libertà d’iniziativa economica, compressa dalle misure emergenziali adottate a tutela della salute pubblica, in applicazione degli artt. 32 e 41, comma 2, Cost., per l’altro pone gli imprenditori di fronte all’intensificarsi dell’esposizione a responsabilità civile, normalmente gravante sugli stessi quali datori di lavoro, per effetto dell’improvviso sopraggiungere della pandemia e dell’elevato rischio di contagio da coronavirus cui si è fatto fronte con il c.d. “Lockdown”.

A norma dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro è titolare ex lege di un debito di sicurezza avente ad oggetto la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro, i quali ne sono correlativamente creditori. L’estensione di tale rapporto obbligatorio è determinata, tempo per tempo, dall’evoluzione del sistema normativo della prevenzione dei rischi nei luoghi in cui si svolgono la attività lavorative, attualmente compendiato nel decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81 (testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, integrato co d, lgs. 3 agosto 2009 n. 106), che definisce il concetto di “salute”, quale diritto fondamentale riconosciuto dall’art. 32 Cost., in termini di benessere dell’individuo, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità, ma includente anche la dimensione psichica e sociale (art. 1, lett. o, t.u. cit.). In virtù di siffatto sistema il datore di lavoro è obbligato a prevenire ogni sorta di rischio (art. 16 stesso t.u.).

La giurisprudenza più recente, superando un precedente orientamento volto a circoscrivere restrittivamente la responsabilità ex art. 2087 c.c. solo alle ipotesi di colpa del datore, per violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale o anche suggeriti dalla tecnica, ma comunque concretamente individuati, si è orientata nel senso di far gravare sul datore di lavoro la responsabilità per gli infortuni dei lavoratori derivati dalla mancata predisposizione di misure di prevenzione del rischio c.d. «innominate», la cui adozione, pur non imposta dalla legge o altra fonte equiparata in relazione a rischi specifici, è comunque suggerita da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o da fonti analoghe (Cass. 30 giugno 2016, n. 13465, Foro italiano, 2016, I, 2705).

In base a tale orientamento giurisprudenziale, la responsabilità civile del datore di lavoro si riconnette alla garanzia di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. che, come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche quando faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori, secondo le norme tecniche e di esperienza fondate, se non sulla certezza scientifica, sulla probabilità o possibilità che si verifichi un evento dannoso per la salute (Cass. 28 febbraio 2019, n. 5813, Foro italiano, Le banche dati, Archivio Cassazione civile).

In questo quadro, normativo e giurisprudenziale, impatta la disciplina legislativa ed amministrativa che si sta producendo per governare la fase della riapertura delle attività economiche, con disposizioni e regole calibrate su criteri (distanziamento individuale, utilizzo di presidi di protezione personali e strutturali, sanificazione, aerazione degli ambienti, etc.) ancora non del tutto definiti (per altro complicati da un continuo sovrapporsi di regole nazionali, regionali e comunali), in buona parte affidate alla prudenza degli operatori economici che, conseguentemente, ne risultano responsabili civilmente qualora non dovessero rivelarsi sufficienti ad evitare il contagio.

La responsabilità civile del datore di lavoro, rispetto ai rischi cui sono esposti i prestatori d’opera, si configura essa stessa come un rischio gravante sull’imprenditore, tanto che il tradizionale assetto della tutela giuridica di questo rischio si inserisce nell’ambito dell’assicurazione sociale deputata a garantire l’indennizzo degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Assicurazione che si pone nell’alveo dell’art. 38, comma 2, Cost., perseguendo lo scopo di assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita dei lavoratori in caso di infortunio o malattia, e che viene esercitata dall’Inail, ente previdenziale istituito allo scopo.

Si tratta di un sistema di tutela affidato al modello assicurativo che, non essendo approdato alla piena socializzazione del rischio, ritrova tuttavia il fondamento del teorema della tutela di sicurezza sociale in una serie di corollari previsti dal d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, tra i quali spicca quello dell’esonero da responsabilità civile del datore di lavoro, previsto dall’art. 10, a mente del quale, nella formulazione originaria, l’esonero rimaneva escluso solo in presenza di responsabilità di rilievo penale.

