di Maurizio Ferrari

«Sebbene l’art. 1362 c.c. non stabilisca alcuna gerarchia ermeneutica tra il criterio dell’interpretazione letterale e quello della comune intenzione delle parti, quale emerge anche dal comportamento posteriore tenuto dalle stesse, quest’ultimo deve essere tenuto presente al fine di stabilire ciò che le parti hanno effettivamente voluto e non per giustificare la surrettizia modifica dell’accordo contrattuale». Tale principio, affermato dalla Suprema Corte di Cassazione1, risponde al quesito dell’esistenza o meno di una gerarchia tra i criteri di interpretazione del contratto che la norma individua, in merito ai quali la dottrina ha disquisito manifestando una varietà di opinioni, vuoi segnalandone la rispondenza a canoni di logica e di esperienza2, vuoi sottolineando che l’interpretazione, più che ricostruire la volontà delle parti, debba adeguarsi ai canoni legali3.

Com’è noto, per interpretazione giuridica si intende l’attività intesa all’attribuzione di un significato ad un testo, tanto che si tratti di interpretare dei testi normativi, quanto che si debba interpretare un contratto. Se l’interpretazione dei testi normativi porta alla norma come risultato dell’interpretazione4, anche l’interpretazione del contratto porta all’individuazione della regola stabilita dalle parti per la disciplina di un loro rapporto giuridico patrimoniale. Ed infatti il criterio di interpretazione letterale è il primo ad essere enunciato, sia nell’art. 12 disp. prel. c.c. (interpretazione della legge), sia nell’art. 1362 c.c. (interpretazione del contratto). Tuttavia, mentre la prima norma enuncia una disposizione perentoria, nel prescrivere che nell’interpretare la legge non si può dare altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse e l’intenzione del legislatore, la seconda enuncia il concetto in maniera da fare prevalere l’intenzione sull’espressione delle parole, laddove stabilisce che nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole.

E’ stato autorevolmente osservato5 che la formulazione dell’art. 1362 c.c., riferendosi alla «comune intenzione delle parti», richiede che tale intenzione sia resa riconoscibile, non rilevando la volontà psicologicamente intesa, ma il reciproco consenso che le parti hanno «obiettivizzato» in un atto socialmente rilevante. Con l’art. 1362 c.c., pertanto, non viene affermata una gerarchia tra intenzione delle parti e interpretazione letterale, bensì il concetto che la prima è l’oggetto dell’attività interpretativa e la seconda è uno dei criteri volti ad attribuire il possibile significato alla prima.

Oltre al principio di interpretazione letterale, il 2° comma dell’art. 1362 individua quello relativo al comportamento anche posteriore delle parti, definito da altra autorevole dottrina6 «criterio storico», sancendo una massima di comune esperienza, in base alla quale le parti si comportano in modo conforme alla regola che le stesse hanno creato in via negoziale. Sicché si pone un problema di corretta interpretazione del contratto in presenza di comportamenti contrastanti con il testo letterale dell’accordo.

Nel caso esaminato e risolto con l’affermazione del principio riassunto nell’incipit, si era in presenza di contratto di compravendita di due immobili, che prevedeva in favore della parte acquirente un reddito annuo pari al 6,50 per cento del prezzo della vendita, garantito dal rilascio di due fideiussioni a prima richiesta. Nello stesso contratto era stabilito che la gestione degli immobili sarebbe stata affidata, mediante un mandato gratuito, alla stessa parte venditrice. Tale mandato era regolato da separato atto sottoscritto successivamente dalle parti, nel quale era stato previsto che sarebbero state a carico della stessa parte venditrice le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili. A seguito del mancato raggiungimento del reddito annuale garantito alla parte acquirente è sorto un contenzioso nell’ambito del quale la parte venditrice ha chiesto la restituzione delle spese relative agli appartamenti sfitti, rilevando che gli estratti conto inviati alla mandante addossavano tali costi alla parte acquirente, che li aveva rimborsati tramite compensazione con quanto le spettava a titolo di reddito garantito.

