di Marco Ferrari

La Bibbia dice che non gira, e i vecchi sapientoni ne danno mille prove.
Domineddio l’agguanta per gli orecchi e le dice: sta’ ferma!
Eppur si muove.

(Bertolt Brecht)

 Sommario

  1. Due campi contrapposti
  2. Religione scientifica: il principio di ragione
  3. Scienza religiosa: l’oscurità conoscitiva
  4. Per una conclusione
  5. Appendice

 *

1. Due campi contrapposti

Nelle primissime pagine del libro di Hans Küng L’inizio di tutte le cose si legge: “se si vuole sapere cosa è il Tutto, bisogna sapere come esso si è formato. Se si vuole sapere cosa è il cosmo, bisogna sapere com’è sorto”. Sin da subito si chiarisce un punto fondamentale, l’inseparabilità dell’essenza del mondo e dell’universo dalla determinazione del suo primo impulso.

È un tema problematico soprattutto dal punto di vista teologico, dato che, secondo un’interpretazione letterale delle Scritture, un universo che non sia stato creato in sei giorni non corrisponde alla verità rivelata. Ma è problematico anche dal punto di vista del pensiero scientifico, quando i risultati della ricerca mettono in crisi un sostrato culturale che investe la vita quotidiana. Problematico perché quando c’è contrasto tra religione e scienza sull’origine dell’universo e della vita non si tratta semplicemente di una divergenza di opinioni, bensì della credibilità di visioni che legittimano diversi atteggiamenti verso la società e l’uomo, sia nel costume che nelle regole. Concezioni diverse implicano sistemi divalori diversi, sfociando così nel campo politico, in senso ampio. Il contrasto di fondo è quindi se la realtà sia sorta da un atto di volontà di Dio o si sia sviluppata secondo complessi processi fisici che non hanno un fine in sé; le risposte al quesito assegnano un posto assai diverso all’uomo nel mondo, con tutto ciò che ne consegue.

Nei secoli passati, l’egemonia religiosa in Europa ha reso inevitabile un confronto estremamente aspro tra pensatori e testi sacri, sia sul piano teologico che su quello filosofico: il caso di Galilei e la sua proposta di reinterpretare la Bibbia alla luce delle nuove scoperte astronomiche e scientifiche ne è un grande esempio, sia per apertura di possibilità culturali, sia per conseguenze nefaste. In altri ambiti possono ricordarsi le reinterpretazioni filosofiche di Spinoza e di Kant sulla teodicea, sulla natura dei miracoli, su come l’operato di Dio si esprima per vie naturali e come il fine ultimo delle cose e degli avvenimenti sia sostanzialmente imperscrutabile; nonché sul metodo per intendere i testi sacri, alla luce della loro storicità.

La necessità di trovare legittimità per le scoperte e le teorie scientifiche ha investito la questione dei risultati: laddove una ricerca sia giunta ad un limite invalicabile, dovuto allo stadio di sviluppo dei mezzi a disposizione, è diventato necessario fornire una “garanzia” che possa competere con l’incommensurabile potenza retorica della rivelazione divina. Ciò che giustifica visioni tanto diverse dai testi sacri è il postulato per eccellenza, Dio stesso, il quale diviene, per dirla con Bacone, autore di due diversi “libri”, quello sacro delle rivelazioni e dello spirito, e quello delle leggi della natura. Così, per Cartesio Dio è garanzia della conoscenza; per Newton, Dio e la fisica sono la stessa cosa; per Leibniz, Dio è l’orologiaio che assicura il funzionamento perfetto di un universo armonico, e via discorrendo. Tutto questo può sembrare un tentativo di salvare la scienza dall’ateismo (e a volte dalla censura), ma in ogni caso le scienze naturali, legate sempre e comunque alla filosofia, hanno spesso dovuto fare i conti con la religione organizzata per sopravvivere e svilupparsi.