In altri termini, nella configurazione originaria del sistema il datore di lavoro rimaneva esposto a responsabilità civile in conseguenza di condotte, attive od omissive, che comportassero una responsabilità penale, valendo altrimenti la regola dell’esonero in corrispondenza dell’operare della copertura assicurativa riveniente dall’assicurazione sociale obbligatoria, ai sensi del citato art. 10 d.P.R. 1124 del 1965.

Lo scenario, però, ha iniziato a mutare, a norma invariata, allorché la giurisprudenza si è confrontata con il tema del danno biologico, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 32 Cost., del citato art. 10, commi 6 e 7, d.P.R. n. 1124/1965, nella parte in cui prevede che il lavoratore infortunato o i suoi aventi causa hanno diritto, nei confronti delle persone civilmente responsabili per il reato da cui l’infortunio è derivato, al risarcimento del danno biologico non collegato alla perdita o riduzione della capacità lavorativa generica solo se e solo nella misura in cui il danno risarcibile, complessivamente considerato, superi l’ammontare delle indennità corrisposte dall’Inail (Corte cost., 27 dicembre 1991, n. 485, in Responsabilità civile e previdenza, 1992, 58, con nota di Emanuela NAVARRETTA; in Rivista italiana di diritto del lavoro, 1992, II, 756, con nota di Stefano GIUBBONI; in Foro italiano, 1993, I, 72 con note di Giovanni BIANCO e Vincenzo FERRARI).

Nel sistema dell’assicurazione obbligatoria degli infortuni sul lavoro la tutela giuridica del danno biologico non poteva trovare altro sbocco, giacché la previsione dell’esonero del datore di lavoro da responsabilità civile si accompagna (art. 11 stesso d.P.R.) con il riconoscimento all’Inail del diritto di regresso, per le indennità pagate a favore dell’infortunato, nei confronti della persona civilmente responsabile dell’infortunio. Sicché, avendo la Corte costituzionale già in precedenza stabilito che le indennità previste dal d.P.R. 1124 del 1965 sono commisurate ai soli riflessi che la menomazione psicofisica ha sull’attitudine al lavoro dell’assicurato, mentre rimangono irrilevanti gli svantaggi, le privazioni e gli ostacoli che la menomazione comporta negli altri ambiti e modi di svolgimento della personalità, l’unico modo di rendere operante il principio dell’integrale risarcibilità del danno biologico non poteva che essere quello di affermarne l’estraneità al sistema.

Frattanto è intervenuto il legislatore (con l’art. 13 d.lgs. n. 38 del 2000), ampliando la copertura assicurativa fino a ricomprendervi anche il danno biologico e prevedendone l’indennizzabilità con somma capitale a titolo di danno biologico generico per menomazioni di grado compreso tra una franchigia del 6% e il 16%, mentre per menomazioni di grado superiore è prevista l’erogazione di una rendita che annovera due componenti distinte: biologica «areddituale» e patrimoniale presunta, legata alla perdita della capacità generica di lavoro e di guadagno della vittima .

La giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass. 26 ottobre 2002, n. 15133, Foro italiano, 2003, I, 505; e Cass. 5 maggio 2010, n. 10834, id., Rep. 2010, voce Infortuni sul lavoro, n. 108) dal proprio canto ha affermato che l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato e la limitazione dell’azione risarcitoria di quest’ultimo al c.d. danno differenziale nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale (a norma dell’art. 10, d.P.R. 1124 del 1965 e delle inerenti pronunce della Corte costituzionale) riguarda solo le componenti del danno coperte dall’assicurazione obbligatoria, la cui individuazione è mutata nel corso degli anni, con la conseguenza che per le fattispecie sottratte ratione temporis all’applicazione dell’art. 13 d.lgs. n. 38 del 2000 (che ha ricondotto il danno biologico nella copertura assicurativa obbligatoria), le suddette limitazioni riguardano solo il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica, mentre esse non si applicano al danno alla salute o biologico e al danno morale di cui all’art. 2059 c.c., entrambi di natura non patrimoniale, sicché il lavoratore ha diritto al loro risarcimento integrale ove sussistano i presupposti della relativa responsabilità del datore di lavoro (diritto che, per effetto dell’indicata modifica legislativa, è invece venuto meno in riferimento al danno biologico).

