di Anastasia Palma

Sommario

  • Il sistema della responsabilità aquiliana e la polivalenza delle funzioni ordinamentali assolte
  • La responsabilità per danno ambientale e il principio “chi inquina paga”
  • La fattispecie esaminata dalle Sezioni Unite
  • La valutazione ermeneutica sulla portata del principio “chi inquina paga”

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 3077 del 1° febbraio 2023, si sono pronunciate in tema di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati, affermando che l’obbligo di adottare le misure idonee a fronteggiare la situazione di inquinamento è a carico di colui che di essa sia responsabile per avervi dato causa, in base al principio “chi inquina paga“. Conseguentemente, nella decisione del caso concreto, la Corte ha escluso che l’obbligo di eseguire le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica possa essere imposto al proprietario del sito contaminato incolpevole dell’inquinamento, in quanto gli effetti a suo carico restano limitati a quanto previsto dall’art. 253 d.lgs. n. 152 del 2006 (codice dell’ambiente) con riguardo a oneri reali e privilegi speciali immobiliari per il rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente e nei limiti del valore di mercato del sito determinato dopo l’esecuzione degli interventi stessi.

La sentenza affronta diversi profili ermeneutici, non solo limitati al tema specifico, bensì estesi al quadro generale della responsabilità aquiliana e della pluralità di funzioni ordinamentali assolte dal sistema radicato sul principio del neminem laedere.

Il sistema della responsabilità aquiliana e la polivalenza delle funzioni ordinamentali assolte

La responsabilità aquiliana è disciplinata dall’articolo 2043 c.c. secondo cui <<qualunque fatto doloso o colposo, che cagioni ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che l’ha commesso a risarcire il danno>>. La norma – riedizione moderna della Lex Aquilia de damno, risalente al 286 a.C. – sancisce il principio secondo cui sia da considerarsi illecito qualunque fatto umano capace di generare una lesione ad un interesse giuridicamente protetto dall’ordinamento giuridico. La responsabilità aquiliana (o extracontrattuale) trova la sua ratio nel precetto del neminem laedere, ossia nel dovere generale che incombe sui consociati di non ledere l’altrui sfera giuridica. Nell’ipotesi di lesione, l’ordinamento determina in capo all’autore del fatto la previsione di un’obbligazione di tipo risarcitorio nei confronti del danneggiato che in tal caso diventerà titolare del relativo diritto di credito. L’obbligazione risarcitoria risponde ai criteri del risarcimento del danno disciplinato dall’articolo 1223 c.c. La norma, dettata con riferimento all’ipotesi di responsabilità contrattuale (articolo 1218 c.c.) specifica che l’obbligazione risarcitoria derivante dall’inadempimento o dal ritardo dev’essere comprensiva tanto della perdita subita dal creditore (danno emergente) quanto del mancato guadagno (lucro cessante) e deve attenere alle conseguenze dirette ed immediate del fatto dannoso.

Affinché sorga una responsabilità da fatto illecito è necessaria la presenza di alcuni elementi. Innanzitutto la condotta posta in essere dall’autore del fatto. Essa, potendo sostanziarsi in un comportamento tanto commissivo quanto omissivo, dev’essere in grado di determinare il danno, ossia la lesione al bene giuridico tutelato.

E’ necessario altresì che sussista un nesso di causalità, ossia un collegamento tra la condotta realizzata dal danneggiante e l’evento lesivo del bene protetto. In relazione alla dimostrazione del nesso causale, si rileva che esso potrà essere ritenuto esistente sulla base della comune esperienza e del computo degli accadimenti.

Per ciò che attiene, invece, al profilo della colpevolezza, si richiede che il fatto compiuto dal danneggiante diverga dal paradigma legale e che sia in grado di determinare la lesione all’altrui diritto. Sul punto vengono in rilievo i profili del dolo e della colpa. Nel primo rileva la volontà di determinare l’evento lesivo; nel secondo, viceversa, non v’è la volontà di determinare la lesione all’altrui bene giuridico, ma essa si verifica a causa di un comportamento sconsiderato del soggetto che agisce.