Nel corso dei secoli, in particolar modo dal XIX secolo ad oggi, la specializzazione disciplinare e il grande progresso tecnico hanno consentito l’accumularsi di una estesa quantità di dati, risultati e fatti accertati, che si sono fatti strada nei processi culturali di ogni Paese, e che le visioni religiose non possono più negare apertamente. Ora è soprattutto la religione ad avvertire il bisogno di credibilità, un bisogno che porta ad assumere un atteggiamento speculare a quello dei pensatori del passato: sono infatti i teologi a cercare nella scienza gli elementi di conferma delle rivelazioni divine, nel tentativo di conciliare l’innegabile con l’insondabile. Küng, teologo “ribelle” spesso in polemica con la Chiesa, sembra essere uno di questi: accettando le scoperte scientifiche, ne evidenzia però i limiti e sottolinea come la possibilità di trovare una formula che spieghi l’universo sia votata al fallimento; vi è insomma un mistero che la scienza non può spiegare, il mistero ultimo dell’esistenza, che lascia sempre la porta aperta alla possibilità di Dio.[1]

Cosa comporta, del resto, questo ribaltamento dei ruoli? È evidente come non si tratti di un mero costume intellettuale, né di esprimere semplicemente la convivenza della fede con la conoscenza scientifica: nulla vieta di credere in un principio ordinatore supremo di fronte alle spiegazioni più critiche, perché la fede in se stessa non ha bisogno di prove. Il concetto è di per sé estraneo a procedimenti dimostrativi. Una fede coerentemente intesa non si scalfisce con ragionamenti logici e dimostrazioni in laboratorio, dato che l’oggetto di essa (Dio, o in genere la vita spirituale) sfugge completamente all’ambito della sperimentazione. Questa fede, però, è quella personale, individuale; la teologia appartiene alla religione organizzata, cioè alla fede istituzionalizzata della collettività.

Il problema è l’attribuzione di valore. La classica critica alla scienza, riassumibile nella frase “essa spiega il come, cioè il funzionamento delle cose, ma non spiega il perché”, è usata tanto dai suoi detrattori quanto dai suoi fautori: l’ambito della ricerca scientifica include lo studio dei fenomeni in quanto tali, non dello scopo in virtù del quale avvengono, quindi ciò che per alcuni rappresenta un limite negativo, che rende la scienza inadatta a dare risposte, per altri è il limite positivo della conoscenza certa e comprovata, a fronte di speculazioni metafisiche arbitrarie. La scienza non dà risposte di tipo finalistico, non ricerca il senso dei fenomeni, perciò non attribuisce un valore intrinseco a ciò che esamina; d’altra parte, la sua risposta culturale all’istanza metafisica risiede proprio nell’assenza di valori intrinseci ai fenomeni naturali.

La risposta della scienza non è rassicurante, perché sembra dimostrare che la vita non ha il senso che l’uomo le attribuisce; non ci sono fondamenti naturali e universali per nessuno dei valori in cui l’umanità si rifugia. È in un certo modo l’apoteosi della precarietà, la nuda e cruda realtà delle cose da cui la metafisica, per dirla con Nietzsche, offre la via d’uscita più tranquillizzante, e la metafisica più potente è quella religiosa: non sono necessarie prove ed esperimenti, non c’è bisogno di conoscenza diretta e comprovata, è sufficiente la fede in un ordine morale naturale.

Ma la comunità scientifica, dal canto suo, ha davvero sempre avuto un atteggiamento limpido verso se stessa e il mondo? Il grande progresso tecnologico quanto ha guadagnato e quanto ha perso grazie alla infinita specializzazione settoriale? E quali elementi la rendono a sua volta “un assolutismo”?[2]

 

2. Religione scientifica: il principio di ragione

Per “principio di ragione” si possono intendere due cose: in senso razionalistico/idealistico, per cui alla base dell’universo, inteso come totalità, presiede un ordine logico in forma di categorie eterne, regolative delle realtà fenomeniche e spirituali; in senso antropologico, la capacità speculativa complessa che caratterizza l’evoluzione cerebrale della specie umana e ne influenza la coscienza di sé e del mondo.