Ad avviso della Corte di legittimità7 il comportamento delle parti, anche successivo alla conclusione del contratto, deve essere pur sempre finalizzato, quale criterio ermeneutico normativamente predeterminato, ad individuare l’effettiva volontà delle parti tradotta nell’accordo contrattuale e non può essere, invece, piegato a giustificazione di modifiche surrettizie del contratto. Problema che si pone nelle ipotesi nelle quali i comportamenti successivi risultino devianti rispetto alla chiarezza del testo letterale ed alla sua coerenza con le finalità pratiche perseguite dalle parti e con la complessiva economia dell’accordo. In presenza di un tenore sufficientemente chiaro del testo contrattuale, cioè, il comportamento successivo contrastante non può determinare alcuna commistione tra interpretazione e modifica del testo contrattuale. Il comportamento tenuto dalle parti costituisce, quindi, criterio di selezione fra i possibili significati attribuibili al testo letterale del contratto o deve essere, comunque, coerente con l’area di validità semantica delle parole nelle quali si esprime la comune intenzione delle parti, non potendo porsi in un rapporto di contraddizione rispetto a queste ultime, in modo tale da attribuire al contratto un significato che non sia in alcun modo riconducibile al suo tenore letterale.

La giurisprudenza, sul tema, si è divisa in due orientamenti, che si distinguono in base al ruolo, prioritario o meno, assegnato al criterio letterale rispetto a quello c.d. storico. Un primo indirizzo esclude chiaramente una posizione di supremazia gerarchica del criterio letterale, asserendo che il giudice, anche quando il significato letterale del contratto sia apparentemente chiaro, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, deve verificare se quest’ultimo sia coerente con la causa del contratto, con le dichiarate intenzioni delle parti e con la condotta delle stesse8. Sostiene, invece, nettamente la prevalenza del criterio di interpretazione letterale altra decisione9 la quale, partendo dall’affermazione di un principio di gerarchia dei canoni strettamente interpretativi su quelli interpretativi-integrativi, afferma che tra i primi risulta prioritario il canone fondato sul significato letterale delle parole, con la conseguenza che, quando quest’ultimo risulti sufficiente, l’operazione ermeneutica deve ritenersi conclusa. Il criterio che identifica il significato dell’atto in base al comportamento complessivo delle parti va applicato in via sussidiaria, ove l’interpretazione letterale e logica sia insufficiente.

Un orientamento intermedio, secondo il quale il principio in claris non fit interpretatio presuppone che la formulazione testuale sia talmente chiara ed univoca da precludere la ricerca di una volontà diversa è espresso da altra sentenza10, la quale afferma che il giudice ha il potere-dovere di stabilire se la comune intenzione delle parti risulti in modo certo ed immediato dalla dizione letterale del contratto, attraverso una valutazione di merito che consideri il grado di chiarezza della clausola contrattuale mediante l’impiego articolato dei vari canoni ermeneutici, ivi compreso il comportamento complessivo delle parti, in quanto la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l’integrazione (il senso complessivo) costituiscono strumenti interpretativi legati da un rapporto di implicazione necessario al relativo procedimento ermeneutico.

Ancora si è sostenuto che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi alla ricognizione del tenore letterale delle parole, ma deve estendersi alla considerazione di tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiono di per sé chiare e non bisognose di approfondimenti interpretativi11. Ed ulteriormente che nell’interpretazione del contratto collettivo di diritto comune, la volontà delle parti deve essere ricostruita in primo luogo attraverso il senso letterale delle parole utilizzate e la loro comune intenzione quale emerga dal comportamento anche successivo alla conclusione del contratto, nonché attraverso la lettura complessiva dell’accordo12.