Con riferimento all’onere della prova, si evidenzia che grava sul danneggiato, ossia su chi intenda chiedere la riparazione del danno subito, anche se questa regola conosce talune eccezioni elaborate dalla giurisprudenza mediante la previsione di alcune presunzioni: in tema di capacità di intendere e di volere, si rileva come essa, dovendo essere dimostrata dal danneggiato è presunta in capo al chi abbia raggiunto la maggiore età; pertanto, qualora il danneggiante per andare esente da responsabilità, asserisca la propria incapacità di intendere e di volere, l’onere di tale dimostrazione incomberà su di lui e non in base allo schema generale che pone l’onere in questione sul danneggiato.

In ordine alla funzione che il sistema giuridico assegna al risarcimento del danno si precisa che <<L’obbligo al risarcimento – sebbene non assuma il carattere di pena, come in altre epoche storiche- ha il senso di far rispondere in modo consistente del fatto dannoso estendendo la responsabilità anche per i danni non prevedibili al momento della commissione del fatto (2056 e 1224)>>.1

Dal sistema della responsabilità civile, così come delineato, emerge, il carattere polivalente dell’istituto nel quale si rintracciano tre distinte funzioni: preventiva, sanzionatoria e riparatoria. La funzione di prevenzione ha lo scopo di disincentivare la commissione di un fatto dannoso dell’altrui sfera giuridica mediante la previsione di una conseguenza che l’ordinamento individua nell’obbligazione risarcitoria; la funzione sanzionatoria risponde all’esigenza di fare in modo che si risponda in caso di commissione di un fatto illecito; la funzione riparatoria, invece, spiega i suoi effetti nella sfera giuridica del danneggiato attraverso la previsione di un ristoro per il pregiudizio subìto.

La responsabilità per danno ambientale e il principio “chi inquina paga

Delineati i tratti salienti della responsabilità civile è opportuno porre in rilievo i profili di una peculiare responsabilità aquiliana: la responsabilità per danno ambientale. La disciplina è contenuta negli articoli 209 e seguenti del Codice dell’Ambiente introdotto con il D. L. 3 aprile 2006 n. 152. La normativa costituisce attuazione della Direttiva europea 04/35/CE incentrata sul principio comunitario di portata generale secondo cui “chi inquina paga”. Tale principio persegue una finalità dissuasiva mediante la previsione di cautele atte a ridurre l’inquinamento ambientale e costituisce uno dei pilastri di matrice comunitaria per ciò che concerne la tutela dell’ambiente. Sul punto, infatti, il TFUE all’articolo 191 comma 1 prevede espressamente che <<La politica dell’Unione in materia ambientale mira ad un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata su principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni provocati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”.>> Dalla lettura della norma si evince che Il precipitato logico del principio di cui trattasi è la previsione, in capo all’operatore responsabile del danno ambientale o della minaccia al bene ambiente, dei costi di prevenzione o di riparazione.

Questa specifica disciplina si giustifica in relazione al bene ambiente, al quale, un orientamento della giurisprudenza attribuisce <<Autonoma rilevanza che trascende quella propria dei singoli beni che lo compongono>>. 2

Il Codice dell’ambiente, contiene una precisa definizione di danno ambientale inteso come <<qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima>>. 3 La norma nel richiamare la Direttiva europea 2004/35/CE dapprima specifica che costituisce danno ambientale il deterioramento provocato alle specie e agli habitat naturali precisando che quello inerente alle acque interne si determina attraverso azioni che incidono significativamente sullo stato ecologico e chimico delle acque interessate, oppure delle acque marine, delle acque costiere o del terreno attraverso qualsiasi contaminazione che produca effetti nocivi, anche riflessi, sulla salute umana.