I due sensi possono essere diversi, anche contrapposti, se li si vuole intendere come risposta alla domanda sull’inizio del Tutto; ma possono coincidere se si intende il primo senso come una proiezione del secondo. In sostanza per la ragione umana è molto difficile, come ha osservato anche Darwin[3], immaginare, concepire, che l’infinita varietà delle forme di vita possa essere stata generata da un processo non guidato da una ragione analoga alla nostra, in special modo riguardo alla comparsa dell’uomo. Tanto risulta difficile che non è raro, soggettivamente, l’abbandono di prospettive scientifiche in favore di uno spiritualismo che possa giustificare in modo più “logico” il funzionamento delle cose, arrivando a Dio attraverso l’attribuzione di senso a quei processi naturali conosciuti, in ogni caso, con la comprensione sperimentale della scienza.

Esempio:[4] se l’uomo, atterrando su un altro pianeta, trovasse nella sabbia un anello di diamanti, rimarrebbe sicuramente affascinato dalla scoperta, ma non avrebbe la prova dell’esistenza di una forma di vita intelligente che abbia creato quell’oggetto, perché è probabile, per quanto stupefacente, che in miliardi di anni e in condizioni mutevoli la natura del pianeta sia arrivata a produrre qualcosa di simile a un anello di diamanti, senza necessità di un’azione intelligente. Tuttavia la questione cambierebbe se nella sabbia si ritrovasse un’automobile: di fronte all’enorme complessità meccanica e funzionale dell’oggetto, come si potrebbe mai attribuire la sua esistenza al caso? Un oggetto in cui ogni singolo componente è stato concepito e collocato per uno scopo preciso, con un funzionamento particolare e l’evidenza di un uso specifico, deve per forza essere opera di una intelligenza creativa.

Questa idea, al di là delle sue forzature e delle critiche che può suscitare, rende bene la difficoltà di immaginare un mondo non intenzionale, cioè non frutto di un “progetto” basato sulla creatività razionale. L’essere umano è creativo, tutto ciò che compone la sua sfera esistenziale è frutto della sua ragione, sia in senso speculativo, sia in reazione agli eventi ambientali. Nel momento in cui l’essere umano valuta ciò che lo circonda, non può fare a meno di imputarvi la stessa finalità razionale che lui per primo possiede e di cui ha esperienza quotidiana. Dunque, il principio di ragione che regola l’universo è una proiezione oggettivata della razionalità propria dell’umanità.

Küng sostiene che la teologia dovrebbe abbandonare i dogmi ed aprirsi ad un confronto critico su più livelli con le scienze naturali, per elaborare un nuovo metodo di ricerca sull’uomo e sul mondo; come d’altra parte le stesse scienze naturali dovrebbero prendere atto del fallimento della loro aspirazione ad essere una Weltanschauung e recuperare il rapporto con la teologia. Per molti versi condivisibile in un quadro culturale dialogico, l’ambiguità della posizione di Küng risiede però nel fatto che scienza e religione restano, da un lato, due sfere distinte, mentre dall’altro perseguono un obiettivo comune: quindi la scienza, fallendo nel dare un proprio significato al mondo, dovrebbe invece ricercarlo nella visione teologica, che a sua volta proprio nella scienza troverebbe un compimento non più idealistico, ma concreto. Questo vuol dire che la religione accetta l’uso della ragione per conseguire i propri obiettivi e contemporaneamente sostiene e promuove la scienza da una prospettiva teologica.[5]

