di Vincenzo Ferrari

Nota redazionale – Contributo destinato agli scritti in memoria di Regine Laugier.

Il diritto privato che, com’è noto, radica le sue origini nell’antichità, particolarmente nell’alveo del diritto romano, in epoca moderna è stato caratterizzato da una intensa connotazione nazionale, presentandosi come uno strumento destinato a regolare i rapporti giuridici intercorrenti tra i soggetti facenti parte di una determinata comunità nell’assetto degli Stati nazionali.

A dimostrazione di ciò si pone innanzitutto il rilievo storico secondo cui il processo di codificazione delle legge civili moderne si è quasi sempre accompagnato a fenomeni politici di riforma sociale ed economica dello Stato, che hanno dato luogo al sorgere di un nuovo ordinamento giuridico.

Infatti, a far tempo dalla fine del XVIII° secolo si è affermata una stretta relazione tra ideologia, politica e diritto, in virtù della quale la legislazione assumeva il ruolo di strumento attraverso cui l’Autorità avrebbe potuto realizzare in concreto un certo modello di società.

In sostanza, mediante la regolamentazione dei processi economici individuali e dei fenomeni sociali, il potere politico ha perseguito il disegno di attuazione della propria ideologia ispiratrice utilizzando le norme giuridiche come strumento privilegiato.

Tali circostanze – unite alla vocazione prevalentemente locale e circoscritta del mercato – hanno caratterizzato l’originaria impostazione “nazionale” del diritto privato moderno, prevalentemente rivolto ai cittadini di un determinato Stato e rispondente ad un preciso modello culturale.

Non deve, quindi, stupire che spesso sia stato il “codice civile” e non già la “costituzione” a rappresentare il momento di arrivo di un movimento di riforma socio-economica ed il punto di unità di una comunità.

Con il passare del tempo, tuttavia, l’industrializzazione dell’economia e l’estensione del mercato ad un ambito transnazionale, hanno imposto la predisposizione di più adeguate forme di disciplina delle relazioni commerciali, estese ai rapporti tra le legislazioni di più Stati.

A questa esigenza, inizialmente si è fatto fronte attraverso la previsione di apposite disposizioni, denominate di diritto internazionale privato – ma facenti parte della normativa nazionale – volte essenzialmente ad individuare la regola applicabile a fattispecie che coinvolgevano legislazioni statali diverse, senza però disciplinarle direttamente.

Nel secondo dopoguerra, tuttavia, tale sistema divenne inefficiente a causa della emersione di molteplici fattori.

Da un lato il nuovo modello economico “globale” provocò l’interdipendenza dei mercati, ormai collegati e tendenti a risentire dei rispettivi andamenti; conseguentemente si ebbe l’elevazione del “mercato” al rango di vera e propria istituzione sovranazionale detentrice della sovranità “sostanziale”, in quanto capace di determinare con le proprie “reazioni” le scelte di politica economica, commerciale e sociale degli Stati.

Dall’altro lato, la semplificazione e la velocizzazione dei mezzi di comunicazione e di trasporto determinarono un’ampia mobilità delle persone, con la contestuale creazione di centri di interesse patrimoniali e non, come dire sia economici sia affettivi, in territori sottoposti all’autorità di Paesi diversi.

In breve, quindi, emerse l’esigenza di una disciplina il più possibile uniforme a livello internazionale per tutti i settori del diritto privato, dal diritto commerciale e dei contratti al diritto di famiglia e delle successioni.

Tale processo, di grande complessità tecnica e politica, ha dovuto fare i conti con le differenti impostazioni esistenti tra i diversi ordinamenti giuridici, in primo luogo tra quelli di civil law e quelli di common law, le cui diverse tradizioni hanno costituito e costituiscono un ostacolo notevole al loro riavvicinamento.

Le prime codificazioni europee delle leggi civili, improntate a criteri di sistematicità, furono il risultato della diffusione del pensiero illuminista, che ebbe nella Rivoluzione francese di fine Settecento la propria principale manifestazione, ma che da lì si diffuse per l’intero continente.

L’ideologia liberale e borghese, ispirata a principi giusnaturalisti tendenti ad affermare la libertà e l’uguaglianza di tutti gli uomini e la centralità del diritto di proprietà, influenzò fortemente la legislazione, nell’obiettivo di realizzare un nuovo ordine politico e sociale.

In Francia, il portato giuridico di questo mutato “clima” culturale fu costituito dal Code civil, approvato nel 1804, che realizzò la convergenza degli ideali rivoluzionali con la tradizione giuridica romanistica ed il diritto consuetudinario francese.