L’espansione del concetto di danno alla persona e il consequenziale riconoscimento del danno biologico oltre i confini dell’assicurazione ha determinato il superamento di quell’assetto originario che individuava nei comportamenti penalmente rilevanti l’unico limite all’esonero datoriale dalla responsabilità civile, ponendo il problema del “danno differenziale”, da intendersi non più come danno morale derivante dalle ipotesi di reato configurabili nel fatto infortunistico, bensì come differenza tra entità del danno liquidato secondo i criteri civilistici e ammontare dell’indennizzo previdenziale che garantisca l’integrale risarcimento del danno biologico .

Ridimensionata la portata dell’esonero si è posta la questione della natura della responsabilità civile datoriale, che la sezione lavoro della Cassazione oramai pacificamente ritiene contrattuale e rispondente alla disciplina dell’art. 1218 c.c., in virtù dell’apprensione sinallagmatica, ex art. 1347 c.c. di un’obbligazione di fonte legale derivante dall’art. 2087 c.c. .

Lo stretto collegamento fra responsabilità civile del datore di lavoro e limiti di efficacia dell’assicurazione obbligatoria antinfortunistica è conclamato dalla giurisprudenza, che fa dipendere l’esonero del datore da responsabilità dall’ampiezza della copertura assicurativa, per come si è visto, facendone variare la consistenza anche ratione temporis, sicché, per le fattispecie anteriori all’ambito temporale di applicazione dell’art. 13 d.lgs. n. 38 del 2000, il datore risponde dell’intero danno non patrimoniale, non potendo essere decurtati gli importi percepiti a titolo di rendita Inail, corrispondenti, nel regime allora vigente, solo al danno patrimoniale legato al pregiudizio alla capacità lavorativa generica.

La responsabilità civile, pertanto, continua a sussistere in capo al datore di lavoro, anche in relazione agli eventi infortunistici e di morbilità che siano tutelati dall’assicurazione obbligatoria, limitatamente alle conseguenze dannose di quegli stessi eventi che, sfuggendo alla copertura assicurativa, facciano configurare il danno differenziale quale risultante, mutevole nel tempo, dell’interazione fra sistema della responsabilità civile e sistema dell’assicurazione obbligatoria antinfortunistica, che conferisce al problema della responsabilità civile datoriale un assetto dipendente dalla dicotomia di regole che presidiano i due sistemi (v. Cass. 13 agosto 2008, n. 21590, e 4 agosto 2008, n. 21112, Foro italiano, 2009, I, 876, con nota di Vincenzo FERRARI, Massimario di giurisprudenza del lavoro, 2009, 175, con nota di Antonio VALLEBONA, e Lavoro e previdenza oggi, 2008, 1732, con nota di Arturo MARESCA. Sul «danno biologico differenziale» a carico del terzo responsabile civile, cfr. Cass. 26 giugno 2015, n. 13222, Foro italiano, 2015, I, 3169, che introduce il tema della detraibilità dall’ammontare del danno biologico dovuto secondo i criteri civilistici, non già del valore capitale della rendita Inail, ma del solo valore capitale della quota destinata a ristorare il danno biologico). Ciò ha fatto ritenere assicurabile volontariamente la responsabilità civile datoriale nella misura in cui non risulti esonerata (cfr. Cass. 4 febbraio 2013, n. 2512, Foro italiano, Rep. 2013, voce Infortuni sul lavoro, n. 59; 2 luglio 2010, n. 15793, id., Rep. 2011, voce Assicurazione (contratto), n. 126) al punto da potersi affermare la valenza assicurativa dell’esonero (cfr. Cass. 22 giugno 2011, n. 13681, id., 2011, I, 3024). Sulle implicazioni più recenti in tema di integralità del risarcimento del danno da infortunio sul lavoro o malattie professionali, sia consentito il rinvio a Maurizio FERRARI, “Il danno differenziale fra orientamenti giurisprudenziali, ius superveniens e ripensamento del legislatore”, in Responsabilità civile e previdenza, 2020, in corso di pubblicazione.