D’altra parte, già nella comunicazione istituzionale si nota come la Chiesa non si ponga in antitesi alla ragione scientifica, cercando piuttosto di “inglobarla” in termini teoretici: quando il papa si rivolge alla comunità scientifica si guarda bene dal parlare di diavoli e regni celesti, preferendo invece il principio di ragione e l’uso della tecnica come argomenti in comune. Ma la differenza, che in ultima analisi comporta la subordinazione teoretica della scienza, risiede nel significato del termine “ragione” che, come tutte le grandi parole, assume accezioni diverse a seconda di chi lo usa. Infatti, nel rivendicare il principio di ragione nel senso razionalista, il riferimento non è alla ragione umana, bensì a quella divina: Dio è razionalità, ordine da cui derivano il cosmo e l’uomo, il bene e la morale; comprendendo tutto in sé, comprende anche la ragione umana in quanto riflesso della ragione divina, secondo l’ideale biblico dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. La “ragione estesa” (divina) è naturalmente superiore alla “ragione ristretta” (scientifica), la include in sé e la giustifica; le teorie scientifiche sono perciò inferiori teoreticamente alla religione, nel senso di un contrasto tra due razionalità di rango diverso.[6]

In questa prospettiva, subordinare la scienza alla religione implica l’irrazionalità della soluzione al problema dell’inizio di tutte le cose dato dall’evoluzionismo (per quanto questo possa essere tecnicamente ammissibile), in quanto nega la fonte divina, e perciò razionale e morale, della realtà, privando di significato gli eventi e l’uomo stesso. Il primato della “ragione estesa” recupera invece la questione del senso: ogni fatto ha un valore in quanto il mondo è creazione di un essere senziente, per sua natura Sommo Bene morale, quindi il valore della vita è insito nella vita stessa. Da qui si arriva ai valori etici, in quanto non esiste evento, fenomeno o azione che non si possa elevare a valore di vita. Al contrario, per la scienza la constatazione di un fatto non implica attribuzioni di valore: su questo presunto “vuoto nichilistico” la teologia cerca il suo spazio, riducendo la scienza a mezzo utile per ricerche orientate verso lo spirito nel mondo e, in ultima analisi, alla giustificazione di se stessa e dei propri valori di fronte alla modernità.

  

3. Scienza religiosa: l’oscurità conoscitiva

La scienza è metodo, ricerca, sperimentazione. La produzione teorica è fondamentale e non è riducibile alla sola tecnica. Nel corso dell’ultimo secolo sono sorte discipline, come la sociologia della scienza e la filosofia della scienza, che fanno parte dei corsi universitari nelle facoltà umanistiche e giuridiche; esperienze come il Circolo di Vienna, l’epistemologia di Popper, le valutazioni sulla metodologia dei programmi di ricerca (Lakatos) e sulle “fasi” della scienza (Kuhn), sono esempi di una grande produzione teoretica. Il fatto stesso di parlare di pensiero scientifico, non solo di metodo o di tecnica, rivela la profondità di questo campo culturale. E si tratta anche di pensiero astratto: senza la dimensione immaginativa, la speculazione razionale e il sentimento della curiosità, mancherebbe una parte imprescindibile della formulazione delle teorie che, poi, dovranno verificarsi sul piano sperimentale. La matematica stessa è pensiero astratto che, applicato in fisica, ha reso possibile la creazione di formule a spiegazione sia di fenomeni direttamente osservabili, sia della teorizzazione dell’intima natura della materia, della conformazione dell’universo e delle dimensioni, e naturalmente dell’inizio di tutte le cose. Dallo studio di oggetti puramente intellettivi, ossia a partire da costruzioni razionali, si arriva all’indagine empirica; esempio classico ne è la teoria della curvatura dello spazio-tempo elaborata da Einstein, rimasta pura speculazione fino all’osservazione diretta del fenomeno cosmico che ne ha fornito conferma.