Il Codice dell’Ambiente, inoltre, prevede che sia il Ministero dell’Ambiente a svolgere i compiti di tutela, prevenzione e riparazione dei danni. L’articolo 299, al secondo comma, chiarisce che l’azione svolta dal Ministero si esplichi in un’ottica di collaborazione con le Regioni e gli enti locali, nonché con qualsiasi altro soggetto di diritto pubblico reputato idoneo. La previsione normativa, ancora, richiama la disciplina comunitaria in materia di tutela ambientale prevedendo che l’azione del Ministero si svolga nel rispetto dei principi posti dalla direttiva europea e dia quelli costituzionali di sussidiarietà e leale collaborazione.4

La fattispecie esaminata dalle Sezioni Unite

La tematica del danno ambientale è stata di recente affrontata dalle Sezioni Unite5 con riferimento ad una fattispecie concreta le cui sfaccettature consentono di analizzare le peculiarità della specifica figura di danno in rapporti ai profili e alle funzioni del sistema della responsabilità civile generale.

Nella vicenda in esame la società ricorrente aveva costruito e gestito per un determinato arco temporale una discarica per lo smaltimento di rifiuti presso una cava utilizzata come sito di stoccaggio. Il Ministero dell’Ambiente, all’esito di rilievi dai quali si evinceva dei valori limite di sostanze contaminanti all’interno della falda acquifera chiedeva alla società di adottare interventi di messa in sicurezza d’emergenza (m.i.s.e.) delle falde acquifere del sito contaminato. Il Ministero, inoltre, chiedeva l’adozione di misure di prevenzione e bonifica sia dei suoli che della falda, pena la previsione di interventi sostitutivi previsti dal Codice dell’Ambiente, iscrizione di onere reale sull’immobile e accertamento del danno ambientale. (Gli interventi sostitutivi sono disciplinati dall’articolo 132 codice dell’Ambiente che demanda al Ministero dell’Ambiente l’esercizio di poteri sostitutivi a fronte dell’ente inadempiente, con oneri a carico di quest ultimo, nonché la possibilità di nominare un commissario ad acta per il compimento degli atti necessari. La disciplina degli oneri reali, invece, è contenuta nell’articolo 253 del Codice dell’Ambiente secondo cui <<Gli interventi di cui al presente titolo costituiscono onere reale sui siti contaminati qualora effettuati d’ufficio dall’autorità competente ai sensi degli articoli 250 e 252, comma 5. L’onere reale viene iscritto nei registri immobiliari tenuti dagli uffici dell’Agenzia del territorio a seguito della approvazione del progetto di bonifica e deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica>>).

L’articolo 132 del Codice dell’Ambiente richiama glia artt. 250 e 252. In particolare, l’articolo 250 disciplina la bonifica da parte dell’Amministrazione e prevede che <<Qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti disposti dal presente titolo ovvero non siano individuabili e non provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all’articolo 242 sono realizzati d’ufficio dal comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla regione, secondo l’ordine di priorità fissati dal piano regionale per la bonifica delle aree inquinate, avvalendosi anche di altri soggetti pubblici o privati, individuati ad esito di apposite procedure ad evidenza pubblica entro il termine di novanta giorni dalla mancata individuazione del soggetto responsabile della contaminazione o dall’accertato inadempimento da parte dello stesso. Al fine di anticipare le somme per i predetti interventi le regioni possono istituire appositi fondi nell’ambito delle proprie disponibilità di bilancio.>>

Secondo l’articolo 252, invece, <<Nel caso in cui il responsabile non provveda o non sia individuabile oppure non provveda il proprietario del sito contaminato ne’ altro soggetto interessato, gli interventi sono predisposti dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, avvalendosi dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), dell’Istituto superiore di sanita’ e dell’E.N.E.A. nonche’ di altri soggetti qualificati pubblici o privati>>.