I rapporti commerciali avevano una regolamentazione autonoma contenuta nel Code de commerce del 1807 – ispirato ai principi del liberismo economico – finalizzata ad incrementare l’efficienza del mercato attraverso una disciplina agevole e competitiva.

Il codice civile – caratterizzato da una forte connotazione nazionale – favorì l’affermazione del sistema economico capitalistico e l’ascesa della borghesia, in quanto tendente a tutelare solo la posizione dell’individuo operante nel mercato.

Tale finalità si estrinsecò attraverso il riconoscimento dell’eguaglianza degli “individui”, della loro libertà di azione nel mercato e della centralità del diritto di proprietà, che divenne il caposaldo della normativa privatistica.

L’autonomia negoziale venne a costituire un’area di libertà riconosciuta ai singoli al fine di regolare i propri interessi, nel rispetto dei limiti posti dalla legge e senza ingerenze dello Stato.

In questo contesto, il contratto venne ricondotto nell’ambito dei modi di acquisto della proprietà, assumendo un ruolo strumentale rispetto ad essa.

Peraltro, l’esigenza di favorire gli scambi commerciali portò alla codificazione del principio consensualistico, rispetto alla regola dell’efficacia obbligatoria derivante dal diritto romano.

Per quanto riguarda, invece, la conclusione del contratto l’influenza liberale portò ad esaltare la tutela della genuinità del consenso, al fine di garantire la correttezza formale del processo di formazione del negozio, ammettendo la possibilità di annullarlo solo in presenza di vizi (incapacità, errore, violenza e dolo) in grado di ledere l’uguaglianza dei privati nelle contrattazioni, la cui sussistenza era ritenuta essenziale affinché l’accordo potesse considerarsi giusto.

Nessuna rilevanza era riconosciuta al contenuto economico del contratto – ossia alla proporzione oggettiva tra le prestazioni – sul presupposto che l’accordo raggiunto dai contraenti, capaci e consapevoli, non potesse essere sindacato dall’ordinamento.

Questo assetto disciplinare era completato dall’affermazione del primato della legge scritta, con il conseguente riconoscimento al giudice di una funzione dichiarativa, consistente nella sola applicazione delle norme preesistenti, senza alcuna possibilità di partecipare alla creazione della regola giuridica in relazione al caso concreto, a differenza di quanto, invece, accadeva negli ordinamenti di common law.

L’impostazione rigidamente liberale del Code civil fu però parzialmente attenuata nei tempi successivi, con l’emergere di istanze sociali meritevoli di adeguate forme di protezione.

In questo senso l’originario impianto borghese venne adattato ai principi solidaristici legati alla tutela della persona, con interventi normativi prevalentemente concentrati nell’ambito dei rapporti di lavoro e di famiglia.

Il diritto contrattuale, benché mantenuto coerente con la struttura generale, è stato in parte reso più flessibile alle esigenze di ordine sostanziale, emerse in sede giurisprudenziale.

Il “clima” culturale ispirato agli ideali illuministi si diffuse anche nell’area germanica, in cui il processo di codificazione portò in un primo momento alla approvazione nel 1794 dell’Allgemeines Landrecht fur die Preußischen Staten (ARL) e successivamente alla promulgazione nel 1896 del Burgerlichen Gesetzbuch (BGB), entrato in vigore nel 1900, anch’esso funzionale all’affermazione degli interessi della borghesia, essendo incentrato sulla dimensione proprietaria ed imprenditoriale.

Tale codice si contraddistinse per la disciplina dedicata al negozio giuridico – caratterizzata da un rapporto di equilibrio tra liberismo economico e valori individuali – e per l’ampio uso di clausole generali, volte a favorire l’ingresso nel sistema giuridico delle istanze di volta in volta emergenti dalla realtà economica e sociale.

In particolar modo, queste ultime hanno rivestito un ruolo essenziale nel processo di adeguamento del BGB ai nuovi valori affiorati nel secondo dopoguerra, con il sopravvenuto mutamento istituzionale.

Al modello illuministico era riconducibile anche l’Allgemeines Burgerliches Gesetzbuch (ABGB) promulgato in Austria nel 1811, la cui disciplina risultava in ultima analisi impostata sullo schema proprietario.

Dalle considerazioni che precedono emerge la netta prevalenza nell’esperienza giuridica europea del XIX° secolo del modello ideologico liberal-borghese, che si manifesta nella dimensione nazionale del diritto privato, nella centralità del diritto di proprietà nell’ambito di una economia a base agraria, nel dogma dell’autonomia privata e nel primato della legge scritta, con contestuale esclusione di ogni attività creativa della norma da parte del giudice.