Tutto ciò delinea la a-dogmaticità del pensiero scientifico, in quanto ogni teoria, ogni metodo di ricerca, ogni sistema, è sempre superabile, mai dato come ultimo e definitivo (basti pensare al principio di indeterminazione di Heisenberg). La discussione razionale, se non giunge a trovare la verità, può far almeno scoprire l’errore: la scienza non è mai un monologo, perché se lo fosse arriverebbe ad un punto morto. Per questo è chiaro che esiste anche una dimensione “metafisica” della scienza, intesa come astrazione propedeutica all’indagine sperimentale. La metafisica è sì distinta dalla scienza, ma non può essere relegata a chiacchiera insignificante[7], come in fondo cercò di dimostrare Kant riguardo ai limiti della conoscenza (una metafisica critica); le idee metafisiche, nelle scienze naturali da Talete ad Einstein, hanno innegabilmente tracciato una strada da seguire.

Eppure, a partire da un punto di vista storico-sociologico, anche nella scienza si sono sviluppati caratteri propri di una religione. Naturalmente non si tratta tanto dell’aperta professione di fede di taluni studiosi, quanto di risvolti oscuri nelle meccaniche stesse di ricerca e sperimentazione.[8]

Il periodo aureo della scienza si colloca a cavallo tra XIX e XX secolo, l’epoca del Positivismo di Auguste Comte: la capacità di progresso insita nella scienza riempie di fiducia le persone, mentre la religione sembra diventare il simbolo di tutto ciò che è vecchio e sostanzialmente falso. Ma la comunità scientifica, similmente alla Chiesa, ha una sua dualità: il dubbio, pietra angolare del pensiero, è coltivato nel chiuso dei laboratori, lontano dal popolo come le discussioni teologiche, mentre l’onnipotenza presentata alle genti fuori da quei laboratori ingrandisce la gloria delle conquiste del progresso. Questa caratteristica ha la sua estrema conseguenza proprio nel caso di Comte, che elabora la religione dell’Umanità per rigenerare la società; i termini sono noti: l’amore di Dio è sostituito dall’amore dell’Umanità, che trascende gli individui ed è formata da tutti, anche dai morti e da quelli non ancora nati, che si ricambiano in essa come le cellule di un organismo; essa va venerata come gli dèi pagani, gli individui sono un suo prodotto. A essa, come in una Trinità positiva, si affiancano il Grande Ambiente (lo spazio) e il Grande Feticcio (la terra); in generale Comte ricalca la struttura del cattolicesimo, da cui è affascinato per l’universalismo, trasportandovi i valori positivisti.[9] Con questa elaborazione, Comte irrigidisce le sue posizioni arrivando a condannare le ricerche la cui utilità non è evidente, ossia quelle specializzate, anche sperimentali, e ritiene che la scienza non vada lasciata agli scienziati, bensì ai filosofi positivi, sacerdoti dell’Umanità. In tutta evidenza questo sapere assolutizzato, analogamente alla religione, è funzionale a un ordine sociale stabile.

Successivamente, con l’esperienza dei totalitarismi, delle guerre mondiali e dell’asservimento della scienza al profitto e alle prospettive militari (a partire dal Manhattan Project, che darà vita alla bomba atomica), lo scienziato perde quello status di sacerdote del progresso umano e civile; la scienza diventa più laica e “profana”, forse non ispira più grande fiducia come un tempo e non si presenta più come onnipotente.[10] Tuttavia non resta priva di elementi religiosi;[11] più di tutto, con il progresso tecnologico e la specializzazione disciplinare si sta facendo strada una oscurità conoscitiva dovuta all’eccessiva dipendenza da macchine sempre più complesse, come l’acceleratore di particelle o il microscopio elettronico, il cui funzionamento è noto solo agli specialisti, cioè a coloro che li costruiscono, non a tutti gli scienziati. Questa oscurità conoscitiva porta ad “atti di fede” che rischiano di trasformare in dogmi i risultati degli esperimenti, avvicinando in tal modo la scienza ad alcune forme della religione.