I provvedimenti a carico della società erano stati impugnati davanti al Tar e al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche. Proprio quest’ultimo, in aderenza a quanto stabilito dal Tar circa la mancata dimostrazione del fatto che l’inquinamento del sito originasse dal momento dell’insediamento della società stabiliva che l’onere di adottare le misure di messa in sicurezza di emergenza gravasse anche sul proprietario o sul detentore del sito, in un’ottica di prevenzione e riparazione del danno ambientale, a prescindere dall’accertamento dell’elemento soggettivo (dolo o colpa). Tale conclusione si inscriveva in un’ottica di valorizzazione del principio di matrice comunitaria <<chi inquina paga>> di cui all’articolo 191 comma 2 del TFUE che determina l’allocazione dei costi causati dal danno ambientale in capo all’autore responsabile piuttosto che sulla collettività ritenendo sufficiente la materiale causazione del danno ambientale in chiave di responsabilità oggettiva.

A fronte di tale sentenza la società ricorreva in Cassazione la quale era chiamata a pronunciarsi in ordine alla vicenda contenente la questione relativa alla contestazione <<del principio ‘chi inquina paga’ di cui alla Direttiva 2004/35/CE e comunque di ogni responsabilità ambientale, anche a titolo oggettivo o prescindendo da una condotta causativa del danno, in capo al proprietario/gestore richiesto di provvedere alla messa in sicurezza di emergenza, in difetto della individuazione del responsabile della potenziale contaminazione;>>6.

Sul punto, preliminarmente occorre evidenziare che le ragioni a sostegno della società vertevano su plurime violazioni del Codice dell’Ambiente (d.lgs n. 152 del 2006) contestando nello specifico l’applicabilità alla vicenda del principio chi inquina paga e quindi della previsione di ogni responsabilità in capo al proprietario/gestore di provvedere alla messa in sicurezza d’emergenza (m.i.s.e.) e dall’altro verso, l’erronea mancata individuazione del proprietario responsabile.

La valutazione ermeneutica sulla portata del principio “chi inquina paga”

Le Sezioni Unite si sono soffermate sull’analisi della disciplina attinente alla prevenzione e riparazione del danno così come prevista dalla Direttiva comunitaria di cui sopra e nello specifico sull’operatività del principio “chi inquina paga”.

Di seguito un passaggio chiave della sentenza di cui trattasi in ordine al principio in questione secondo cui <<imporre al soggetto inquinatore l’obbligo di riparare il danno o, in alternativa, quello di tenere indenne la comunità territoriale che l’abbia evitato o rimosso, significa pertanto addossare – non in chiave etica ma di efficacia, come rilevato nell’analisi economica di tale sistema – le esternalità negative (conseguenti alla produzione o al commercio di beni e servizi) a carico del soggetto cui sia riferibile l’attività, evitando alterazioni di mercato (per qualità dei prodotti e livelli di concorrenza), senza oneri per la collettività ovvero costi assunti in via definitiva dall’ente pubblico; viene così scongiurato ogni scenario di alternativa monetizzazione dell’inquinamento, disincentivato dallo scaricarsi sui soli prezzi, senza altri interventi ed invece declinandosi il principio riassuntivo ‘chi inquina paga’ nella riparazione più diretta del danno ambientale (nei contesti di acque, terreno e biodiversità, i soli dell’art.2 Direttiva), ad opera dell’autore (operatore in attività classificata pericolosa o terzo imputabile ad altro titolo) o, in sua vece e con recupero dei costi, a cura dell’ente pubblico; >>.7