In Italia la codificazione delle leggi civili fu il suggello del percorso di unificazione politica e territoriale del Paese, a dimostrazione dell’importanza che al diritto privato era riconosciuta nell’edificazione della struttura essenziale dello Stato.

Il codice civile venne promulgato nel 1865 e ricalcò il modello del Code francese, di cui riprendeva lo schema, ma soprattutto l’impostazione ideologica, di ispirazione liberale e finalizzata all’affermazione ed al potere della classe borghese.

Anche il testo italiano presentava una intensa connotazione nazionale – non solo per i motivi storici già menzionati –, in quanto era rivolto essenzialmente al “cittadino”, in considerazione del suo status di appartenenza alla comunità territoriale, mentre la posizione dello straniero era regolata sulla base del principio di reciprocità.

La vocazione agraria dell’economia del Paese si riflesse sulla normativa codicistica, impostata intorno al diritto di proprietà, che assunse un ruolo cardine nella regolazione dell’intero sistema dei rapporti intersoggettivi.

Coerentemente con il sostrato ideologico liberale, l’autonomia privata era configurata come area di libertà dell’individuo rispetto al potere statale, volta a consentire ai singoli l’autoregolazione dei propri interessi nel rispetto dei limiti “esterni” (norme imperative e ordine pubblico) posti dalla legge.

La stretta connessione dell’autonomia privata con le libertà individuali, si manifestò con il recepimento del dogma volontaristico, secondo cui il vincolo negoziale sarebbe sorto solo se la volontà manifestata all’esterno fosse coincisa con quella effettiva.

In tale contesto disciplinare, il contratto era relegato tra i modi di acquisto della proprietà, malgrado l’adozione dall’esperienza francese del principio consensualistico rappresentasse un indubbio elemento di novità, destinato ad esaltarne in futuro le potenzialità.

Il diritto commerciale trovava la propria fonte di regolazione nel distinto Codice di commercio, promulgato nel 1865 e riformato nel 1882, che disciplinava questo settore secondo criteri mutuati dall’esperienza tedesca, e improntati alla celerità degli scambi ed all’efficienza del mercato.

In tal senso, la normativa commerciale presentava un minore formalismo ed un maggiore livello di oggettività nell’ambito del procedimento di formazione del contratto, temperando il dogma della volontà ed incrementando la tutela dell’affidamento della parte.

Si evidenziava, quindi, una distinzione netta tra gli atti civili e gli atti commerciali, a cui faceva riscontro la diversità della normativa applicabile per la regolazione degli stessi.

La profonda trasformazione politica e sociale che l’Italia attraversò con l’avvento al potere del fascismo, trovò il proprio riflesso legislativo nella promulgazione nel 1942 del codice civile tuttora vigente.

Il testo normativo, malgrado si basasse sulla tradizione giuridica precedente, presentava numerose caratteristiche innovative, unificando la disciplina “commerciale” con quella “civile”, introducendo valori nuovi ed avviando una nuova stagione del diritto privato, che assunse un ruolo strumentale alla realizzazione dell’interesse pubblico generale.

In questo contesto, infatti, i diritti soggettivi non si ergevano ad aree di libertà dei singoli rispetto al potere pubblico, in quanto erano suscettibili di tutela solo se coincidenti con l’interesse diffuso dello Stato e funzionali allo sviluppo economico del Paese.

Ciò nonostante, il codice non era un testo normativo ideologizzato, esclusivamente piegato alle esigenze politiche del regime fascista, essendo piuttosto il risultato della convergenza delle esperienze giuridiche illuministe, romaniste, germaniche e canoniste.

L’autonomia privata, benché modellata sullo schema francese, non assurgeva più ad area riservata ai singoli ed inaccessibile per il potere statuale, in quanto l’impiego di clausole generali, consentiva comunque la funzionalizzazione degli atti privati alla utilità sociale, ed in modo più ampio alle finalità di volta in volta perseguite dall’autorità politica.

Le innovazioni più interessanti apportate dal nuovo codice si manifestarono nell’ambito del diritto delle obbligazioni e del lavoro, nel quale ultimo settore si dimostrò preponderante la scelta per il modello corporativista, destinato a svolgere una significativa influenza nella legislazione di settore.