Infine, la preoccupazione di Küng sulla scienza come Weltanschauung priva di fondamento, ha il suo contraltare in alcuni autori che allargano il metodo scientifico a tutti i campi dell’esistenza umana, assolutizzando le istanze di a-dogmaticità e precarietà della vita reale per distruggere il campo spirituale in quanto superstizione, ma finendo così per assolutizzare la stessa scienza e rendere militanti le prospettive, per altro legittime, dell’ateismo e dell’agnosticismo. L’idea già citata che la scienza sia effettivamente un assolutismo, che non sia cioè relativista, poggia sulla solidità delle conoscenze acquisite, dell’accumulazione di quei dati certi che non cambiano valore a seconda dei punti di vista; ma è anche un auto-riduzionismo a logica formale, scevra di prospettive filosofiche. Un ulteriore esempio: l’interpretazione di eventi descritti nella Bibbia come la resurrezione di Cristo, nella prospettiva dell’assolutismo scientifico, non avrebbe alcun significato rilevante, né metaforico, né simbolico, nemmeno letterario; sarebbe solo un vecchio racconto pieno di incongruenze. Ma in questo modo si chiude un’orizzonte di senso, che potrebbe avere invece valore nella prospettiva del pensiero creativo e dell’immaginazione metafisica.

 

4. Per una conclusione

Scienza e religione, al di là di ogni commistione o contrapposizione, sono destinate a viaggiare assieme fino alla fine dell’umanità. Pur occupandosi di ambiti diversi, o forse proprio per questo, si incontreranno sempre, perché ad ogni verità rivelata corrisponde un dato di fatto legato alla realtà da cui quella verità è sorta. Se, come disse Bertrand Russell, “la filosofia è una terra di nessuno tra la scienza e la religione, esposta per questo agli attacchi di entrambe”, allora è proprio in questa sorta di limbo che si trova il terreno fertile per un progresso culturale che vada oltre i dogmi e i riduzionismi, in cui la scienza crea filosofia (come sosteneva Ludovico Geymonat) e la filosofia illumina la scienza, ed entrambe si confrontano con quella teologia che può essere disposta a riformare una Chiesa, che sembra talvolta stentare a comprendere le logiche del mondo moderno. È importante che il “divorzio” tra scienza e filosofia si superi in un nuovo sodalizio, che non può non rafforzare la cultura laica, di fronte ad una religione che ha fatto dell’identità il suo scudo e di una rigida teologia la sua spada.

A ben vedere, vi è persino più spazio per Dio nella scienza, che nella religione: riprendendo l’auspicio di Küng da una differente ottica, è possibile che l’ipotesi di Dio, o meglio la conferma della sua esistenza secondo i canoni della scienza, apra a scenari di comprensione e sperimentazione inimmaginabili, come elemento nuovo di studio. Mentre nella religione si avrebbe in qualche modo la fine del mistero e la probabile smentita, più che la conferma, di molti dogmi e concetti.

Rifiutare le verità della scienza è aberrante; ridurre tutto a quelle, negando o sminuendo una dimensione umana che fa parte di ogni individuo e che non trova collocazione nei risultati sperimentali, è altrettanto azzardato. Una scienza che dia l’impressione di essere “inumana” rischia, nonostante i suoi successi, di lasciar spazio proprio a quella religione che è tanto più rassicurante per la coscienza quanto più elimina il dubbio come possibilità. La creatività, l’immaginazione, la passione per la conoscenza sono gli elementi imprescindibili di un nuovo umanesimo: se la ragione non è curata in profondità, può irrigidirsi fino a diventare il suo contrario, come nel citato caso di Comte (una ricerca può non avere oggi un’utilità evidente, ma i suoi risultati possono rivelarsi enormemente importanti in futuro, per altre ricerche). Una scienza coniugata con una filosofia di ampio respiro può ridare alla ragione il suo ruolo di guida, liberandosi dal pericolo di capovolgerla in un limite alla comprensione dell’uomo nel suo proprio mondo.