La Suprema Corte, così, dopo aver specificato la portata del principio “chi inquina paga” così come risultante dalla Direttiva si è soffermata sul profilo inerente all’imputazione della responsabilità evidenziando che <<il criterio d’imputazione della responsabilità proprio della Direttiva è invero ricavabile per un verso dalla sua valorizzazione di tipo oggettivo, la più efficace a tutela dell’ambiente e tuttavia con la possibilità, permessa agli Stati membri, di mediare le esigenze dello sviluppo economico, costruendo modelli di responsabilità mista, come forme eccezionali di esonero se il danno è riconducibile ad una terza fonte e nonostante ogni misura di sicurezza o per effetto di un ordine dell’autorità (art. 8 co. 3); parimenti, rileva il principio della colpa del soggetto agente, come previsto dall’art. 8, co. 4 lett. a) e b), per il quale l’operatore può essere escluso dal sostenere i costi delle azioni di riparazione assunte secondo la Direttiva se provi che non gli sia attribuibile un comportamento doloso o colposo; per altro verso, e pertanto, ai sensi dell’art.3 e per quanto qui d’interesse, la mancata elencazione di un’attività professionale tra quelle pericolose determina che il danno o la sua minaccia implichino una responsabilità solo ai sensi di un preciso criterio d’imputazione psicologico della relativa condotta, nell’ulteriore presupposto di una prova del nesso causale tra attività svolta dall’operatore, come in premessa definito dalla Direttiva e perciò individuabile e danno ambientale;>>8

Le Sezioni Unite con riferimento al Codice dell’Ambiente, inoltre, stabiliscono che <<per l’art.311 cod. amb. viene dunque fissata la responsabilità oggettiva di chi gestisce specifiche attività professionali elencate e quella imputabile e soggettiva (per colpa o dolo) in capo a chiunque altro cagioni un danno ambientale (co.2); l’azione di risarcimento del danno ambientale, inteso come bene pubblico di carattere unitario, costituente autonomo diritto, diverso dalla salute, di rilievo costituzionale, oggetto di tutela da parte del giudice ordinario (Corte costituzionale 210 del 1987; 233 del 2009; 85 del 2013) diviene così un’azione di reintegrazione in forma specifica, di competenza esclusiva del Ministero dell’ambiente; a sua volta, l’art.298bis distingue, nell’applicazione del codice, danno ambientale o minaccia imminente risalenti ad una delle attività professionali (dell’all. n.5 della Parte Sesta, che include la gestione dei rifiuti) ovvero ad un’attività diversa, per la seconda richiedendo il caso di comportamento doloso o colposo (co.1 lett.b); per «operatore», poi, l’art.302 co.4, intende qualsiasi persona, fisica o giuridica, pubblica o privata, che esercita o controlla un’attività professionale avente rilevanza ambientale oppure chi comunque eserciti potere decisionale sugli aspetti tecnici e finanziari di tale attività, compresi il titolare del permesso o dell’autorizzazione a svolgere detta attività; in adesione testuale al dettato della Direttiva, l’art.308 esclude a carico dell’operatore i costi delle azioni di precauzione, prevenzione e ripristino adottate conformemente alle disposizioni di cui alla parte sesta se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno: a) è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l’esistenza di misure di sicurezza astrattamente idonee; b) è conseguenza dell’osservanza di un ordine o istruzione obbligatori impartiti da una autorità pubblica, diversi da quelli impartiti a seguito di un’emissione o di un incidente imputabili all’operatore (co.4); inoltre, l’operatore non è tenuto a sostenere i costi delle azioni di cui al comma 5 intraprese conformemente alle disposizioni di cui alla parte sesta … qualora dimostri che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo e che l’intervento preventivo a tutela dell’ambiente è stato causato da: a) un’emissione o un evento espressamente consentiti da un’autorizzazione conferita ai sensi delle vigenti disposizioni legislative e regolamentari recanti attuazione delle misure legislative adottate dalla Comunità europea di cui all’allegato 5 della parte sesta … applicabili alla data dell’emissione o dell’evento e in piena conformità alle condizioni ivi previste; b) un’emissione o un’attività o qualsiasi altro modo di utilizzazione di un prodotto nel corso di un’attività che l’operatore dimostri non essere stati considerati probabile causa di danno ambientale secondo lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento del rilascio dell’emissione o dell’esecuzione dell’attività. (co.5); resta impregiudicata la responsabilità e l’obbligo risarcitorio del trasgressore interessato (co.6);..>>.9