Nell’ambito dell’orientamento che assegna rilievo alla condotta, anche esecutiva, delle parti solo in presenza di un testo letterale non univoco, si collocano alcune decisioni secondo le quali, sebbene l’elemento letterale assuma funzione fondamentale, la valutazione del complessivo comportamento delle parti non costituisce un canone sussidiario, bensì un parametro necessario ed indefettibile, in quanto le singole clausole, da interpretare le une a mezzo delle altre, debbono essere raccordate al complesso dell’atto e l’atto deve essere esaminato valutando il complessivo comportamento delle parti; in questa progressiva dilatazione del materiale interpretativo può assumere rilievo anche il comportamento delle parti che sia successivo alla conclusione del contratto, purché sia un comportamento comune, ovvero un comportamento unilaterale accettato, anche tacitamente, dall’altra parte13.

In dottrina, si è autorevolmente affermato che anche in presenza di un testo chiaro non va escluso l’utilizzo del criterio comportamentale, in quanto la valutazione della chiarezza di un testo rappresenta il risultato dell’attività interpretativa espletata anche con riferimento al comportamento complessivo delle parti, non un prius, ma un posterius14. Bisogna comunque dar conto di posizioni diverse che, pur constatando che la giurisprudenza nega l’operatività del principio in claris non fit interpretatio15, ritengono che debba considerarsi l’art. 1362 c.c. come sintomatico della dialettica tra teoria della volontà e teoria della dichiarazione, ponendo come oggetto dell’interpretazione la manifestazione della comune volontà espressa nel testo contrattuale16, ovvero sottolineano che il peso ermeneutico del comportamento è variabile e rileva solo nei limiti dei significati possibili del testo17.

Una posizione di sintesi si individua nell’orientamento che sottolinea come l’art. 1362 c.c. presupponga un contratto concluso non per comportamenti concludenti, ma per dichiarazioni. Ciò comporta che punto di partenza non può non essere l’interpretazione testuale, fondata sul significato espresso delle parole e delle loro connessioni sintattiche, secondo il codice linguistico proprio della comunità di appartenenza dei contraenti. L’interprete non può «limitarsi» al significato letterale, ma deve necessariamente passare attraverso esso18, con la conseguenza che il criterio non può essere univoco, ma deve mutare a seconda che il testo si riveli esposto a diverse ipotesi interpretative ovvero si riveli chiaro ed univoco. Nel primo caso occorre abbandonare l’interpretazione letterale per passare all’interpretazione extratestuale, mediante la ricerca della comune intenzione delle parti attraverso dati esterni; nel secondo occorre vedere se sussistono elementi extratestuali capaci di mettere in discussione il significato letterale, suggerendo un diverso significato, maggiormente conforme alla comune intenzione delle parti.

Il problema che si pone, in definitiva, è quello di verificare se e come, nel caso concreto19 l’interprete possa constatare che gli elementi extratestuali abbiano un vigore semantico sufficiente a sovvertire il significato letterale del contratto, segnando un’intenzione comune alle parti che si ponga in contrasto con la formulazione del testo contrattuale. Solo in tale ipotesi può essere data prevalenza al significato extratestuale, ma a tanto l’interprete non può approcciarsi senza assolvere all’onere di motivare il sovvertimento con logica e precisione.

Più volte la giurisprudenza ha evidenziato che, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto: per «senso letterale delle parole», nondimeno, si intende tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato20. Si è peraltro precisato che il giudice ha il potere-dovere di stabilire se la comune intenzione delle parti risulti in modo certo ed immediato dalla dizione letterale del contratto, attraverso una valutazione di merito che consideri il grado di chiarezza della clausola contrattuale mediante l’impiego articolato dei vari canoni ermeneutici, ivi compreso il comportamento complessivo delle parti, in quanto la lettera (il senso letterale), la connessione (il senso coordinato) e l’integrazione (il senso complessivo) costituiscono strumenti interpretativi legati da un rapporto di implicazione necessario al relativo procedimento ermeneutico21.