 

Se mai l’umanità arrivasse al punto di non operare che su verità eterne,
su risultati del pensiero che posseggano il valore sovrano e l’incondizionata pretesa di verità,
essa sarebbe pervenuta a quel punto in cui l’infinità del mondo intellettivo sarebbe esaurita tanto in atto che in potenza, e sarebbe compiuto il celeberrimo miracolo dell’innumere numerato”
Friedrich Engels

 

Appendice

Bacone secondo Ratzinger

La posizione di papa Benedetto XVI verso la modernità, per come emerge dal capitolo La trasformazione della fede-speranza cristiana nel tempo moderno dell’enciclica Spe Salvi, stimola numerose riflessioni; in questa sede ne potremmo annotare almeno una, l’inizio della “fede nel progresso” attraverso il pensiero di Francesco Bacone. Benedetto XVI prende le opere del filosofo inglese come principio della separazione tra scienza e fede; secondo il papa, è a partire da Bacone che si inizia sostenere la prevalenza della scienza sulla religione in quanto via privilegiata per arrivare alla conoscenza di Dio, finendo col relegare il cristianesimo alla dimensione privata. Il messaggio di Gesù riguarderebbe allora l’individuo singolo e non più i rapporti della comunità.

Viene da considerare problematica l’assunzione dell’opera di Bacone come paradigma di un’epoca: dovrebbe piuttosto considerarsi il pensiero di un singolo autore nel quadro ben più grande delle scienze naturali. Si pensi ad Isaac Newton, di poco successivo, per trovarvi idee molto differenti su Dio e la natura. Non si dovrebbe imputare ad un unico filosofo la svolta di un’epoca complessa e ramificata, né ritenere le sue opere come una sorta di “testo sacro” che fornisce linee guida imprescindibili per la modernità. Inoltre, Bacone non ha mai sostenuto che la scienza debba superare o soppiantare la religione, né che sia la via privilegiata per arrivare a Dio. Per il filosofo inglese, semmai, la scienza affianca la religione pur rimanendone separata: si tratta di due ambiti diversi, con scopi e metodi diversi, uno incentrato sulla Natura, l’altro su Dio e lo spirito. Proprio per questo, la scienza non conduce alla conoscenza di Dio, nessun fenomeno naturale studiabile può far trovare Dio; l’unica conoscenza che se ne può avere scientificamente, riguarda il suo operare nel mondo, i modi in cui la Natura segue le leggi che la regolano.

Pur essendo comprensibile che il papa debba rilanciare la religione cristiana in un mondo tecnologico e individualista, per farlo dovrebbe prendere in considerazione pensatori che certamente hanno una impostazione contraria (modernista, tecnologista, persino antireligiosa), anziché Bacone che, in La nuova Atlantide, lascia ben chiara la religiosità cristiana degli scienziati di Bensalem. Nell’opera, senza dubbio permeata di entusiasmo per il potere conferito dalla scienza, la speranza sta nell’azione dell’uomo sulla natura per risolvere i problemi e creare il benessere, ma questo non implica la rinuncia alla fede come moralità collettiva, o abbandono dell’adorazione di Dio. Forse proprio pensando a questo, il papa scrive: “Non è che la fede, con ciò, venga semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose solamente private ed ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo”. Ma il fatto stesso che l’avanzata civiltà utopica sia cristiana, grazie a una Bibbia arrivata sull’isola in tempi antecedenti, è segno evidente dell’importanza paritaria dei due “libri”, quello di Dio e quello della Natura.