Dalle risultanze dell’esame relativo alla disciplina comunitaria e nazionale in tema di danno ambientale, la Suprema Corte, dunque, giunge alla conclusione secondo cui <<va esclusa una indicazione comunitaria alla riparazione del danno – almeno e già per questa via – a carico di chi non abbia svolto l’attività professionale di operatore, bensì venga chiamato a rispondervi nella veste di titolare di diritti dominicali o addirittura, come nel caso, con nesso eziologico escluso dallo stesso giudice dell’accertata condotta, non potendo la mera enunciazione di indizi di posizione, per un’attività non classificata dallo stesso d.lgs. n. 152 del 2006 a rischio d’inquinamento, sostituire di per sé la prova del predetto necessario nesso causale.>>10

Nei successivi passaggi, infine, la Corte richiama una recente giurisprudenza amministrativa11 secondo cui <<l’Amministrazione non può imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di realizzare le misure di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, di cui all’art. 240, co. 1, lett. m) e p), cod. amb., in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto espressamente previsto dall’art. 253, in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare, tale essendo la netta distinzione tra la figura del responsabile dell’inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione; così che, come ancora ribadito, il proprietario ‘non responsabile’ dell’inquinamento è tenuto, ai sensi dell’art. 245, co. 2, ad adottare le misure di prevenzione di cui all’art. 240, co. 1, lett. i), ma non le misure di messa in sicurezza d’emergenza e bonifica di cui alle lett. m) e p)…>>.

Nell’affermazione della responsabilità, in quest’ottica rileva la distinzione tra i doveri che gravano sul proprietario incolpevole e quelli relativi al responsabile dell’inquinamento. Al proprietario incolpevole, così, restano scritti gli obblighi previsti dall’articolo 253 del Codice dell’Ambiente e quelli in materia di prevenzione. Al soggetto responsabile dell’inquinamento, invece, è imposto l’obbligo di adottare, ai sensi dell’articolo 242 Codice dell’Ambiente, le misure di messa in sicurezza di emergenza (m.i.s.e.) e di bonifica del sito inquinato, non potendo l’Amministrazione imporre al proprietario di un sito che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di realizzare le predette misure, ma solo quelle relative agli oneri reali e prevenzione. Infatti, secondo La Corte <<.. il vigente quadro normativo nazionale non ammette peraltro un criterio di imputazione basato sulla responsabilità di posizione a carico del proprietario incolpevole, restando escluse ipotesi di responsabilità svincolata persino da un contributo causale alla determinazione del danno (Cons. Stato, Sez. V, 7 marzo 2022, n. 1630)>>12.

La Suprema Corte, in altro passaggio richiama la sentenza della Corte di Giustizia (4 marzo 2015) secondo cui << a) uno dei presupposti essenziali per l’applicazione del regime di responsabilità istituito dalla Direttiva è l’individuazione di un operatore che possa essere qualificato come responsabile); b) spetta in linea di principio all’operatore all’origine del danno ambientale prendere l’iniziativa di proporre misure di riparazione che egli reputi adeguate alla situazione ed è al medesimo che l’autorità competente può imporre di adottare le misure necessarie, soggetto che l’autorità ha l’obbligo di individuare); c) censendo le attività diverse da quelle professionali (ai sensi dell’art.2 co. 6 e 7) l’obbligo dell’autorità competente di accertare un nesso causale si applica, come nel regime di responsabilità ambientale oggettiva degli operatori, anche per la responsabilità ambientale soggettiva da dolo o colpa dell’operatore di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera b), mentre se non può essere dimostrato alcun nesso causale tra il danno ambientale e l’attività dell’operatore, tale situazione rientra nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale; d) l’art. 16 della Direttiva prevede, conformemente all’art. 193 TFUE, la facoltà per gli Stati membri di mantenere e adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, compresa, in particolare, l’individuazione di altri soggetti responsabili, ma a condizione che tali misure siano compatibili con i Trattati…>>.13