Se è vero, dunque, che l’elemento letterale assume funzione fondamentale, la valutazione del complessivo comportamento delle parti non costituisce un canone sussidiario, bensì un parametro necessario ed indefettibile, in quanto le singole clausole, da interpretare le une a mezzo delle altre, senza potersi arrestare ad una considerazione atomistica delle stesse, neppure quando il loro senso possa ritenersi compiuto, debbono essere raccordate al complesso dell’atto e l’atto deve essere esaminato valutando il complessivo comportamento delle parti.

A ben vedere, l’interpretazione extratestuale del contratto finisce con l’essere servente al fine ultimo dell’ermeneutica contrattuale, che è quello di individuare la comune volontà dei contraenti, la cui ricostruzione – questo è il senso dell’art. 1362 c.c. – deve basarsi su due elementi principali: il significato letterale delle parole usate e la ratio del precetto contrattuale22. Entrambi i criteri, non sussistendo un preciso ordine di priorità, sono destinati ad integrarsi a vicenda. L’interpretazione extratestuale non potrebbe raggiungere lo scopo se prescindesse da quella letterale e, viceversa, un’interpretazione strettamente letterale resterebbe priva di contenuti se ignorasse gli elementi extratestuali che concorrono, attraverso il criterio comportamentale, a rendere palese la reale comune volontà delle parti. Come tutti i negozi giuridici, il contratto è innanzitutto ed essenzialmente caratterizzato dalla corrispondenza degli effetti negoziali alla volontà delle parti. L’ermeneutica contrattuale è ermeneutica negoziale e, pertanto, deve soprattutto attingere la volontà cui corrispondono gli effetti che scaturiscono dal testo contrattuale.

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Note

1 Cfr. Cass., III sez. civile, sentenza 23 maggio 2014 n. 11533, in Foro it., 2015, I, 2159.

2 Cfr. BIANCA, Il contratto, Milano, 2000, p. 414.

3 In tal senso, v. SACCO, L’interpretazione, in Trattato di diritto privato diretto da RESCIGNO, Torino, 2002, p. 546.

4 v. GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004, 64.

5 BIANCA, op. cit., p. 408.

6 v. GALGANO, Trattato di diritto civile, Padova, 2010, II, p. 452.

7 v. sentenza cit. a nota 1.

8 Cfr. Cass. 9 dicembre 2014, n. 25840, in Corriere giur., 2015, 1378, con nota di D’AURIA e in Guida al dir., 2015, fasc. 5, 48, con nota di SACCHETTINI.

9 Cass. 11 marzo 2014, n. 5595 in Nuova giur.civ., 2014, I, 616, con nota di CORALLO. Nello stesso senso, v. Cass. 21 agosto 2013, n. 19357, Foro it., Rep. 2013, voce Lavoro (rapporto), n. 786; 4 gennaio 2013, n. 110, ibid., n. 791; 20 dicembre 2011, n. 27564, id., 2012, I, 1091, con nota di MENZELLA; 7 giugno 2011, n. 12297, in Contratti, 2012, 125, con nota di BARILLÀ, Comportamento successivo delle parti e forma scritta «ad substantiam»; 12 luglio 2010, n. 16298, Foro it., Rep. 2010, voce Lavoro (rapporto), n. 863; 22 marzo 2010, n. 6852, ibid., n. 865; 5 giugno 2009, n. 13083, id., Rep. 2009, voce Lavoro (contratto), n. 24; 26 febbraio 2009, n. 4668, ibid., voce Lavoro (rapporto), n. 1339. Nella giurisprudenza di merito, v. altresì App. Catanzaro 13 luglio 2010, id., Rep. 2011, voce Lavoro (contratto), n. 100; Trib. Bologna 28 giugno 2010, in Giur. merito, 2011, 2363, con nota di PICCININI, L’atto di adesione del creditore all’accollo esterno privativo tra criteri interpretativi e produzione in giudizio dell’accordo; Trib. Cagliari 29 aprile 2009, Foro it., Rep. 2010, voce cit., n. 430, e 15 marzo 2006, id., Rep. 2008, voce Contratti pubblici, n. 432, in materia di contratti stipulati dalla pubblica amministrazione; App. Milano 5 febbraio 2005, in Giur. merito, 2006, 286, con nota di BRUNO-DE DIVITIIS, Interpretazione del contratto: mandato di credito e lettera di patronage.