Per quanto riguarda il diritto delle obbligazioni, si verificò il c. d. processo di “commercializzazione” del diritto civile – quale portato essenziale dell’unificazione delle discipline – contrassegnato dalla valorizzazione dello strumento contrattuale, svincolato dal diritto di proprietà e dotato di una valenza autonoma, tale da divenire il centro della regolamentazione dei rapporti privatistici, in quanto funzionale alla realizzazione degli interessi dell’impresa, a cui era assegnato il compito di favorire lo sviluppo della nazione, nel passaggio da un modello di economia agraria ad uno industriale.

In termini pratici, il nuovo assetto determinò: il superamento del dogma volontaristico, impostando l’autonomia contrattuale su base oggettiva, attraverso la valorizzazione dell’affidamento dei terzi; la configurazione “oggettiva” della causa del contratto, intesa quale “funzione economico-sociale”, in grado di consentire un controllo preventivo da parte dello Stato sulla meritevolezza dell’operazione negoziale; la previsione di numerose clausole generali, volte a permettere la penetrazione in ambito privatistico dei valori connessi “all’economia nazionale” ed alla “coscienza civile e politica”, al fine di funzionalizzare l’autonomia privata alla realizzazione degli interessi del regime politico.

A questo obiettivo generale possono essere ricondotte le disposizioni contenute nell’art. 1339 c. c. – sull’inserzione automatica di clausole previste dalla legge – e nell’art. 1374 c. c. – sulle fonti di integrazione del contratto – che svolgeranno un ruolo fondamentale in epoca recente nel processo di adeguamento del diritto patrimoniale ai valori costituzionali e di costruzione del diritto europeo dei contratti, consentendo per via interpretativa il riavvicinamento del sistema italiano con gli altri sistemi nazionali.

In ultima analisi, può rilevarsi come le innovazioni apportate dalla codificazione del 1942 introdussero una nuova considerazione dell’“individuo”, non più ritenuto separato dallo Stato e titolare di una serie di libertà negative, ma un “soggetto” chiamato a contribuire, attraverso l’esercizio della propria autonomia negoziale, alla realizzazione del preminente interesse pubblico generale.

Deve, tuttavia, ribadirsi la neutralità della struttura giuridica del codice civile – dimostrata dalla sua attuale vigenza – il quale, malgrado il mutamento del regime politico del Paese e dei valori fondamentali posti a base del sistema, è stato in grado di adattarsi attraverso un processo di rilettura interpretativa ai principi costituzionali ed ai principi generali del diritto europeo.

Infatti, la Costituzione repubblicana del 1948 ha prodotto un’inversione dei valori fino ad allora posti al vertice dell’ordinamento: alle concezioni individualiste di stampo liberale maturate nel vigore del codice civile del 1865 ed a quelle social-corporativiste emergenti dal codice civile del 1942, la Carta fondamentale ha sostituito il valore preminente della persona e della sua dignità (art. 2 Cost.), quale apice dell’intero sistema giuridico.

Il secondo dopoguerra rappresentò un periodo di intensi fermenti ideologici e culturali, conseguenti ai tragici avvenimenti bellici, che avevano segnato uno dei momenti più bassi della storia dell’umanità.

L’opera di rinnovamento che seguì il conflitto ebbe nell’individuazione dei valori fondamentali, su cui costruire il nuovo ordine politico e giuridico, il proprio snodo principale.

Tale processo, che inizialmente riguardò settori di preminente rilevanza pubblicistica, inevitabilmente segnò una nuova rotta ideologica che finì per interessare tutti i settori dell’ordinamento.

Il quadro globale che si presenta agli occhi dell’interprete vede profilarsi due istanze, non necessariamente contrapposte sul piano astratto delle dichiarazioni di principio, ma che nella sostanza possono entrare in contrasto: la tutela della persona e della sua dignità di essere umano e quella dei valori del mercato e dell’economia.

Da un lato, infatti, al secondo conflitto mondiale fece seguito il solenne e formale riconoscimento della posizione preminente e fondamentale dei diritti inviolabili della persona.

In questo senso, si segnalano: la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, atto privo di valore giuridico vincolante ed avente una funzione prettamente politica, ma che ebbe il merito di proclamare a livello “generale” e non più “nazionale” il valore prioritario della persona; la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, siglata a Roma il 4 novembre 1950, che ha assunto la veste giuridica del trattato internazionale, dando luogo ad un apposito sistema giudiziario volto a garantire l’effettivo rispetto dei diritti umani da parte degli Stati aderenti.

In Italia, nella stessa linea ideologica si è collocata la Costituzione repubblicana del 1948, che ha determinato una revisione degli istituti giuridici tradizionali in senso conforme ai nuovi valori e segnatamente al principio di solidarietà sociale.