Infine, con riferimento al terzo e quarto motivo del ricorso con i quali si deducevano <<la violazione degli artt.2050 e 2051 c.c. e 240 e s. codice ambiente per errata applicazione delle norme sulla responsabilità da custodia o da posizione, essendo la seconda disciplina speciale rispetto a quella civilistica, né sussistendo alcuna presunzione di responsabilità;>> la Corte ha affermato che << il terzo e quarto motivo, per un profilo risultano assorbiti, ove la sentenza, erroneamente e come visto, ascrive al proprietario incolpevole una responsabilità oggettiva che prescinde dal nesso causale, oltre che dall’elemento soggettivo; per altro profilo, le censure sono fondate, trascurando la sentenza che l’inapplicabilità degli artt.2050-2051 c.c. – al di là della non perspicua portata argomentativa assunta dal relativo richiamo nella ratio decidendi di pag. 19 – discende direttamente dalla natura interamente speciale propria del codice dell’ambiente; si è cioè di fronte, dopo l’introduzione della Direttiva 2004/35/CE, ad un corpo normativo appositamente dedicato, come chiarito in dottrina, alla tutela dell’illecito ecologico, ormai slegato dal sistema regolativo dell’illecito civile ordinario di cui agli artt. 2043 e s. c.c., come si evince dalla minuta descrizione tanto del regime di responsabilità quanto dei soggetti responsabili — e tra essi, primariamente, gli operatori professionali — e soprattutto del perimetro di applicazione della disciplina, il quale viene escluso nei casi di fenomeni naturali di carattere eccezionale, incontrollabili o inevitabili; ne discende l’insussistenza di una comunanza operativa fra il regime di responsabilità per danno ambientale di cui alla Parte VI cod. amb. e quello per cose in custodia di cui all’art. 2051 c.c., mentre la nozione di attività pericolosa dell’art.2050 c.c. appare piuttosto trasfigurata nel codice, per altri fini, nella nozione di attività professionale di cui all’art.298bis; anche la giurisprudenza amministrativa, valorizzando i compiti di realizzo delle opere di bonifica in capo alle amministrazioni e nella prospettiva dell’attribuzione ad esse del privilegio sul fondo a carico del proprietario incolpevole, ha escluso il possibile ricorso alla responsabilità da custodia a carico di costui (Consiglio di Stato Sez. VI, 9 gennaio 2013, n. 56 e Sez. VI, 18 aprile 2011, n. 2376; con chiarezza rinviando ad una nozione di sussidiarietà, Consiglio di Stato, Sez. V, 30 luglio 2015, n.3756);>>. 14 Ne consegue, così, l’inapplicabilità degli articoli 2050 e 2051 c.c. che disciplinano rispettivamente la responsabilità per l’esercizio di attività pericolose e il danno cagionato da cose in custodia, proprio in virtù della peculiare responsabilità per danno ambientale la cui disciplina è contenuta in un apposito corpus normativo costituito dal Codice dell’Ambiente.

Note

1 P. Perlingieri , Manuale di diritto civile, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2021, p. 875

2 P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, cit., p. 907

3 Articolo 300 Codice dell’ambiente

4 Articolo 299 Codice dell’Ambiente

5 Sentenza Cass. Sez. Unite 1.02.2023 n. 3077

6 Dalla motivazione della sentenza n. 3077/2023

7 Cfr. Par. 12 Sentenza n. 3077/2023

8 Cfr Par. 13 Sentenza n. 3077/2023

9 Par. 15 sentenza 3077/2023

10 Cfr. Par. 16 sentenza n. 3077/2023

11 Consiglio di Stato, Sez V, 29 dicembre 2021, n. 8702 richiamata nel Par. 32 della sentenza 3077/2023

12 Sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 7 marzo 2022 n. 1630 richiamata nel Par. 32 sentenza n. 3077/2023

13 Cfr Par. 34 Sentenza n. 3077/2023

14 Cfr Par. 41 Sentenza n. 3077/2023

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