10 Cass. 3 giugno 2014, n. 12360, Foro it., Rep. 2014, voce Contratto in genere, n. 344.

11 così Cass. 10 dicembre 2008, n. 29029, in Giur. it., 2009, 2178, con nota di SICCHIERO, Una buona decisione sulla rilevanza del comportamento dei contraenti (art. 1362 c.c.).

12 Secondo Cass. 3 ottobre 2011, n. 20192, Foro it., Rep. 2012, voce Lavoro (rapporto), n. 805.

13 Cfr. Cass. 25 ottobre 2006, n. 22899, in Nuova giur. civ., 2007, I, 763, con nota di SESTI, Interpretazione del contratto: senso letterale e criteri ermeneutici, e Cass. 28 marzo 2006, n. 7083, Foro it., Rep. 2006, voce cit., n. 474. Più di recente, v. anche Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23142, in Ricerche giuridiche, 2015, 169, con nota di FRAULINI.

14 Cfr. PERLINGIERI, Manuale di diritto civile, Napoli, 2014, p. 622, secondo il quale il brocardo in claris non fit interpretatio deve essere respinto anche con riferimento all’interpretazione del contratto.

15 Sulla portata del brocardo in claris non fit interpretatio, v. L’interpretazione del contratto – Orientamenti e tecniche della giurisprudenza a cura di ALPA, FONSI e RESTA, Milano, 2001, p. 118; SACCO, Il contratto, Torino, 1975, p. 769.

16 v. COSTANZA, Interpretazione dei negozi di diritto privato, voce del Digesto civile, Torino,1993, X, p. 29, secondo cui la base testuale della dichiarazione non deve essere sottovalutata, non potendo essere smentita neppure dagli stessi contraenti.

17 Cfr. GENTILI, in Commentario al codice civile a cura di GABRIELLI, Milano, 2011, sub art. 1362, p. 413, la cui opinione è che il comportamento non può mai rilevare contro i significati possibili del testo: il comportamento anteriore contra textum esprime intenzioni abbandonate e uno successivo significa violazione del contratto, se unilaterale, o modificazione di esso, se bilatelare.

18 Cfr. ROPPO, Il contratto, in Trattato di diritto privato a cura di IUDICA e ZATTI, Milano, 2011, p. 445, il quale sostiene che sussiste una divaricazione tra le ipotesi di testo oscuro o ambiguo e quelle dal testo chiaro e univoco.

19 Sulla giustizia del caso concreto, v. PERLINGIERI, Fonti del diritto e «ordinamento del caso concreto», in Riv. dir. privato, 2010, fasc. 4, p. 7.

20 Cfr. Cass. 22 ottobre 2014, n. 22343, in Guida al dir., 2014, fasc. 47, p. 28, con nota di PIRRUCCIO; 17 dicembre 2012, n. 23208, in Corriere giur., 2013, 1227, con nota di GABBANELLI, Le parole contano: l’importanza del significato letterale delle espressioni utilizzate dai contraenti nell’interpretazione del contratto; 5 novembre 2009, n. 23455, Foro it., Rep. 2010, voce Contratto in genere, n. 424; 28 agosto 2007, n. 18180, id., Rep. 2007, voce cit., n. 440.

21 così Cass. 3 giugno 2014, n. 12360, Foro it., Rep. 2014, voce Contratto in genere, n. 344.

22 In tal senso, v. Cass. 13 marzo 2015, n. 5102, Foro it., 2015, I, 1969.

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