La posizione di Benedetto XVI appare perciò profondamente conservatrice, nel rivendicare la preminenza della fede come unica speranza, superiore e contraria all’azione scientifica, una fede che deve essere collettiva per essere rilevante; questo implica, specularmente, che la fede intima e individuale sia priva di forza e rilevanza. Ma se la fede individuale non ha forza, perché nelle successive critiche a Marx il papa sostiene: “Credeva che, una volta messa a posto l’economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: l’uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall’esterno creando condizioni economiche favorevoli”? Da un lato, sembra che la fede debba essere universale e collettiva per essere rilevante; dall’altra, la natura dell’individuo parrebbe “refrattaria” ai cambiamenti esterni e che dunque la sua vera forza sia interiore. Ciò che traspare come via d’uscita (visto l’invito successivo all’autocritica del mondo moderno e del moderno cristianesimo) è l’idea di una fede che sia preponderante tanto nel mondo “esterno”, collettivo, cioè nelle condizioni materiali, tanto nell’individuo, nella sua intimità, unendo due realtà in qualche modo separate. Non però in senso progressivo, attivo, hegelianamente dialettico, bensì passivo e radicato nell’Essere immutabile, rispecchiando per questo la concezione pre-moderna di fede.

 

Note

[1] Cfr. in particolare Parte A, cap. dal 3 al 6, de L’inizio di tutte le cose (Rizzoli, 2006).

[2] Come ha sostenuto Piergiorgio Odifreddi presentando il suo libro Il matematico impenitente (Longanesi, 2008).

[3] Si veda L’origine delle specie, cap. 14 (“Ricapitolazione e conclusione”).

[4] Questo esempio è di Allen Carr, autore britannico celebre per i suoi approcci prettamente psicologici al problema della dipendenza dal fumo, dall’alcool e dal cibo-spazzatura; nelle sue osservazioni sul funzionamento naturale della nutrizione, sia per gli animali che per l’uomo, è arrivato a riconoscere un senso logico nella Natura che, a suo dire, è talmente evidente da non potersi addebitare al caso, bensì ad una ragione universale. Di conseguenza, Carr ha profondamente riveduto la sua fiducia nelle spiegazioni scientifiche.

[5] Mi sembra inoltre chiaro, anche qui, come si reiteri l’errore di confondere la scienza tout court con la tecnica.

[6] Cfr. Telmo Pievani, intervista a Piero Bianucci dal titolo Darwin, E.T. e Benedetto XVI, pubblicata su La Stampa del 12 febbraio 2007.

[7] Non si può comunque dimenticare la posizione nettamente antimetafisica di Rudolph Carnap, fondatore del Circolo di Vienna, nella sua polemica contro l’esistenzialismo di Heidegger espressa nel saggio Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, così come la logica linguistica di Wittgenstein, per altro entrambi rivali di Popper.

[8] Molte di queste idee sono state approfondite dal sociologo Ercole Giap Parini, ricercatore presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università della Calabria e membro della Associazione Italiana di Sociologia della Scienza e della Tecnica.

[9] L’elenco è lungo: ad esempio, la donna è l’angelo custode positivo che si fa carico della vita sentimentale dell’Umanità (e non ha diritto al divorzio), la società è gerarchica, le leggi scientifiche sono i dogmi, da diffondere con riti e sacramenti “secolari”, il calendario ha nomi di grandi pensatori come santi, gli istituti scientifici sono templi laici, c’è persino la figura del papa positivo che guida le autorità preposte allo sviluppo industriale, all’utilizzazione pratica delle scoperte ecc.

[10] La sfiducia e la sensazione di pericolo riguardo alle potenzialità della scienza sono all’origine di posizioni filosofiche come quelle di Heidegger prima e del suo allievo Hans Jonas poi, che denunceranno in periodi diversi il rischio di auto-annientamento del genere umano, tramite un incontrollato sviluppo tecnologico non rivolto a fini etici.

[11] Ad esempio l’atteggiamento di alcuni scienziati i quali rinunciano al cosiddetto “dubbio sistematico”, preferendo abbracciare teorie più o meno spirituali o idealistiche su taluni temi di fondo, che si può considerare una deriva verso la religione. Parini porta anche esempi a mio parere forzati, come il fatto che la comunità scientifica, appunto in analogia con la Chiesa, non si è avvicinata ad alcuna forma di democrazia dato che le sue decisioni non possono venir prese con votazioni (sicuramente! Ma ritengo auspicabile, se non evidente, che le tendenze più accreditate siano corroborate da fatti accertati).

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