La pandemia da coronavirus è sopraggiunta a modificare il quadro dei rischi che il datore di lavoro è tenuto a fronteggiare, ponendo all’attenzione degli operatori economici il dilemma di come affrontare la fase della riapertura dei loro esercizi. Dilemma che si inquadra nel più generale dovere di responsabilità stigmatizzato da Gustavo ZAGREBELSKY, “L’obbedienza e la responsabilità”, in La Repubblica del 30 aprile 2020.

Il tema che si pone, e che non può essere liquidato con superficialità e approssimazione, è quello di individuare un equilibrio fra esigenze di tutela della salute e libertà di iniziativa economica, riconoscendo che esiste un divieto di esercitare un’attività economica che offenda la sicurezza e la dignità dei lavoratori, tale essendo il significato del “non può svolgersi” esplicitamente sancito dall’art. 41 Cost., come sostiene Roberto RIVERSO, “Salute, lavoro e coronavirus, nella ricorrenza del 1 maggio” (pubblicato il 1 maggio 2020 in Questionegiustizia.it), che individua nella possibilità di istituire appositi fondi, sul genere di quelli che operano per le vittime del dovere (cui possono essere equiparati gli esercenti la professione sanitaria esposti in prima linea nella tutela della salute dei numerosi contagiati) o anche per i danni da HIV, trasfusioni, vaccinazioni, ecc., una soluzione che, a fronte dei notevoli numeri da fronteggiare, garantisca una riparazione monetaria che prescinde dall’accertamento di responsabilità civili o penali.

Apprezzabile a tutela delle vittime della pandemia, specie per chi si sia sacrificato con senso del dovere e a prezzo della propria vita, la socializzazione del rischio potrebbe evitare anche l’espandersi della responsabilità civile datoriale. Non ci si può tuttavia nascondere che la piena socializzazione può attuarsi solo attraverso l’estensione della copertura assicurativa a tutti i rischi che l’imprenditore è tenuto a prevenire, con un notevole aumento dei costi e dei premi a carico delle imprese.

Con la riapertura delle attività economiche, si stima che ritorneranno nei luoghi di lavoro quattro milioni e quattrocentomila persone, la cui salute dovrà essere garantita dai datori di lavoro, non solo nel rispetto delle linee guida che saranno concordate dalle parti sociali nei prossimi giorni, ma assumendosi quella responsabilità che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per come visto, andrà anche oltre, fino alla mancata predisposizione di misure di prevenzione del rischio c.d. «innominate», la cui adozione, pur non imposta dalla legge o altra fonte equiparata in relazione a rischi specifici, è comunque suggerita da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o da fonti analoghe (Cass. 30 giugno 2016, n. 13465, Foro italiano, 2016, I, 2705, innanzi cit.).

Il contagio da coronavirus, rispetto al quale a tutt’oggi non esistono cure se non sperimentali, né vaccini, costituisce un rischio del quale tutta la popolazione italiana ha avuto esatta percezione durante la fase di lockdown, inducendo ogni singolo individuo a contribuire con il proprio sacrificio ad una battaglia che può ritenersi vinta a conclusione del confinamento che l’ha caratterizzata.

Tuttavia non può ancora dirsi vinta la guerra.

La “Fase 2” determinerà un inevitabile aggravarsi del rischio. Non può esservi dubbio, infatti, che la riapertura delle attività economiche comporterà un aumento del rischio di contagio in ragione della massa di persone che raggiungeranno i luoghi di lavoro, ma nel contempo potrebbe verificarsi una diminuzione della percezione del rischio indotta, paradossalmente, dal fatto stesso che si possa uscire da casa.

L’aumento del rischio reale, a fronte di quello percepito, comporterà una maggiore esposizione degli imprenditori al rischio della responsabilità civile dal quale, alla luce della disamina compiuta, non potranno essere esonerati a norma dell’art. 10 d.P.R. 1124 del 1965.

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