Dall’altro lato, a partire dal secondo dopoguerra si è assistito alla diffusione “globale” del modello economico capitalista, caratterizzato dalla formazione di ampi agglomerati di potere commerciale e dalla intensificazione degli scambi internazionali, secondo criteri di celerità ed efficienza.

Funzionali all’affermazione di tale modello furono le teorie neo-liberiste, che condussero alla progressiva deregolamentazione del mercato, attraverso l’arretramento della legislazione, che ha lasciato sempre più spazio libero alla autodisciplina dei flussi economici, realizzata attraverso i criteri della concorrenza tra gli operatori, ritenuta in grado di raggiungere le soluzioni più vantaggiose per tutti gli utenti.

In questo contesto il mercato globale – che ha assunto una dimensione transnazionale – è stato elevato al rango di vera e propria “istituzione” detentrice della sovranità sostanziale, disciplinata da regole autonome e funzionali alla efficienza dei traffici, in grado di condizionare e dirigere le scelte di politica economia e sociale dei vari Stati, la cui sovranità territoriale è stata degradata a mera forma priva di reale contenuto.

Tale situazione, benché astrattamente compatibile con i diritti inviolabili della persona, in concreto presenta il rischio di generare uno squilibrio nelle relazioni sociali, in quanto la naturale conflittualità tra poteri economici resta priva di ogni direzione etica che garantisca il rispetto della dignità umana, la quale corre il pericolo di essere sacrificata agli interessi commerciali.

In Italia, il mutamento della forma di Stato, seguito alla caduta del fascismo ed alla sconfitta nella seconda guerra mondiale, fu contrassegnato dalla promulgazione della Costituzione repubblicana del 1948, che pose al vertice supremo del sistema il valore della persona e della sua dignità ed il connesso principio di solidarietà sociale.

Si considerino in questo senso: l’art. 2 Cost., in cui sono riconosciuti i diritti inviolabili della persona umana, sia singolarmente che nelle formazioni sociali in cui si sviluppa e si svolge la sua personalità, e si preconizzano i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; l’art. 3 Cost., che proclama l’eguaglianza di tutti i cittadini dal punto di vista formale ed impegna la Repubblica a realizzarla a livello sostanziale; gli artt. 35-40 Cost., in tema di lavoro, previdenza ed assistenza sociale; l’art. 41 Cost. che subordina l’iniziativa economica privata al rispetto della sicurezza, libertà e dignità umana; l’art. 42 che assicura la funzione sociale della proprietà privata.

Tale innovazione normativa, impose una intensa quanto lenta opera di adeguamento di tutti i settori dell’ordinamento giuridico, non ultimo quello dei rapporti privatistici.

In questo settore, siffatto processo stentò inizialmente ad avviarsi soprattutto per la ritrosia culturale degli interpreti, ancora informati ai dogmi della civilistica liberale.

Infatti, per lungo tempo alle disposizioni concernenti i diritti fondamentali fu riconosciuta una valenza “programmatica”, intendendole quali semplici linee guida volte a determinare un intervento attuativo del legislatore.

Ciò nonostante la giurisprudenza – soprattutto in alcuni settori particolari – iniziò a realizzare l’adeguamento del sistema ai nuovi valori per via essenzialmente interpretativa.

Solo di recente si è addivenuti ad un significativo mutamento di orientamento – che ormai ha raggiunto una notevole diffusione – riconoscendo alle disposizioni costituzionali efficacia “precettiva”, ritenendole, quindi, direttamente applicabili nella disciplina dei rapporti giuridici concreti.

Tale processo, che ha trovato il principale strumento operativo nel metodo esegetico c. d. “costituzionalmente orientato”, ha determinato una nuova funzionalizzazione delle norme civilistiche, interpretate ed applicate in modo che le stesse realizzino i valori fondamentali di tutela della persona e di solidarietà sociale, sul piano sostanziale.

Le vicende storiche ed ordinamentali che conducono il diritto privato dal Codice napoleonico del 1804 fino al Codice civile italiano del 1942, in buona sostanza, non si possono comprendere se si perde di vista il collegamento valoriale che partendo dalla Rivoluzione francese, racchiuso nel motto “libertà, uguaglianza e fratellanza”, conduce fino alla Costituzione della Repubblica italiana del 1948 nella quale i principi di libertà, uguaglianza e solidarietà trovano piena attuazione ponendo il singolo, quale persona umana prima ancora che cittadino, al centro dell’ordinamento giuridico.

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